Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 17 settembre 2011

Europa, la crisi dalle molte teste.

di Mary Kaldor. Fonte: sbilanciamoci
Le crisi multiple di oggi riflettono il divario tra i cambiamenti economici e sociali e gli assetti istituzionali e politici che fermi a un’epoca passata. Le proteste sociali hanno bisogno di una risposta istituzionale: è possibile un’Europa di pace, verde, democratica e cosmopolitica, al posto di una burocrazia neoliberista?

Agosto non è stato esattamente un mese di vacanza. Giorno dopo giorno ci piovevano addosso le notizie di crisi multiple – la caduta di Gheddafi, le violenze in Siria, la crisi del debito pubblico in Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda, l’impasse al Congresso negli Usa e il declassamento del debito americano dalla tripla A, l’uragano Irene, e poi la campagna contro la corruzione in India e le rivolte in Inghilterra. Non si faceva in tempo a star dietro alla quantità di eventi straordinari che spuntavano dappertutto.

La crisi finanziaria – come hanno fatto notare altri interventi al dibattito su “La rotta d’Europa” – è espressione di una crisi più diffusa e profonda che si manifesta in termini politici, economici, sociali, ambientali e morali. Una crisi legata alla fine di una lunga fase di sviluppo, fondata sugli stati nazionali, la produzione di massa, alti consumi di energia, soprattutto del petrolio, e dominio degli Stati uniti. Negli ultimi due decenni si è accelerata l’erosione del compromesso tra capitale e lavoro che era alla base del ruolo dello stato, la perdita di sovranità economica, il costo dell’energia – sia economico che ambientale – così come le sfide rivolte al ruolo degli Usa. Si è trattato anche di un periodo caratterizzato dalla crescita della cosiddetta “nuova economia” basata sulle tecnologie dell’informazione e comunicazione, con implicazioni enormi e ancora sconosciute per le relazioni umane. In sostanza, le istituzioni alla base della fase di sviluppo precedente sono state fortemente danneggiate, mentre non sono state ancora create quelle che dovranno gestire la transizione verso il nuovo.

I manifestanti di piazza Tahrir al Cairo e delle altre città del Medio oriente, gli indignados in Spagna e in Grecia o i wutburger in Germania – come spiega l’articolo di Donatella Della Porta – stanno sperimentando nuove modalità di organizzazione sociale e nuove forme di democrazia discorsiva. Ma hanno bisogno di una risposta istituzionale. A livello nazionale il cambiamento è bloccato: i modi di pensare e le politiche del passato sono iscritte nelle strutture degli stati nazionali e nelle verità accettate dai suoi politici. Alcuni cambiamenti sono possibili a livello locale e regionale, ma c’è bisogno di un’agenda globale, soprattutto nei campi della finanza, della sicurezza e dell’ambiente.

I veri creditori siamo noi

Fonte: sbilanciamoci
Al centro della crisi c’è il debito e anche in Italia, come in altri paesi europei, dobbiamo chiedere trasparenza e un “auditing” pubblico sul debito, primo passo per costruire una soluzione politica alla crisi. L’appello che viene dal decennale del G8 di Genova

La discussione in corso sulla “Rotta d’Europa” ospitata dal manifesto e da Sbilanciamoci offre l’occasione per affrontare una delle questioni che sono alla radice della crisi che il continente sta attraversando, e il ruolo centrale svolto in questo contesto dal debito pubblico e dalle modalità proposte per il suo risanamento. Proprio sulla scia delle mobilitazioni degli indignados e di vari soggetti politici e sociali, in molti paesi europei si è aperta una profonda riflessione sul tema del debito e del default, sulla scorta delle proposte e delle esperienze fatte in altri paesi, quali l'Ecuador o il Brasile, riguardo a processi di "auditing" pubblico del debito, che permetta di fare chiarezza, in maniera partecipata, sui meccanismi di indebitamento, le corresponsabilità, e le modalità di un’eventuale rinegoziazione o default. Seppure i processi di indebitamento in quei paesi del cosiddetto“Terzo mondo” sono stati diversi da quelli che hanno portato all'accumularsi del debito pubblico in Italia e in altri paesi europei, la domanda centrale di trasparenza, e l'esigenza di un processo di "riappropriazione" democratica e dal basso delle dinamiche finanziarie sono le stesse. L’appello che presentiamo qui sotto è stato adottato a luglio all'Assemblea internazionale a chiusura delle giornate del decennale del G8 2001 di Genova, e ancor più attuale alla luce dei recenti sviluppi riguardo l'inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione e dell'ultima manovra finanziaria del governo Berlusconi, propone un processo di "auditing" pubblico del debito italiano, sulla scorta delle iniziative già in corso in Irlanda, Spagna, Grecia e di quelle proposte da varie reti e organizzazioni sociali e sindacali in tutta Europa. In Spagna, Democracia Real Ya ha già elaborato un primo documento di auditing sul debito pubblico spagnolo, in Grecia è stato lanciato un appello a tutte le forze sociali e politiche, il Cadtm (Centro per l'abolizione del debito del Terzo mondo) ha rilanciato la proposta di auditing e le campagne che da anni seguono le questioni del debito estero, quali Jubilee, si sono attivate per facilitare lo scambio di esperienze tra movimenti europei e del Sud del mondo. Su questi temi ed esperienze la rivista Red Pepper ha pubblicato uno speciale: www.redpepper.org.uk/behind-the-bankers-mask/, www.redpepper.org.uk/debt-audits-and-a-new-economic-vision/

Per una soluzione giusta ed equa della crisi finanziaria in Italia e in Europa

Dieci anni fa a Genova chiedevamo la cancellazione del debito estero dei paesi impoveriti e la fine degli aggiustamenti strutturali imposti su quei popoli dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale con insostenibili costi sociali e ambientali. Dopo Genova si sono registrati molti passi in avanti sulla questione del debito: l'Ecuador ha compiuto un importante processo di auditoria, la Norvegia, primo stato al mondo, ha riconosciuto l'illegittimità del debito estero, l'Italia che si è dotata per prima di una legge sul debito – la 209 – ha applicato la cancellazione vanificandone gli effetti positivi, poiché contestualmente ha cancellato i cosiddetti aiuti allo sviluppo.

Guerra in Libia - Missione compiuta...




di Alessandro Dal Lago (il manifesto del 16/09/2011)
Sarkozy e Cameron a Tripoli e Bengasi. La visita dei colonizzatori
Viviamo proprio in un mondo strano. L'economia europea sta andando a picco. Dovunque, si annunciano tagli e si fanno previsioni fosche sulla tenuta sociale del vecchio continente. La speculazione internazionale è in agguato. E Cameron e Sarkozy, i leader di due piccole potenze che hanno i loro guai interni, decidono di andarsene a Tripoli a festeggiare - prima ancora che la guerra sia conclusa - la vittoria ottenuta a poco prezzo sulle scalcagnate armate di Gheddafi. La presenza del cosiddetto filosofo Bernard Henri-Levy, magari con il giubbotto anti-proiettile, dà un tono esotico alla trasferta.
Ma si è trattato di una vittoria ancora più strana. La guerra è durata molto di più di quanto pensassero gli strateghi francesi e in realtà non è ancora finita. Senza i bombardamenti Nato, che continuavano anche ieri, e le truppe speciali inglesi, francesi e del Qatar, i ribelli non avrebbero mai potuto prendere Tripoli. L'intervento Nato, fin da marzo, ha ampiamente scavalcato la risoluzione 1973, che prevedeva la protezione dei civili, e ha causato spesso molte più vittime di quante ne aveva causato Gheddafi.
Tra l'altro, la disinformazione di Al Jazeera e Al Arabiya è un caso di manipolazione delle notizie (le «fosse comuni ecc.» allora ancora inventate) degno di ogni manuale di propaganda. Ma tutto questo è acqua passata, anche se il comportamento degli occidentali lascia a desiderare sul piano, diciamo così, etico. Prima, chi più e chi meno, omaggiano Gheddafi e gli consegnano i presunti terroristi. Poi, alla prima occasione, gli danno addosso in nome della democrazia e della primavera araba. Anche su questo l'Italia ha primeggiato in doppiogiochismo e i vantaggi del voltafaccia saranno probabilmente esigui.
Ma il vero problema è il domani. Nessuno ha le idee chiare sul futuro assetto della Libia. È assai improbabile che uomini come Jalil e Jabril, compromessi con Gheddafi, potranno mantenere il loro ruolo di leader del paese, visto che il Cnt di Bengasi ha avuto un ruolo relativamente modesto nella caduta del regime. E nessuno può scommettere su una pacificazione generale, dato che comunque Gheddafi disponeva di qualche consenso in diverse zone del paese, e che gli interessi dei diversi gruppi di ribelli sono oggettivamente in conflitto su molti punti, a partire dal controllo delle risorse energetiche. Il recente rapporto di Amnesty International su esecuzioni sommarie e cacce all'uomo da parte dei vincitori conferma quello che chiunque avrebbe potuto prevedere. Le guerre civili finiscono tutte allo stesso modo. La differenza è che, al di là degli appelli rituali, Onu, Nato ecc. fanno finta di nulla.
Questo comporta due conseguenze su cui è bene riflettere. La prima è che, al di là delle promesse rituali di non interferire sugli affari interni della Libia, Francia e Gran Bretagna, e in misura più defilata gli Usa, non potranno che esercitare una specie di protettorato, diretto o indiretto, sul paese (tantopiù che arriva anche l'«ottomano» Erdogan). Cercheranno di rendersi il più possibile invisibili, per non irritare i libici. Ma avrebbero dato fondo alle loro scarse risorse militari per starsene poi al balcone? E se così non sarà, non verrà il giorno in cui gli abitanti cominceranno a mettere in discussione il ruolo degli ingombranti salvatori? Tra l'altro, le armi sdavvero non mancano.
Il secondo punto riguarda noi. È stata fatta una guerra a costo zero (per noi), senza che l'opinione pubblica, soprattutto quella che passa per democratica, si sia preoccupata troppo delle premesse giuridiche e politiche: evidente violazione della risoluzione Onu, messa tra parentesi dell'articolo 11 della costituzione, totale disinformazione da parte dei comandi Nato, dei media e così via. Siamo sicuri che per noi cittadini si è trattato di una vittoria?

