Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 28 luglio 2012

L’informazione rubata

Fonte: il manifesto | Autore: Carlo Freccero
       
L’interesse dell’appello “Furto di informazione” pubblicato sul manifesto non sta tanto, come dice il Corriere della Sera di ieri , nell’ennesima contrapposizione tra neokeynesiani e neoliberisti, quanto nell’aver affrontato per la prima volta il problema a priori, fuori dal puro contesto economico. L’appello è firmato da economisti ma pone piuttosto un problema filosofico. Tra qualche anno il neoliberismo di oggi rischia di venir letto dagli storici come il paradosso di un’epoca che impiega tutte le sue risorse a distruggere il benessere economico guadagnato nel tempo. Da piccolo avevo un libro di favole intitolato “Il tulipano screziato”. La storia raccontava la bolla speculativa del mercato dei tulipani nell’Olanda del ‘600.
Un unico bulbo di tulipano poteva avere un immenso valore. La storia ha fatto giustizia dei tulipani e la farà delle nostre attuali convinzioni. Il marxismo (come teme Giuliano Ferrara) non c’entra niente. C’entra il pensiero critico e la capacità di prendere distanza dalle cose.
Il salasso per tutti
Qualche anno fa il neoliberismo veniva chiamato “pensiero unico”, definizione che evocava la possibilità di altri pensieri possibili. Oggi il neoliberismo si chiama semplicemente “economia” e non importa se esistono teorici come Paul Krugman o Joseph Stiglitz che vedono le cose da un altro punto di vista. Stiamo vivendo una crisi. Dobbiamo inchinarci alle leggi economiche e accettare i sacrifici che ci vengono imposti come dolorosi ma necessari. Il neoliberismo non è più una tesi economica discutibile e relativamente recente, ma un dato di natura. La crisi del 1929 è stata affrontata con politiche keynesiane ed è stata superata. La crisi attuale viene curata con politiche neoliberiste e non fa che peggiorare. È come se a un paziente disidratato venissero praticati salassi anziché fleboclisi: morirà. Ma per secoli il salasso è stata l’unica pratica medica accreditata per curare ogni tipo di malattia con esiti disastrosi. Oggi noi applichiamo alla crisi un’unica forma di terapia: tagli e sacrifici, convinti come i medici di un tempo, di non avere altre alternative a disposizione.
Anticasta, l’unica critica lecita
Si dirà: questi sono temi da affrontare tecnicamente in campo economico. Non a caso il nostro è un governo di “tecnici”. Viviamo in uno stato di eccezione in cui le necessità economiche prevalgono sulle istanze politiche. L’uomo comune può solo affidarsi a chi è più competente di lui come si affiderebbe a un medico in caso di malattia. La sua critica deve essere circoscritta agli abusi e agli sprechi che impediscono al mercato di funzionare e produrre ricchezza e benessere per tutti. Ma questo è già pensiero unico, rinuncia a ogni alternativa possibile. Guardiamo la situazione italiana degli ultimi decenni. Avevamo un governo sedicente liberista in cui il liberismo era mitigato e spesso stravolto dal populismo. Un’opposizione che si dichiarava più liberista del governo ed evocava maggior rigore. Abbiamo oggi un governo tecnico sostenuto da entrambi gli schieramenti. E l’unica alternativa è costituita da una reazione contro la politica, che viene accusata (a ragione) di sperperi, nepotismo, privilegi. Mentre per il governo la causa della crisi è il debito pubblico e l’azione dissennata dei governi precedenti, per i gruppi anticasta, la causa della crisi sta nella corruzione della politica che impedisce al mercato di funzionare. Formalmente contrapposte le due tesi aderiscono nella sostanza a un’unica tesi: questo è l’unico mondo possibile, possiamo migliorarlo ma non cambiarlo. Gli italiani sembrano in preda a una forma di depressione che li porta a non reagire, mentre il loro mondo affonda e il benessere costruito dal dopoguerra viene sacrificato sull’altare della necessità economica. Cos’è che ha cambiato le nostre capacità di reazione, ha annullato il nostro spirito critico? La censura, la mancanza di informazione, i tagli alla scuola e alla ricerca. Ci è stata instillata in questi anni la convinzione che la cultura non conta nulla, che il pensiero è inutile, che l’unico valore è il benessere economico. E la morte del pensiero critico non ha prodotto benessere, ma disastro e miseria. Per questo l’appello pubblicato dal manifesto sul “furto di informazione” riguarda, prima ancora delle politiche economiche il tema dell’informazione. Una politica economica non è “naturale ”, presuppone una scelta tra più alternative. E la scelta politica presuppone informazione. Per questo mi sono battuto per la sopravvivenza del servizio pubblico. Una pluralità di emittenti private non garantisce pluralismo informativo. La stessa cosa vale per le testate giornalistiche. Fino a oggi l’editoria ha richiesto ingenti capitali. E i magnati dell’editoria che possono sostenere certi costi, difficilmente saranno dalla parte dei ceti meno abbienti.
Il presente come sola possibilità
Ai tempi de “Il Capitale” di Karl Marx il proletariato aveva valore per il suo lavoro. Ai tempi de “La società dello spettacolo” di Guy Debord per la sua capacità di consumo. Oggi non ci resta che il voto, per questo l’economia globalizzata limita l’autonomia degli Stati. E per questo la politica vuole controllare l’informazione. Dobbiamo ricreare una libertà di informazione, studiare nuovi canali e possibili veicoli di informazione perché si rompa l’incantesimo che ci porta a considerare il presente come l’unica possibilità. Siamo realisti, chiediamo l’impossibile .