venerdì 16 settembre 2011

Un mare di soldi alle banche

di Galapagos (il manifesto del 16/09/2011)
Accordo con 4 banche centrali per rifinanziare il sistema creditizio. Euforia delle borse
Alle banche i soldi non si fanno mai mancare: la Bce ha annunciato un intervento congiunto di cinque banche centrali per reintrodurre le agevolazioni che garantiscano liquidità in dollari. La ripresa dei finanziamenti è stata decisa per aiutare le banche europee a finanziarsi in dollari visto che a causa della crisi dei debiti sovrani avevano enormi difficoltà a trovare credito. Nella sua opera di finanziamento, la Banca centrale europea ha trovato un accordo con la Federal reserve statunitense, con la Bank of Japan, la Banca centrale svizzera e quella inglese. Come avverrà l'operazione di finanziamento è spiegato in un comunicato emesso dalla Bce: nel quale si spiega che «ha deciso, in coordinamento con la Fed, La Boe, la Boj e la Snb di avviare tre diverse operazioni per fornire liquidità in dollari con prestiti a tre mesi fino alla fine dell'anno». Le operazioni saranno condotte a tassi fissi e sulla base di aste che si terranno il 12 ottobre, il 9 novembre e il 7 dicembre.
Le Borse europee che già prima dell'annuncio erano in territorio positivo, hanno accolto la notizia con forti rialzi, in particolare i titoli bancari. Piazzaffari ha chiuso con un rimbalzo del 3,55% dell'indice Mib. La decisione ha ridato vigore anche all'euro che è prima risalito sopra quota 1,39 sul dollaro per poi ripiegare in chiusura a 1,3845. Un po' di respiro anche per i titoli del debito pubblico italiani: lo spread Btp-Bund si è ridotto a 356 (3,56%) punti base, in flessione di 14 centesimi rispetto a mercoledì. E, a proposito di titoli del debito pubblico, la bilancia dei pagamenti di luglio, diffusa ieri dalla Banca d'Italia, offre le prime evidenze dell'impatto della crisi del debito anche su Bot e Btp. In particolare sui titoli a medio e lungo termine i disinvestimenti di portafoglio degli investitori esteri hanno superato i 15 miliardi, mentre nei due mesi precedenti si erano registrati forti afflussi dall'estero sui titoli del debito. Colpito anche il breve termine con vendite per 5,7 miliardi. Luglio ha quindi anticipato il fenomeno che dovrebbe essersi accentuato ad agosto quando le tensioni sono aumentate e gli spread di rendimento dei titoli di stato italiani nei confronti dei bund hanno toccato i nuovi record dalla nascita dell'euro. Secodo molti esperti, il fenomeno del disinvestimento non è dovuto a speculatori, ma dietro le vendite ci sono fondi pensione europei e internazionali che hanno lasciano i titoli italiani perché non danno loro più sicurezza.
Ieri è stato anche pubblicato il numero di settembre del Bollettino mensile della Bce. Tra l'altro viene spiegato che la decisione del 7 agosto di riprendere l'acquisto (sospeso a fine marzo) di titoli di stato è stato motivato «dal rischio significativo che, in assenza di interventi, il funzionamento di alcuni mercati dei titoli di Stato venisse compromesso e le tensioni si propagassero ad altri mercati». Per l'Istituto centrale europeo, «ove si fosse concretizzato, tale rischio avrebbe avuto un pesante impatto sull'accesso ai finanziamenti nell'economia dell'area dell'euro».
Per il resto, la Bce manda a dire che la politica monetaria resta accomodante anche se «alcune condizioni di finanziamento si sono inasprite». In ogni caso la Banca centrale resterà concentrata sul proprio mandato di mantenere la stabilità dei prezzi nel medio periodo, assicurando in tal modo che la recente evoluzione dei prezzi non produca pressioni inflazionistiche generalizzate. Quanto alla evoluzione del Pil, la Bce si attende una crescita moderata dell'economia dell'area, a fronte di un livello di incertezza particolarmente elevato e di rischi al ribasso intensificati. Questo significa che la crescita del Pil in termini reali dovrebbe aumentare a ritmo molto moderato nella seconda metà di quest'anno.
Non poteva, poi, mancare un appello ai paesi Ue di tenersi pronti a varare misure aggiuntive per l'aggiustamento dei conti pubblici. In particolare «è essenziale che i provvedimenti annunciati trovino piena applicazione». Altrimenti «i governi devono essere pronti ad attuare misure di risanamento aggiuntive, in particolare dal lato della spesa, qualora si concretizzino rischi relativi alla realizzazione degli attuali obiettivi di bilancio». Inoltre, il risanamento di bilancio e le riforme strutturali «devono procedere di pari passo per rafforzare la fiducia, le prospettive di crescita e la creazione di posti di lavoro».

FERRERO: NAPOLITANO SBAGLIA, GLI SPECULATORI SONO UN PROBLEMA PER L'ITALIA

16/09/2011
«Trovo incredibili le affermazioni del presidente Napolitano: è del tutto evidente che il problema dell'Italia e dell'Europa sono gli speculatori, aiutati dai governi che invece di impedire la speculazione colpiscono i pensionati». «La speculazione è prodotta dalla Bce, che regala i soldi alle banche private, cioè agli speculatori, e li presta a tassi da usura agli stati. L'ultimo esempio è quello di ieri, dove la Bce ha deciso credito illimitato per le banche private europee a tassi dell'1,1%, mentre lo Stato italiano deve pagare interessi di oltre il 5%. Da cittadino italiano sarebbe auspicabile che il governo e il presidente della Repubblica difendessero gli interessi degli italiani invece di coprire le responsabilità degli speculatori».
Paolo Ferrero Segretario PRC

L'Italia sconfitta nella Guerra del Mediterraneo.

di Stefano Marcelli - globalist.it. Fonte: megachip
Due notizie sui giornali di oggi sanciscono la sconfitta italiana sul fronte libico e anche su quello dei nuovi assetti dell'area mediorientale. La prima, clamorosa, è la visita congiunta di Sarkozy, Cameron ed Erdogan in Libia, con al seguito centinaia di aziende dei propri Paesi. L'assenza di Berlusconi da questa partita segnala la sconfitta italiana sulla presenza economica e politica nella nuova Libia del dopo Gheddafi e anche la perdita dell' egemonia storica di Roma sul Paese petrolifero del Mediterraneo.
Nel dopoguerra gli Stati Uniti avevano assegnato all'Italia un ruolo egemonico sul Mediterraneo sia dal punto di vista militare, dove la nostra flotta aveva preso il posto di quella inglese e quella francese, sia dal punto di vista economico e politico con l' Eni che contrastava soprattutto i francesi sulla gestione delle risorse energetiche nell'area.

Il colpo di Stato che il 1 settembre del 1969 portò il colonnello Gheddafi al potere fu concepito in un albergo di Abano Terme e anche quello incruento di Ben Ali in Tunisia fu gestito dai servizi italiani.

Quando il 27 giugno 1980 fu abbattuto l'aereo Itavia ad Ustica, nel Ciad era in corso uno scontro armato dove le truppe libiche, sostenute da " consiglieri militari " italiani si scontravano con quelle locali fiancheggiate da quelli francesi. La strage sarebbe stata un atto collaterale a quella quasi-guerra tra Italia e Francia.

Oggi Sarkozy, con la guerra di Libia e l'eliminazione di Gheddafi, si sarebbe preso la rivincita su quelle antiche sconfitte e starebbe recuperando oggi le posizioni perdute dalla Francia nell'area del Magreb.

Ma che l'esito della vicenda libica sarebbe stato questo, nonostante le dichiarazioni rassicuranti del buon Frattini, lo si era capito fin dall'inizio, con la recalcitrante adesione del governop italiano alla missione Nato. Ancora più inquietante è l'altra notizia che ci informa oggi, attraverso le dichiarazioni di un manager di Finmeccanica, che l'amicizia tanto sventolata dal premier con il turco Erdogan si è rotta e il leader di Ankara non vuol nemmeno più vedere il satrapo di Arcore.

Dunque, se l'Italia proprio oggi viene ridimensionata nel Mediterraneo, rischia di restare esclusa anche dai nuovi assetti dell'intero Medioriente, che faranno perno proprio sul neo-ottomanesimo di Erdogan.

A 150 dalla nascita, la nostra Nazione sta subendo oggi una delle più pesanti sconfitte della sua storia.

Fonte: http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=2096&typeb=0&L-Italia-sconfitta-nella-Guerra-del-Mediterraneo.

Riccardo Bellofiore: La luce in fondo al tunnel

di Riccardo Bellofiore - Il manifesto - Fonte: liberoit
Dell’articolo di Rossanda una cosa mi ha conquistato: il titolo. Rótta può significare direzione; ma anche sconfitta, sbaragliamento. Di questo stiamo parlando, per quel che riguarda la sinistra. O si parte dalla coscienza che si è al capolinea – e dunque che è ormai condizione di vita o di morte un’altra analisi, un’altra pratica conflittuale, un’altra proposta – o siamo morti che camminano. La luce in fondo al tunnel è quella di un treno ad alta velocità che ci viene incontro.

Si chiede Rossanda: non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? Come si ripara? L’unificazione monetaria in Europa non sarebbe che la figlia legittima della fiducia hayekiana nella mano invisibile del ‘liberismo’. E’ questo che avrebbe retto i decenni ingloriosi che ci separano dalla svolta monetarista. Le economie europee dovevano ‘allinearsi’ a medio termine, grazie alla politica deflazionistica della BCE. Il problema sarebbe la frattura con la linea continua Roosevelt-Keynes-Beveridge, che si sarebbe materializzata nei Trenta Gloriosi in un ‘compromesso’ tra le parti sociali’. E’ la vulgata ‘regolazionista’. Pace sociale e sviluppo trainato dai consumi salariali come perno dello sviluppo postbellico. In Europa, lo spartiacque sarebbe il crollo del Muro di Berlino. Di lì il Trattato di Maastricht, e poi l’istituzione dell’euro. Ne discendono: liberalizzazione dei movimenti dei capitali, primato della finanza, fuga dall’economia reale, delocalizzazioni, indebolimento del lavoro. La bolla finanziaria scoppiata nel 2008 viene in fondo di qui, dalla finanza perversa e tossica.

E’ un quadro non convincente in tutti i suoi snodi. Il keynesismo era stato abbattuto da Reagan e Thatcher, e prima ancora da Volcker. Ma cosa era stato davvero il ‘keynesismo’? Non un ‘compromesso’ tra capitale e lavoro. Tanto meno un’era di crescita capitalistica trainata dai consumi. Il salario non traina la domanda, lo fa la domanda ‘autonoma’ – anche se una migliore distribuzione del reddito può alzare il moltiplicatore. La Grande Crisi e la Seconda Guerra Mondiale avevano prodotto una gigantesca ‘svalorizzazione’ di capitale e una potente iniezione di domanda pubblica in disavanzo, grazie a quel deficit spending che Roosevelt ritenne di poter accettare solo con l’entrata in guerra: mentre lo aveva rifiutato nel New Deal. C’era l’Unione Sovietica, e la fresca memoria degli effetti della disoccupazione di massa. Conservatori e democratici non potevano che optare per la ‘piena occupazione’. Prevalentemente maschile, e orientata a una produzione accelerata di merci, distruttrice dunque della natura. Quando i diritti del lavoro e la crescita del salario reale (e in una certa fase, anche del salario relativo) vennero conquistati, furono strappati con la lotta. Presto - per questa contraddizione tra le altre, ma per questa in modo cruciale - l’eccezione keynesiana si inabissò.

giovedì 15 settembre 2011

Brancaccio: «Il pareggio non impedirà il default»



di Paolo Persichetti. Fonte: liberazione

L’idea di un ricorso ad ipotesi di «default controllato» cominciano a farsi strada. Angela Merkel, decisamente restia a soluzioni del genere anche solo poche settimane fa, ha dichiarato nel corso di una intervista che nell’eurozona «il compito più importante è impedire un default “non gestito” perchè questo non riguarderebbe soltanto la Grecia». La cancelliera tedesca ha auspicato che venga «fatto tutto il possibile per tenere insieme politicamente l’eurozona, perchè altrimenti possiamo ottenere velocemente un effetto domino».

Professor Brancaccio, tra le soluzioni alla crisi greca si fa strada l’ipotesi del fallimento tecnico. La dichiarazione di insolvibilità non sembra più uno spauracchio.
Il fatto che si discuta oggi in maniera più esplicita di fallimento e di regolazione del debito è una cosa che non deve meravigliarci. Nel corso della storia si sono verificati numerosi fallimenti degli Stati sovrani. I fallimenti si sono resi necessari in più circostanze. Si dimentica troppo spesso che il reddito dei creditori dipende dalla spesa dei debitori, per cui se si costringono i debitori a ridurre eccessivamente le spese per rimborsare i debiti si finisce per ridurre il volume generale dei consumi e quindi i redditi degli stessi creditori, scatenando così una spirale perversa che sfocia in una crisi irreversibile.

Sia i mercati che la Bce hanno fatto capire che l’Italia ha appena superato la sufficienza e che presto servirà una terza manovra rivolta soprattutto alle uscite dello Stato: tradotto le pensioni. Se questo è il prezzo, non è forse meglio un default governato anche per noi?
La linea Berlusconi-Draghi tracciata dalle direttive indicate nella famigerata lettera della Bce ci porterà inevitabilmente verso quella spirale perversa cui accennavo prima. Seguendo di questo passo i debiti non verrano pagati e si andrà lo stesso verso il default tecnico che sta paralizzando la Grecia.

Quindi hanno ragione i sostenitori del diritto all’insolvenza che dicono: «il debito non l’abbiamo contratto noi, dunque rifiutiamo di pagarlo a nostre spese»?
E’ la linea degli economisti vicino ai movimenti. Tuttavia se si vuol prendere sul serio la posizione del fallimento occorre intraprendere un percorso politico tra creditori e debitori, che però potrebbe anche non realizzarsi; oppure bisogna avere la forza di non ricorrere più al debito estero per un bel po’ di tempo. Altrimenti i tassi sarebbero esorbitanti e subiremmo un effetto di razionamento.

Esiste un’alternativa al default?
Sì, risolvere politicamente la crisi dei rapporti interni all’Europa tra Paesi debitori e Paesi creditori, cioè tra Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e il grande creditore, la Germania, ormai in una posizione insostenibile. La Germania ha accumulato crediti verso l’estero sulla base di una politica che la portava ad esportare molto verso i Paesi fragili e importare poco. Anche in virtù del fatto che i tedeschi hanno adottato politiche fortemente restrittive e di fortissima deflazione salariale competitiva, in totale contraddizione con la sopravvivenza dell’Unione monetaria europea. In altri termini hanno potuto accumulare crediti grazie al fatto che gli altri Paesi assorbivano le loro merci. Affrontare politicamente la crisi dei rapporti tra Paesi creditori e Paesi debitori significa in primo luogo chiamare la Germania alle proprie responsabilità.

GALLINO: LA MINACCIA DELL´ARTICOLO 8


di LUCIANO GALLINO - LA REPUBBLICA del 15 SETTEMBRE 2011.

Fonte: controlacrisi
I commenti all´articolo 8 del decreto sulla manovra finanziaria hanno insistito per lo più sul rischio che esso faciliti i licenziamenti, rendendo di fatto inefficace l´articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori allorché si realizzino "specifiche intese" tra sindacati e azienda. È stato sicuramente utile richiamare l´attenzione prima di tutto su tale rischio, di importanza cruciale per i lavoratori. Tuttavia un´attenzione non minore dovrebbe essere rivolta ad altre parti dell´articolo 8 che lasciano intravvedere un grave peggioramento delle condizioni di lavoro di chiunque abbia o voglia avere un´occupazione alle dipendenze di un´azienda.
Vediamo dunque che cosa potrebbe succedere ad un lavoratore (o lavoratrice) che già è occupato in un´azienda, oppure stia trattando la propria assunzione, laddove associazioni dei lavoratori rappresentative sul piano nazionale o territoriale abbiano sottoscritto con quell´azienda le "specifiche intese" previste dall´articolo 8. Sappia in primo luogo l´interessato che – se ci sono state delle intese in merito – ogni suo movimento sul lavoro sarà controllato istante per istante da un impianto audiovisivo. L´articolo 4 dello Statuto dei lavoratori lo vieterebbe, ma l´articolo 8 del decreto permette di derogarvi. Gradirebbe forse, quel lavoratore, un orario intorno alle 40 ore? Se lo tolga dalla testa. In forza di un´altra "specifica intesa", entro quell´azienda l´orario normale è di 60 ore, il limite massimo posto da una direttiva della Commissione europea, limite che per particolari mansioni può salire a 65; però, in forza della stessa intesa, può in qualche mese scendere a 20. Vorrebbe essere classificato come operaio specializzato, come lo è da tanti anni? Gli viene fatta presente un´altra intesa, stando alla quale quell´azienda può attribuire a uno specializzato la qualifica di operaio generico: prendere o lasciare. Può anche accadergli, dopo qualche tempo, che l´azienda gli proponga di convertire il contratto di lavoro a tempo indeterminato in un contratto da collaboratore a progetto rinnovabile, se garba all´azienda, di tre mesi in tre mesi. Un contratto grazie al quale si ritroverebbe a lavorare nella veste di un autonomo - tali essendo i collaboratori a progetto - che deve effettuare la sua prestazione con tutti i vincoli del lavoratore subordinato, a partire dall´orario e dai controlli audiovisivi, ma senza fruire dei benefici che questi hanno, tipo avere per contratto le ferie retribuite.