Questa poi ... !!

Fonte: leggo.it
Cerimonia olimpica, delegato tedesco la accoglie con saluto nazista
Imbarazzo e stupore, questa la reazione di Camilla Parker-Bowles nell'accorgersi che una coppia di delegati tedeschi accoglieva la sfilata della nazionale tedesca con un gesto molto simile ad un saluto nazista, dalla tribuna autorità dello stadio. L'incidente, puntualmente immortalato dagli obiettivi dei fotografi presenti venerdì sera allo stadio olimpico e rimandato su internet da un video del Daily Mail, Š avvenuto nel corso della cerimonia di apertura. Poche file davanti alla duchessa di Cornovaglia, che sedeva al fianco del sindaco di Londra Boris Johnson, Walther Troeger - dirigente sportivo tedesco e membro onorario del Cio - si è alzato con altre persone al suo fianco e ha salutato al passaggio degli atleti tedeschi: ma mentre gli altri agitavano la mano, lui muoveva il braccio sinistro con la mano distesa, in un gesto all'apparenza equivoca. Dietro, ripresi dalle telecamere, prima stupiti quindi divertiti, Parker-Bowles e Johnson non sono infine riusciti a trattenere un sorriso coperto dalle mani.

Quando c'era il giornalismo ...

Ecco perchè non danno le notizie
Dati Audipress Vendite Giornali Quotidiani Maggio 2012 Claudio Messora Byoblu Byoblu.com

Di Stefano Davidson - byoblu -

Gli editori dei quotidiani che incassano i milioni di euro dei fondi pubblici conferiti loro annualmente dallo Stato - cioè da noi - pagano i loro collaboratori 2 euro ad articolo. Ma ancora più spesso assolutamente nulla. L'Ordine dei Giornalisti ha chiesto a circa 1000 giornalisti freelance e 4000 giornalisti professionisti di una sessantina di testate, fra cui molte nazionali, di rivelare le condizioni in cui lavorano.

Alcuni esempi? “La Voce di Romagna”, che paga un articolo 2 euro e 50, e “Il Nuovo Corriere di Firenze”, che offre ai collaboratori forfait mensili da 50 a 100 euro. Ad entrambe le testate vanno contributi pubblici per oltre 2 milioni e mezzo di euro l'anno. “La Repubblica” (che rientra nel contributo al “gruppo l'espresso/la repubblica” di oltre 16 milioni di euro) paga 30 euro un articolo di 5000 – 6000 battute. “Il Messaggero” (circa un milione e mezzo di contributi) paga al massimo 27 euro ad articolo. L'“ANSA” paga 5 euro per ogni lancio. L'“APCOM” offre da 4 a 8 euro, ma non paga nulla nel caso in cui l'evento assegnato non si realizzi. “Il Sole 24 ore” (oltre 19 milioni di contributi l'anno) paga 50 centesimi a riga. “Libero” (5 milioni e 451 mila euro di contributi) dà 18 euro anche per un'apertura. “Il Manifesto” (oltre 5 milioni di contributi) pare non paghi alcuno degli articoli scritti dai collaboratori, neanche per le aperture.
Tutto ciò dimostra come quello del giornalista freelance (la categoria che si è potuta permettere il lusso di rispondere al sondaggio) sia uno dei lavori più precari e meno retribuiti dell'intero paese. E, di conseguenza, sia sottoposta a ricatto quotidiano, per cui poi non ci si può lamentare se certe notizie non vengono date, o vengono date in cinque righe e mezza a pagina sette. Gli editori infatti si inchinano schettinamente alle richieste del governo di turno, per non perdere il pingue finanziamento, mentre le grandi firme del giornalismo si guardano bene dal mettere in risalto le cose scomode per non perdere il posto molto ben retribuito. Dulcis in fundo, i collaboratori non possono permettersi scoop o rivelazioni perché ricattati con contratti capestro. Sembra che il coraggio sia ormai una prerogativa per soli blogger.