"L'Italia faccia come l'Islanda, scelga il 'default pilotato' ed esca dall'euro"


Intervista di Antonella Loi a Loretta Napoleoni - tiscali.it. Fonte: megachip
"Sa che potrebbe essere il giorno in cui la Grecia andrà in bancarotta?". Curioso che il libro di Loretta Napoleoni, economista e consulente di terrorismo internazionale, compaia proprio oggi in libreria. Un testo, Il contagio (edito da Rizzoli), che fotografa puntualmente la situazione attuale, nella quale di qui a poco anche l'Italia potrebbe trovarsi. Come uscire dalla fase del non ritorno allora? La soluzione c'è, dice Napoleoni: l'Italia, d'accordo con l'Europa, scelga il "default pilotato".

Il resto è puro accanimento terapeutico che rischia semplicemente di procrastinare una situazione rischiosa non solo per il nostro Paese ma per l'intera zona euro.

Professoressa, significa che l'Italia come altri Paesi cosiddetti "Piigs" dovrebbe fallire?
"Il problema dell'euro è che, a livello europeo, non esiste né un protocollo né una regola per l'uscita temporanea o permanente di uno Stato dalla moneta unica. Il che significa che la Grecia, ma anche gli altri paesi Piigs come l'Italia sono in balia dei sentimenti del mercato, per quanto riguarda il mantenimento del proprio debito. Significa che se i mercati, come sta succedendo con la Grecia, improvvisamente decidono che questi Stati non sono in grado di ripagare il debito, non c'è una regola su come uscire. Cioè, l'euro non può andare in bancarotta se la Grecia va in bancarotta. Ecco perché parlo di un default volontario pilotato e della creazione di una serie di regole che permettano ad alcuni paesi di uscire temporaneamente dall'euro per riprendersi economicamente, anche in termini di convergenza, tornando entro quei parametri necessari per starci dentro. Seguire insomma l'esempio dell'Islanda che ha fatto un default pilotato e volontariamente è uscita dal mercato dei capitali, ha cioè dichiarato il default e si è messa al lavoro per ripianare i debiti".

Un caso che sembra rimanere isolato.
"Sì, infatti. Si pensi all'Argentina che è andata in default da un giorno all'altro perché i mercati hanno girato le spalle. L'Islanda però ha una situazione migliore dell'Italia perché non ha l'euro come moneta. E il problema è proprio questo. Nel senso: come usciamo dall'euro? Come possiamo staccarci senza creare un terremoto all'interno di tutta l'Europa? Barroso ha detto: mantenere l'euro è una lotta di sopravvivenza per tutti i Paesi. E ha ragione. Infatti nelle ultime tre settimane in Germania e anche in Olanda dentro le banche si lavora per produrre una proposta, una legislazione che permetta di uscire dalla moneta unica".

Cosa succederebbe all'Italia se optasse per il default volontario?
"Se facesse quello che ha fatto l'Islanda, un'uscita pilotata dall'euro, succederebbe che l'Italia dovrebbe garantire la metà del debito nazionale che è nelle mani degli italiani e delle banche italiane, cioè 2.850 miliardi di euro. Questo si può fare con una patrimoniale secca che colpisca con un 5 per cento su quell'1 per cento della popolazione, cioè quelle 70 famiglie che detengono da sole il 45 per cento della ricchezza nazionale. Basterebbe questo per garantire il debito interno. Dopodiché per quanto riguarda il debito esterno, quello che è in mano alle banche straniere, su quello bisognerà fare una ristrutturazione. Si rinegozia come è successo per esempio a Dubai. Io ti pago 45 centesimi per ogni euro e si stabilisce un programma di pagamento nei prossimi 5 o 6 anni e mano a mano si paga. Dopodiché l'uscita dall'euro permetterebbe di tornare alla lira che si svaluterebbe immediatamente dando una spinta alle esportazioni e più competitività".

Luigi de Magistris. Anch'io in piazza con gli indignati.

Contestare un modello di sviluppo ingiusto e fallimentare, come dimostra la crisi attuale, ma anche saper trasformare questa contestazione in mobilitazione civile, senza delegare a "terzi" (governi, Bce, Fmi, banche) l'impegno per la realizzazione di un modello sociale fondato sulla giustizia, l'uguaglianza e la sostenibilità ambientale. Perché l'obiettivo degli essere umani, come insegnano i greci antichi, è conseguire quella felicità che non è solo dimensione privata e individuale, ma condizione pubblica e collettiva, dunque legata alla politica e al governare.

Questo modello sociale e di sviluppo alternativi possono nascere dal tramonto del neoliberismo, responsabile dell' "infelicità" che da tempo stiamo sperimentando anche in Europa.

E' per questo che la crisi va colta come chance. Forse l'ultima. Un modello sociale e di sviluppo alternativi a quelli imposti, in Italia, dalla manovra economica approvata dal Governo, a cui ci sollecitano i cittadini e i lavoratori che hanno partecipato allo sciopero della Cgil e che, oltre i confini nazionali, trovano corrispondenza negli indignados della Spagna, per citare solo un esempio.

La crisi in atto, infatti, impone a tutta l'Europa un ripensamento del cammino economico fin qui percorso, indicando la rotta nel superamento dell'idea che alla sola finanza possa essere affidato lo scettro del governo dell'economia; che il benessere di un paese possa essere indicato esclusivamente dall'andamento del Pil; che il mercato si debba autoregolare costringendo lo Stato a compiere un passo indietro; che il welfare sia una zavorra e la privatizzazione sia l'unica ricetta; che la crescita sia un must da perseguire senza limitazioni. Sono infatti questi principi che ci conducono oggi nel vicolo cieco economico mondiale; sono questi principi che, ostinatamente, il Governo delle destre ancora ripropone. Era possibile un'altra manovra finanziaria che rispondesse ai canoni di giustizia, eguaglianza e sostenibilità ambientale.

Era possibile applicare -solo per avanzare qualche proposta- l'aliquota Iva ai capitali rientrati grazie all'ultimo scudo fiscale, consentendo di recuperare allo Stato circa 20 miliardi di gettito; introdurre una tassazione delle grandi rendite e dei grandi patrimoni, da accompagnare ad un contrasto strutturale all'evasione fiscale e ai costi della politica; attuare una diminuzione delle spese militari, soprattutto in contesti in cui non esiste una strategia diplomatica e il ruolo delle nostre forze armate appare "misterioso".

Era possibile evitare di scaricare la manovra sui redditi da lavoro (in particolare del pubblico impiego), approfittando della crisi per sferzare un colpo violento ai diritti dei lavoratori, come accade con l'art.8. Derogare alla Costituzione, al Contratto nazionale e allo Statuto, per affidare il licenziamento alla contrattazione aziendale, significa infatti distruggere l'art. 1 e il ruolo del sindacato. Era possibile evitare che a pagare fossero i cittadini e il welfare: tagliare agli enti locali vuol dire costringere comuni, province e regioni ad aumentare tasse e tariffe oppure ad azzerare i servizi. Non qualcosa di velleitario, non un lusso.

Trasporti, sanità e istruzione cadranno sotto il fuoco "amico" di una manovra antidemocratica, che colpisce due volte le donne penalizzandole nella previdenza ma anche nella gestione del rapporto lavoro/cura domestica, poiché viene meno il sistema sociale che dovrebbe aiutarle.

Era possibile rispettare la volontà dei cittadini che nel referendum hanno espresso contrarietà alla privatizzazione dell'acqua e dei servizi essenziali, cioè gli stessi che la manovra consente siano venduti a privati (mediante la messa sul mercato delle società partecipate che li gestiscono) in cambio di un incentivo economico.

Per tutte queste ragioni sottoscrivo l'appello per la manifestazione del 15 ottobre, giornata internazionale di "United for global change".

Lo sottoscrivo in quanto sindaco di Napoli, difficile capitale del Sud penalizzata da questa manovra (e dalle altre precedenti di luglio e agosto) per circa 220 milioni di tagli per il solo 2012. Lo sottoscrivo con la convinzione che si debba organizzare una mobilitazione tanto nazionale quanto locale, perché la resistenza dei territori resta preziosa e determinante.

"Un altro mondo è possibile" ed esiste tutta la nostra determinazione per realizzarlo. Anche se forse a "qualcuno" questa determinazione non piace, solo perché teme il cambiamento. Forse a "qualcuno" non piace perché considera la felicità un privilegio intimo per pochi, mentre per noi è un diritto collettivo di tutti. Sapendo che non c'è liberazione spirituale, senza quella materiale. Come insegnava un antico maestro di Treviri.

mercoledì 14 settembre 2011

9/11, dieci anni dopo. Ciò di cui non si può parlare, si deve gridare.


Fonte: infoaut
Dieci anni sono passati da quando tutte e tutti noi, impegnati nelle diverse cose delle nostre vite, abbiamo ricevuto la strana notizia: un aereo si era abbattuto su una delle Torri Gemelle di New York, simboli architettonici di Manhattan e della capitale reale della più grande potenza militare ed economica della storia umana. Poco dopo, un secondo aereo avrebbe colpito l’edificio gemello, rendendo chiaro, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che non si trattava di un incidente: qualcuno, ancora non si sapeva chi, aveva attaccato, in modo inedito e sorprendente, gli Stati Uniti d’America. Il sistema mondiale della comunicazione espresse in quelle ore tutto il potenziale spettacolare accumulato nella sua storia, allestendo di minuto in minuto la narrazione drammatica, perturbante e morbosa del caos che si diffondeva per le strade del Financial District, del sacrificio dei pompieri della Grande Mela, delle immagini raccapriccianti di coloro che si gettavano nel vuoto, imprigionati nei propri uffici tra le fiamme, sfracellandosi al suolo uno dopo l’altro, dopo voli di centinaia di metri di altezza.

Poi, il tremendo epilogo: una dopo l’altra le Torri crollano al suolo, fotogramma dopo fotogramma, pixel su pixel, sommergendo di polveri, fumo e fiamme l’isola più famosa e desiderata del pianeta, uccidendo a migliaia tutti coloro che erano all’interno, i pompieri e le forze di polizia, gli astanti, le folle terrorizzate delle strade adiacenti. Per la città (la gente di New York, traumatizzata, lo ricorda bene, e non ne parla volentieri) si diffuse un odore nauseante di carne umana bruciata. Il mondo intero, riunito di fronte all’oggetto creato e diffuso dalla civiltà che le Torri rappresentavano – il teleschermo – restò per un attimo silente, sgomento. Cos’era successo? Soprattutto, come aveva potuto succedere? Davvero la storia si era affacciata così, all’improvviso, nell’epoca della sua fine presunta, in modo enigmatico e violento, in quella fine d’estate? E soprattutto: cosa sarebbe successo ora? Questa fu l’unità nello stordimento della nuova patria globale, nel primo anno del Terzo Millennio; un’umanità recente, in costruzione a partire dall’altro grande crollo architettonico, meno cruento e ben più potente, un decennio prima – quello del Muro di Berlino. Questo sgomento unitario, quest’attimo dell’umanità che trattiene il fiato, è ciò che è stato raccontato incessantemente da quel giorno ad oggi; oltre alla violenza, è questo che l’11 settembre è diventato nella memoria spettacolare imposta collettivamente; ed è questa memoria, questo mito di fondazione mancato, che vengono oggi glorificati, accanto alle formalità del lutto e della commemorazione delle vittime.

Qualcosa resta rimosso attraverso questo voltarsi indietro disciplinato, politicamente sospetto, mediaticamente militarizzato: ci incarichiamo di ricordarlo. È qualcosa che rimane al di qua della memoria ufficiale, di cui non si dovrebbe o potrebbe parlare: l’inizio della fine del silenzio e dello sgomento su tutto il globo, l’esplosione di gioia di una parte di quel mondo, quel giorno. È l’irrimediabile contraddizione al cuore della narrazione e del mito: l’inizio della guerra permanente con le sue radici materiali profonde, la spaccatura insanabile e lacerante nell’umanità del nuovo secolo, divisa tra gioia e preoccupazione, esaltazione e terrore. Una parte del genere umano cominciò in quelle ore a festeggiare. Dall’India all’Egitto, dall’Iran alla Palestina, dalla Nigeria all’Ecuador intere popolazioni, o grandi settori di esse, hanno espresso il loro godimento con parsimonia o esaltazione, tra manifestazioni di esultanza, brindisi discreti, scandalosi abbracci, solitari sorrisi – anche dentro le metropoli occidentali. L’eredità di questo scandalo è ancora calda nei quartieri arabi di Parigi, in quelli pakistani di Londra, in quelli africani di Roma, dove la figura del defunto sceicco saudita è ancora oggi, per molti, un mito, o nei bar indonesiani dove, alla parola “grazie”, anziché rispondere “prego” (“Samà-samà”), ancora oggi molti camerieri rispondono “‘Samà Bin Ladén!”; ed è diverso commentare l’11 settembre sul palinsesto della CNN o tra i barrios di Caracas, nelle periferie di Bogotà, nei più disastrati sobborghi di Mosca; né sarà facile trovare pietà per i morti del World Trade Center a Kabul, a Baghdad, a Gerusalemme o a Gaza, e persino – per un apparente paradosso storico – in alcuni tra i casermoni più fatiscenti di quella che un tempo fu Berlino est.

L'ITALIA PUÒ AFFONDARE L'UE

DI JOSEPH HALEVI Fonte: ilmanifesto.it
Non si può uscire dall'Unione monetaria europea senza abbandonare l'Unione europea stessa. Come spiegava Luigi Spaventa, in un articolo sulla Grecia apparso su La Repubblica nella primavera del 2010, l'Ume non è un accordo con opzioni di entrata ed uscita. I paesi dell'Ue possono non entrare nella zona dell'euro ma, una volta dentro, la loro appartenenza all'Ume definisce la loro appartenenza all'Unione europea.

Nessun governo si prenderebbe la responsabilità di affondare l'Ue uscendo dall'unione monetaria. Ne consegue che un'eventuale morte dell'euro avverrà perché forze dilanianti avranno assunto una potenza tale da far saltare il sistema. Certo, sarebbe auspicabile un accordo fondato su argomentazioni razionali e non moralistiche, magari anche un accordo di separazione e di divorzio. Tuttavia l'attuale conformazione politico-istituzionale dell'Ue impedisce tale razionalità.

L'Europa di Bruxelles, di Parigi e delle due istituzioni di Francoforte si basa su meccanismi cardinalizi, sul non detto, su tabù, sul non riconoscimento della realtà obiettiva. Basta pensare a tutti i rifiuti proclamati da Angela Merkel riguardo il "salvataggio" della Grecia salvo poi precipitarsi a sostenere i finanziamenti. Sempre tardivamente e male, creando un meccanismo vieppiù tossico. Infatti gli aiuti del fondo di emergenza europeo vengono addebitati ai paesi che contribuiscono al salvataggio. Gli stessi paesi vedranno quindi aumentare il proprio rapporto debito-pil.

La Grecia è un piccolo paese. È vero che può mettere in moto una catena di default ma solo perché il salvataggio degli altri non potrà che affondare i paesi virtuosi. Ma quale virtuosità? Nessuno può dichiarare di esserlo. Se si aggiunge al debito federale tedesco quello di organismi pubblici simili all'Iri (che in Germania ancora esistono) nonché la posizione finanziaria dei diversi lander, si arriverebbe, per la potente Deutschland, ad un rapporto debito-pil di tutto rispetto, non lontano dal 100%. Nessuno però è in grado di farlo pesare sulla Germania.

Contrariamente al pensiero liberaldemocratico che vede nell'Ue solo liberalismo e democrazia, l'Ue è il prodotto di forze economiche oligopolistiche. Unite sul piano della lotta al salario ed unite sulla base della capitalizzazione delle rendite, sia industriali, come in Germania, sia finanziarie, come in Francia e in Italia, queste forze oligopolistiche e statuali si stanno lacerando anche al loro interno (le dimissioni del rappresentante tedesco alla Bce) per via della crisi economica e della loro incapacità a governarla.

In tale contesto, il punto debole del sistema che può scatenare processi di lacerazione non mediabili è l'Italia. Il suo eventuale salvataggio affonderebbe sia la Francia che la Germania. Di maggiore importanza è però il fatto che l'Italia, pur rimanendo un grande paese, ha perso il ruolo ammorbidimento dei rapporti (pessimi) tra la Germania e la Francia, silenziosamente svolto ai tempi del Mercato comune europeo nel '57, alla fine dell'era democristiana.

Non molti vedono la profondissima crisi strutturale ed istituzionale del paese. Per l'Ue l'Italia rappresenta una grande economia alla deriva, senza progetti. Il paese non è in grado di intervenire in Europa con voce in capitolo, sia nei trattati che nei metodi di contabilità corrente che penalizzano duramente ed ingiustificatamente l'Italia. Manca una visione profonda e differenziata. Pensiamo a Gramsci e a Salvemini.

Joseph Halevi
Fonte: www.ilmanifesto.it
13.09.2011

Antigua, Costa Smeralda o San Vittore

Alessandro Robecchi in Il Manifesto. Fonte.
Riassunto delle puntate precedenti. Silvio fa schifo a tutti. La Marcegaglia e Confindustria non lo possono più vedere. I vescovi lo mollano, Bagnasco lo bacchetta. La Cisl, la camerierina del sig. Sacconi, comincia pure lei a storcere il naso. E questo per dire di alcuni che Silvio l’hanno sostenuto a lungo. I poteri forti, sempre se esistono, lo schifano da un pezzo, dimostrando così che non sono forti per niente. Le ragazze, più o meno Olgettine, più o meno a tassametro, più o meno signore della Bari bene (pensa tu la Bari male!) valutano se si può spremere ancora qualcosa dall’unico bancomat del mondo che si sia fatto catramare i capelli. Se sì, bene, se no, via, mollarlo. I compari di merende, i Tarantini, i Lavitola, cominciano a valutare se abbia ancora senso stare aggrappati a un paracadute bucato. Lele Mora parla che è un piacere. La Bce pensa che sia un povero caso umano. La Merkel non sarà esattamente compiaciuta dalle ultime indiscrezioni, così schifose che nemmeno mi spreco a dirle. La stampa mondiale lo chiama “pagliaccio” e “buffone” ad ogni edizione. I suoi elettori lo schifano facendolo precipitare nei sondaggi, certi suoi compagni di viaggio se ne vanno alla chetichella, oppure discutono di quel che succederà dopo di lui, se ne dividono le spoglie mentre ancora respira. Lui, caricatura del potere, deve pietire un incontro in Europa, giusto martedì, per scappare a una chiacchierata con i giudici. Alcuni avversari politici gli offrono un salvacondotto purché tolga il disturbo. Ormai che finisca ad Antigua, in Costa Smeralda o a San Vittore è indifferente a tutti, purché ci faccia la grazia di non insozzare più il Paese con la sua presenza, la sua totale incapacità, la sua volgarità intrisa di ignoranza, il suo dilettantismo. Ora che siamo sull’orlo del fallimento – quello vero – è ora che capiamo quanto ci è costato davvero Silvio Berlusconi. Troppo. Davanti a uno spettacolo così mediocre, può succedere che gli spettatori chiedano indietro i soldi e assaltino la cassa. Sarebbe ora.

martedì 13 settembre 2011

TUTTI IN PIAZZA IL 15 OTTOBRE. APPELLO UNITARIO DEL COORDINAMENTO DEI MOVIMENTI

Fonte: controlacrisi
IL 15 OTTOBRE SARÀ UNA GIORNATA EUROPEA E INTERNAZIONALE DI MOBILITAZIONE
“gli esseri umani prima dei profitti, non siamo merce nelle mani di politici e banchieri,
chi pretende di governarci non ci rappresenta,
l’alternativa c’è ed è nelle nostre mani, democrazia reale ora!”

Commissione Europea, governi europei, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale, multinazionali e poteri forti ci presentano come dogmi intoccabili il pagamento del debito, il pareggio del bilancio pubblico, gli interessi dei mercati finanziari, le privatizzazioni, i tagli alla spesa, la precarizzazione del lavoro e della vita.
Sono ricette inique e sbagliate, utili a difendere rendite e privilegi, e renderci tutti più schiavi.
Distruggono il lavoro e i suoi diritti, i sindacati, il contratto nazionale, le pensioni, l’istruzione, la cultura, i beni comuni, il territorio, la società e le comunità, tutti i diritti garantiti dalla nostra Costituzione. Opprimono il presente di una popolazione sempre più impoverita, negano il futuro ai giovani.
Non è vero che siano scelte obbligate. Noi le rifiutiamo. Qualunque schieramento politico le voglia imporre, avrà come unico effetto un’ulteriore devastazione sociale, ambientale, democratica. Ci sono altre strade, e quelle vogliamo percorrere, riprendendoci pienamente il nostro potere di cittadinanza che è fondamento di qualunque democrazia reale.
Non vogliamo fare un passo di più verso il baratro in cui l’Europa e l’Italia si stanno dirigendo e che la manovra del Governo, così come le politiche economiche europee, continuano ad avvicinare.
Vogliamo una vera alternativa di sistema. Si deve uscire dalla crisi con il cambiamento e l’innovazione. Le risorse ci sono.
Si deve investire sulla riconversione ecologica, la giustizia sociale, l’altra economia, sui saperi, la cultura, il territorio, la partecipazione. Si deve redistribuire radicalmente la ricchezza. Vogliamo ripartire dal risultato dei referendum del 12 e 13 giugno, per restituire alle comunità i beni comuni ed il loro diritto alla partecipazione. Si devono recuperare risorse dal taglio delle spese militari. Si deve smettere di fare le guerre e bisogna accogliere i migranti.
Le alternative vanno conquistate, insieme. In Europa, in Italia, nel Mediterraneo, nel mondo. In tanti e tante, diversi e diverse, uniti. E’ il solo modo per vincere.
Il Coordinamento 15 ottobre, luogo di convergenza organizzativa dei soggetti sociali impegnati, invita tutti e tutte a preparare la mobilitazione e a essere in piazza a Roma, riempiendo la manifestazione con i propri appelli, con i propri contenuti, con le proprie lotte e proposte
PER LA NOSTRA DIGNITÀ E PER CAMBIARE DAVVERO

COORDINAMENTO 15 OTTOBRE


Si è costituito il Coordinamento 15 ottobre, luogo aperto di tanti e plurali attori sociali impegnati a costruire la partecipazione italiana alla giornata europea e internazionale di mobilitazione.
La giornata del 15 vedrà mobilitazioni in tutta Europa, nel Mediterraneo e in altre regioni del mondo. Anche in Italia è già stata raccolta da tanti soggetti organizzati, alleanze sociali, gruppi informali e persone.
Il Coordinamento si mette al servizio della riuscita della mobilitazione. Curerà unitariamente le caratteristiche, la logistica e l’organizzazione della manifestazione nazionale di Roma e ne definirà le sue parti comuni.
Il suo obiettivo è favorire la massima inclusione, convergenza, convivenza e cooperazione delle molteplici e plurali forze sociali, reti, energie individuali e collettive che stanno preparando e prepareranno la mobilitazione con i propri appelli, le proprie alleanze, i propri contenuti.
La prossima riunione del Coordinamento 15 ottobre è convocata a Roma, mercoledì 21 settembre, alle ore 10, in via dei Monti di Pietralata 16

Andrea Fumagalli: il default come contropotere alla speculazione finanziaria.


di Andrea Fumagalli (°) Fonte: senzasoste
Nei commenti della maggior parte degli organi di stampa e nelle dichiarazioni sia degli uomini politici che dei cosiddetti esperti, uno spettro (o meglio un incubo) si aggira per l’Europa. Non è lo spettro del comunismo, bensì l’incubo dei mercati finanziari. Tutti sono in attesa del loro responso, forma di moderno oracolo, in grado di condizionare e incidere sulla vita di milioni di persone, di far cadere un governo, di imporre elezioni anticipate oppure la sottoscrizione di documenti e patti sociali altrimenti poco credibili tra firmatari altrettanto poco credibili.

Il biopotere dei mercati finanziari si è grandemente accresciuto con la finanziarizzazione dell’economia. Se il Prodotto interno lordo del mondo intero nel 2010 è stato di 74 mila miliardi di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 mila miliardi di dollari, le borse di tutto il mondo 50 mila miliardi, i derivati 466 mila miliardi. Tutti insieme (al netto delle attività sul mercato delle valute e del credito), questi mercati muovono un ammontare di ricchezza otto volte più grande di quella prodotta in termini reale: industrie, agricoltura, servizi. Tale processo, oltre a spostare il centro della valorizzazione e dell’accumulazione capitalistica dalla produzione materiale a quella immateriale e dello sfruttamento dal solo lavoro manuale anche a quello cognitivo, ha dato origine ad una nuova “accumulazione originaria”, che, come tutte le accumulazioni originarie, è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione.

Per quanto riguarda il settore bancario, nel 1984 le prime dieci banche al mondo controllavano il 26% del totale delle attività , con il 50% detenuto da 64 banche e il rimanente 50% diffuso tra le 11.837 rimanenti banche di minor dimensione. I dati della Federal Reserve ci dicono che dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, circa una media di 440 all’anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500. Al I° trimestre 2011, cinque Sim (Società di Intermediazione Mobiliare e divisioni bancarie: J.P Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas) hanno raggiunto il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati: Swaps sui tassi di cambio, i Cdo ( Collateral debt obligations) e i Cds (Collateral defauld swaps). Fonte: http://www.occ.treas.gov/topics/capital-markets/financial-markets/trading/derivatives/ dq111.pdf.

Nel mercato azionario, le strategie di fusione e acquisizione hanno ridotto in modo consistente il numero delle società quotate. Nel 1984 le prime 10 società con maggiore capitalizzazione di borsa, pari allo 0,12% delle 7.800 società registrate, detenevano il 41% del valore totale, il 47% del totale dei ricavi e il 55% delle plusvalenze registrate. Nel 2011, tali percentuali sono rimaste pressoché inalterate, con la differenza che tre di loro (Merrill Lynch, Lehman Brothers and Goldman Sachs) si sono fuse all’inizio del 2008 o sono divenute compagnie bancarie (ad esempio, l’acquisizione di Merrill Linch da parte di Citycorp) oppure, come nel caso di Lehman Brothers (e Bear Starney) sono fallite, favorendo in tal modo un ulteriore processo di concentrazione (Fonte: Federal Reserve).

In tale processo di concentrazione, il ruolo principale è detenuto dagli investitori istituzionali (termine con il quale si indicano tutti quegli operatori finanziari – da Sim, a banche, a assicurazioni,– che gestiscono per conto terzi gli investimenti finanziari: sono oggi coloro che negli anni ’30 Keynes definiva gli “speculatori di professione”) . Nel 1984, relativamente al mercato americano, il valore dei titoli da loro intermediati, ammontava a circa a 2,6 miliardi di dollari. A fine 2007, secondo i dati della Federal Reserve, gli investitori istituzionali trattavano titoli per un valore nominale pari a 39 miliardi, il 68,4% del totale. E’ importante notare che tale quota si è incrementata nell’ultimo anno, soprattutto in seguito alla diffusione dei titoli di debito sovrano. Ad esempio, per quanto riguarda il debito pubblico, italiano, circa l’87% è detenuto da investitori istituzionali, per oltre il 60% all’estero (a differenza di quanto avviene in Giappone).

Da questi dati, possiamo arguire che in realtà i mercati finanziari non sono qualcosa di etereo e neutrale, ma sono espressione di una precisa gerarchia: lungi dall’essere concorrenziali (credenza apparentemente confermata dall’elevata flessibilità dei “prezzi”, flessibilità che è invece alla base delle plusvalenze), essi si confermano come fortemente concentrati e oligopolistici: una piramide, che vede, al vertice, pochi operatori finanziari in grado di controllare oltre il 70% dei flussi finanziari globali e, alla base, una miriade di piccoli risparmiatori che svolgono una funzione meramente passiva. Tale struttura di mercato consente che poche società (in particolare le dieci, tra Sim e banche, citate in precedenza) siano in grado di indirizzare e condizionare le dinamiche di mercato. Le società di rating (spesso colluse con le stesse società finanziarie), inoltre, ratificano, in modo strumentale, le decisioni oligarchiche che di volta in volta vengono prese.

La crisi va veloce.


Scritto da M. Badiale, F. Tringali. Domenica 11 Settembre 2011

Fonte: megachipinfo
La crisi finanziaria italiana, e più in generale i problemi finanziari ed economici dell'area euro, ci incalzano con continui mutamenti della situazione. Siamo ormai costantemente incollati alle notizie sugli andamenti degli indici di borsa e dello spread fra Btp e Bund tedeschi. In questa situazione ci sembra opportuno proporre al lettore alcune considerazioni utili a decifrare il quadro in continuo movimento che ci troviamo di fronte. In primo luogo, appare davvero assordante il coro unanime sulla necessità della crescita. Governo, Presidente della Repubblica, maggioranza e opposizione, BCE e FMI, sindacati e Confindustria, giornali e televisioni ripetono in continuazione che il vero grande obiettivo è la crescita.

Chi critica la manovra lo fa perché ritiene che in essa non vi siano sufficienti misure per la crescita. Chi la difende argomenta che invece i provvedimenti che favoriscono la crescita ci sono.

Già questo fatto dovrebbe essere sufficiente a farci guardare con sospetto alla “crescita”. Sappiamo infatti che è sempre bene diffidare delle parole d'ordine della casta, soprattutto quando vengono pronunciate in modo bi-partisan.

Se l'intero ceto dominante europeo vuole la crescita, è perché dietro questa parola si nasconde qualcosa di decisivo per i suoi fini e il suo potere.

E la speranza di una eterogenesi dei fini è oramai vana: nei Paesi ad antica industrializzazione, dalla crescita ottengono guadagni e vantaggi solo le oligarchie politiche, industriali e finanziarie. Tutti gli altri, tutti noi, dalla crescita abbiamo solo da perdere.

Infatti da oltre trent'anni oramai, in occidente la crescita economica non determina altro che l'aumento dei profitti, che si accompagna al peggioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza delle popolazioni e all'inasprirsi di una crisi ecologica senza precedenti, in grado di mettere a rischio la stessa sopravvivenza della specie umana sulla Terra.

Pertanto questo coro universale a favore della crescita dovrebbe convincerci, se già non lo fossimo, del fatto che l'idea della decrescita è un fondamento imprescindibile per qualsiasi politica di opposizione alle scelte distruttive dei governanti nostrani ed europei.

Naturalmente per “decrescita” non intendiamo l'assenza di crescita che stiamo sperimentando in questo periodo di crisi.

Il sistema capitalistico nel quale viviamo, oramai arrivato allo stadio di capitalismo assoluto, è completamente incentrato sulla necessità della crescita infinita.

E all'interno di tale sistema, l'assenza di crescita significa recessione, e conseguente impoverimento generale.

Per decrescita quindi non intendiamo meramente diminuzione del PIL, bensì un radicale cambiamento dei rapporti economici e sociali che ci liberi dalla necessità di crescere.

GOVERNO TEDESCO SENZA RITEGNO SUGLI INDENNIZZI ALLE VITTIME DEL NAZISMO

Fonte: controlacrisi
Notizie come queste che leggerete qui di seguito sono il segno del declino dell'Europa. Il governo tedesco non ritiene di dover indennizzare le famiglie vittime delle stragi naziste in nome del principio della sovranità nazionale. Una tale affermazione suona come la volontà di continuare a chiamarsi padroni dell'Europa dato che la Germania indirettamente sta utilizzando la BCE come fosse una clava per impostare intere finanziarie lacrime e sangue agli altri paesi europei.

STRAGI NAZISTE: DA OGGI GERMANIA CONTRO ITALIA ALL'AJA BERLINO A CORTE ONU PER BLOCCO RISARCIMENTI A VITTIME NAZISMO (ANSA) - BRUXELLES, 12 SET - Si è aperta oggi alla Corte internazionale di giustizia dell'Aja la causa intentata dalla Germania contro l'Italia per ottenere il blocco delle indennità alle vittime dei crimini nazisti, ordinato a Berlino da una sentenza della Cassazione. La Germania non si ritiene responsabile delle violazioni dei diritti umani compiute dal Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale e quindi considera le richieste di pagamenti di danni avanzate dagli italiani una violazione della sua sovranità nazionale. Questa la tesi sostenuta nel ricorso presentato da Berlino contro l'Italia le cui motivazioni sono state illustrate in aula dal rappresentante tedesco Suzanne Wasum-Rainer. Domani sarà la volta dell'Italia.
archbishop Oscar Romero, killed in San Salvador, while celebrating mass.
after 31 years, the killer, Marino Samoyoa Acosta
arrested today.
Instigators still unknown.

lunedì 12 settembre 2011

Il lungo purgatorio che ci attende.


di Franco Berardi (Bifo) Fonte: comedonchisciotte
“L’operaio tedesco non vuol pagare il conto del pescatore greco.” dicono i pasdaran dell’integralismo economicista. Mettendo lavoratori contro lavoratori la classe dirigente finanziaria ha portato l’Europa sull'orlo della guerra civile. Le dimissioni di Stark segnano un punto di svolta: un alto funzionario dello stato tedesco alimenta l’idea (falsa) che i laboriosi nordici stiano sostenendo i pigri mediterranei, mentre la verità è che le banche hanno favorito l’indebitamento per sostenere le esportazioni tedesche.Per spostare risorse e reddito dalla società verso le casse del grande capitale, gli ideologi neoliberisti hanno ripetuto un milione di volte una serie di panzane, che grazie al bombardamento mediatico e alla subalternità culturale della sinistra sono diventati luoghi comuni, ovvietà indiscutibili, anche se sono pure e semplici contraffazioni. Elenchiamo alcune di queste manipolazioni che sono l’alfa e l’omega dell’ideologia che ha portato il mondo e l’Europa alla catastrofe:

Prima manipolazione:
riducendo le tasse ai possessori di grandi capitali si favorisce l’occupazione. Perché? Non l’ha mai capito nessuno. I possessori di grandi capitali non investono quando lo stato si astiene dall’intaccare i loro patrimoni, ma solo quando pensano di poter far fruttare i loro soldi. Perciò lo stato dovrebbe tassare progressivamente i ricchi per poter investire risorse e creare occupazione. La curva di Laffer che sta alla base della Reaganomics è una patacca trasformata in fondamento indiscutibile dell’azione legislativa della destra come della sinistra negli ultimi tre decenni.

Seconda manipolazione:
prolungando il tempo di lavoro degli anziani, posponendo l’età della pensione si favorisce l’occupazione giovanile. Si tratta di un’affermazione evidentemente assurda. Se un lavoratore va in pensione si libera un posto che può essere occupato da un giovane, no? E se invece l’anziano lavoratore è costretto a lavorare cinque sei sette anni di più di quello che era scritto nel suo contratto di assunzione, i giovani non potranno avere i posti di lavoro che restano occupati. Non è evidente? Eppure le politiche della destra come della sinistra da tre decenni a questa parte sono fondate sul misterioso principio che bisogna far lavorare di più gli anziani per favorire l’occupazione giovanile. Risultato effettivo: i detentori di capitale, che dovrebbero pagare una pensione al vecchietto e un salario al giovane assunto, pagano invece solo un salario allo stanco non pensionato, e ricattano il giovane disoccupato costringendolo ad accettare ogni condizione di precariato.

Terza manipolazione:
Occorre privatizzare la scuola e i servizi sociali per migliorarne la qualità grazie alla concorrenza. L’esperienza trentennale mostra che la privatizzazione comporta un peggioramento della qualità perché lo scopo del servizio non è più soddisfare un bisogno pubblico ma aumentare il profitto privato. E quando le cose cominciano a funzionare male, come spesso accade, allora le perdite si socializzano perché non si può rinunciare a quel servizio, mentre i profitti continuano a essere privati.

Quarta manipolazione:
I salari sono troppo alti, abbiamo vissuto al disopra dei nostri mezzi dobbiamo stringere la cinghia per essere competitivi. Negli ultimi decenni il valore reale dei salari si è ridotto drasticamente, mentre i profitti si sono dovunque ingigantiti. Riducendo i salari degli operai occidentali grazie alla minaccia di trasferire il lavoro nei paesi di nuova industrializzazione dove il costo del lavoro era e rimane a livelli schiavistici, il capitale ha ridotto la capacità di spesa. Perché la gente possa comprare le merci che altrimenti rimangono invendute, si è allora favorito l’indebitamento in tutte le sue forme. Questo ha indotto dipendenza culturale e politica negli attori sociali (il debito agisce nella sfera dell’inconscio collettivo come colpa da espiare), e al tempo stesso ha fragilizzato il sistema esponendolo come ora vediamo al collasso provocato dall’esplodere della bolla.

Quinta manipolazione:
l’inflazione è il pericolo principale, al punto che la Banca centrale europea ha un unico obiettivo dichiarato nel suo statuto, quello di contrastare l’inflazione costi quel che costi.
Cos’è l’inflazione?

Salonicco accoglie Papandreou.


Marco Santopadre, Radio Città Aperta
11-09-2011/12:10 --- L’odiatissimo primo ministro greco era arrivato ieri mattina a Salonicco per inaugurare la 76ma Mostra Commerciale Internazionale, sperando col suo discorso infarcito di slogan nazionalistici e di vuote promesse di convincere qualche greco che il futuro non è poi così nero.
Ma ad accoglierlo ha trovato una folla di alcune decine di migliaia di manifestanti – 20 mila secondo la Polizia, almeno il doppio in realtà – che lo hanno duramente contestato. La rabbia sembra divampare sempre di più, man mano che i greci comprendono quanto inutili e provvisorie siano le misure decise da Giorgios Papandreou sotto dettatura del Fondo Monetario Internazionale, della Commissione Europea e della Banca Centrale. L’ennesima cura da cavallo ‘l’americano’ l'ha annunciata a inizio settimana, tramite il suo fido ministro Venizelos, che si è presentato in Parlamento per avvisare che gli annunciati licenziamenti nel settore pubblico saranno più rapidi e massicci del previsto, così come le già previste privatizzazioni dei settori chiave dell’economia.
Il ministro delle Finanze ellenico ha annunciato che il taglio dei lavoratori statali previsto dal piano imposto dall’UE dovrà essere realizzato entro il 2014 e comporterà il licenziamento di circa 150 mila dipendenti, vale a dire il 20% del totale. Questo perché, ha detto Venizelos, "il paese deve cogliere il momento per diventare più competitivo, per avere un futuro". Il governo di Atene va così di fretta che in poche settimane verranno tagliati almeno 20 mila posti di lavoro.
‘Ce lo chiede l’Europa’ ripetono i ministri come un disco rotto, “senza queste nuove misure la troika Ue-Bce-Fmi non sborserà la sesta tranche da 8 miliardi di euro” si giustificano. Come se non bastassero i licenziamenti, il piano ‘concordato’ con la famigerata Troika prevede anche il blocco del turn over in tutto il settore pubblico.
Qualche giorno fa il presidente dei ministri delle Finanze dell'Eurozona, Jean Claude Juncker, in una intervista al Wall Street Journal si era lamentato che il previsto programma greco di privatizzazioni stava procedendo troppo lentamente. E così il governo socialista è subito corso ai ripari, annunciando martedì un’accelerazione delle privatizzazioni, a partire dalle aziende pubbliche che gestiscono il patrimonio immobiliare, il gas e il petrolio. Poi è stato annunciato che l’Opap, l'operatore monopolista greco di scommesse e lotterie, è stato ufficialmente messo in vendita (!). Atene si é impegnata a svendere beni per un valore di 50 miliardi di euro entro il 2015, di cui 5 miliardi solo quest'anno. I beni dei greci se li compreranno, a due soldi, le banche tedesche e francesi…
Gli abitanti di Salonicco avevano tutti i motivi per essere arrabbiati con Papandreou, e infatti le proteste sono iniziate molto presto, con i picchetti dei taxisti, da mesi in sciopero contro una liberalizzazione del settore che in realtà favorisce la concentrazione delle licenze nelle mani di pochi grandi imprenditori. In mattinata a manifestare erano stati anche un migliaio tra poliziotti e vigili del fuoco che, schierati a difendere la Fiera dall’assalto dei manifestanti, si sono trasformati a loro volta in contestatori. “Lotteremo tutti insieme - ha tuonato il sindacato Gsee - per cambiare le politiche economiche del governo che hanno creato ingiustizia, povertà, disoccupazione e recessione”. Poi ad assediare la blindatissima Fiera che ospitava il discorso di Papandreou sullo stato dell’economia sono arrivati a decine di migliaia ed è iniziata una vera e propria battaglia. Mentre le strade di Salonicco si riempivano di slogan e striscioni contro il governo e contro l’UE, a migliaia hanno cominciato l’assalto contro la Mostra, scontrandosi a lungo con i circa 7000 poliziotti schierati dal Ministro dell’Interno: per ore le ali più radicali del movimento si sono sfogate lanciando molotov, pietre e bastoni contro i poliziotti in assetto antisommossa che hanno a loro volta risposto con violente cariche e abbondante uso di lacrimogeni al CS.

domenica 11 settembre 2011

In piazza con gli indignados.

di Zag. Fonte: vecchiatalpa
Diecimila euro e la piazza la puliamo noi. Ecco quanto costa manifestare a Roma. A questi si aggiungono quattromila euro alla società per la pulizia delle strade lungo il percorso. Il costo della democrazia. Gli Indignados di roma hanno fatto colletta per pagare il comune e poter dimostrare tutta la loro indignazione. Vogliono essere nella legalità , quella legalità che mette mille bastoni alla leicità di chi vuole protestare e dimostrare la propri indignazione. A che serve stare nella legalità? Chi potrà permettersi di dimostrare nelle pubbliche piazze, di chi sono le piazze e le vie di Roma?
E' incominciato in ritardo la marcia, anzi la camminata , come si vuole che si chiami, questa marcia che da Piazza della Repubblica li porterà a Piazza San Giovanni. Piazza recintata da nastro giallo e già alla 14,00 piena di gazebo. La tenda di Info Point è il punto di riunione
In attesa che parti il corteo, anzi la camminata, raggiungo la piazza. Il sole è impietoso, la piccola fontanella che è all'angolo stenta a riempire le bottigliette vuote, d'acqua. Scambio alcune parole con gli indignados a presidio dei gazebo. Sono giovani, alcuni già determinati, convinti, altri ancora indecisi, confusi , ma fermi e convinti che stanno dalla parte del giusto. Riparto e raggiungo l'assembramento a piazza Repubblica. Una giovane ragazza parla e racconta come fanno gli spagnoli. Si agitano le mani per applaudire, si incrociano quando si dissente. Questo sono i simbolismi di questo nuovo assemblearismo. Vecchi ricordi mi tornano alla mente,vecchie riminiscenze di altri tempi, vecchie delusioni. Speriamo che questi giovani riescano a superarli. Parla un'indignados spagnolo, poi un nordafricano in un italiano stentato. Gli striscioni sono pronti . La marcia incomincia . "Questa democrazia è una bugia" è il primo slogan che parte dalla testa del corteo. I manifestanti si snodano lungo via Cavour e lungo tutto il percorso. Il caldo è notevole, ma questi sembrano che non lo sentono!. Li precedo e raggiungo di nuovo la Piazza. E' li che li aspetto, lungo via Merulana. Il corteo intanto arriva . Beh per la verità mi aspettavo una partecipazione più massiccia. Sono un pò deluso. Forse non siamo ancora molto indignati,...cosa aspettiamo non sò.

Alle 17.00 incominciano le assemblee ed intanto si montano le tende, staranno qui anche tutta la notte ed anche domani. Poi non si sa. Al Gazebo dei cassaintegrati si alternano le delegazioni di Melfi, di Pomigliano, le ragazze della Omsa, i precari della scuola. Sono tutti critici nei confronti dei sindacati, meno verso la Fiom , ma tutti indicano nella lotta unita, fra tutti i lavoratori senza distinzione di categoria, Chiedono uno sciopero ad oltranza. Chiedono visibilità, strategia nella comunicazione. Chiedono cosa possano ancora fare dopo aver scalato i tetti, occupati le vecchie prigioni, fatto spettacoli e teatro per le strade,digiuni . Cosa ancora possono fare di fronte al silenzio e all'indifferenza del potere e di chi doveva rappresentarli.
In fondo alla strada vi potrà essere solo uno sbocco. E sarà poi, tutta responsabilità di chi poteva fare ed è rimasto sordo.
E' notte fonda, il rumore dei generatori riesce a coprire anche quelle delle macchine che sfrecciano veloci ed indifferenti.
Domani si ricomincia!

Parole chiare.

The other 9/11, CHILE 60.000 deaths

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