Ecco perché sarebbe stata importante la proposta di legge dell'Onorevole Meloni, che prevedeva l'istituzione di una “commissione specifica” per impedire che le testate sfruttassero i giornalisti precari e non applicassero retribuzioni adeguate, escludendo i trasgressori dai contributi pubblici. Ecco perché questa legge sarebbe stata un caposaldo per l'inizio di una nuova trasparenza dell'informazione e per garantire giustizia sociale sui posti di lavoro. Ecco perché, dopo essere stata approvata dalla Camera, di questa stessa legge è appena stata fatta carta straccia al Senato, per la meritoria opera demolitrice di Elsa Fornero.

L'Italia è piena di giornali di partito, di corrente o di condominio che campano con i soldi dei contribuenti e riempiono le loro redazioni di giovani e meno giovani, precari e sottopagati, mantenendoli sotto la soglia della povertà per meglio servire le istanze del Governo di turno. Molti di questi “Editori" da due euro al pezzo, magari, pagano anche con un anno di ritardo. Oppure, dopo un certo numero di articoli "pagati" (si fa per dire), pretendono tutti gli altri pezzi a titolo gratuito. Altri, invece, danno al massimo forfait mensili di 50 - 100 euro. Intanto Luigi Gubitosi, neo d.g. Rai, viene stipendiato con 650mila euro l’anno, sempre per la famosa storia della “spending review”.

Ogni tanto una buona notizia ...

Compostaggio di vicinato: primo impianto inaugurato a Sant'Antonino di Susa
 
Taglio del nastro per la prima delle tre compostiere collettive finanziate dalla Provincia di Torino: dopo Sant'Antonino sarà la volta di Barone Canavese e Collegno. L’assessore all'Ambiente della Provincia Roberto Ronco: “In questo modo si abbattono i costi di trasporto e di conferimento dei rifiuti, e si riducono le emissioni di CO2 in atmosfera”. Foto e videointerviste
 di Federico Vozza - ecodallecitta -
Compostaggio di vicinato: primo impianto inaugurato a Sant'Antonino di Susa L'organico, si sa, costituisce la parte più consistente dei rifiuti domestici. Partendo da questo dato e dal costo che ne deriva sul fronte dello smaltimento, la Provincia di Torino ha promosso nei mesi scorsi un bando rivolto ai Comuni per promuovere la pratica del compostaggio collettivo di vicinato, soluzione che si colloca a metà tra il compostaggio domestico e il trattamento nei grandi impianti. Ad aggiudicarsi i 60 mila euro complessivi messi a disposizione dall'Ente sono stati Sant'Antonino di Susa, Barone Canavese e Collegno, che hanno scelto di aggiungere alle azioni già messe in campo sul fronte della riduzione dei rifiuti l'installazione sul proprio territorio di una compostiera semiautomatica. La prima ad essere stata inaugurata è la compostiera di via Superga a Sant'Antonino di Susa: servirà 86 famiglie residenti nel borgo, trattando in loco i loro rifiuti organici, che non dovranno quindi più essere trasportati all’impianto di compostaggio in quanto saranno i cittadini stessi a portarli nella compostiera. “I benefici saranno di natura sia economica sia ambientale -ha commentato l’assessore all'Ambiente della Provincia Roberto Ronco-. In questo modo si abbattono i costi di trasporto e di conferimento dei rifiuti, e si riducono le emissioni di CO2 in atmosfera”.

La compostiera, con un trattamento di tipo aerobico, potrà trasformare in compost fino a 20 tonnellate di materiale all’anno tra scarti di cucina, residui di fiori e piante e sfalci provenienti dai giardini. L'impianto è costituito da una trinciatrice che sminuzza il materiale in ingresso, una miscelatrice che garantisce un’adeguata aerazione e un dosatore automatico per inserire quando necessario la giusta quantità di materiale legnoso sminuzzato o di pellet. Ogni ciclo di trattamento ha una durata compresa tra i 40 e i 60 giorni. Della struttura -inaugurata alla presenza del sindaco e consigliere provinciale Antonio Ferrentino e della Commissione Ambiente del Consiglio provinciale- sono stati sottolineati sia i positivi risvolti ambientali ed economici, ma anche l'aspetto socializzante. Non a caso lo slogan scelto per informare i cittadini coinvolti dalla sperimentazione è "Insieme è meglio".
“Il compost prodotto sarà distribuito gratuitamente in primo luogo agli abitanti che si servono della compostiera -ha spiegato il sindaco Antonio Ferrentino-. Il rimanente sarà utilizzato dal Comune come terriccio per i lavori di giardinaggio”. Prodotta dalla ditta svedese Jora Ab, il macchinario è alloggiato in una struttura in legno appositamente realizzata, e la manutenzione e lo svuotamento sono a cura dell’ACSEL, l’azienda che gestisce il servizio di raccolta rifiuti in Val di Susa.
  • , notizia Compostaggio di vicinato: primo impianto inaugurato a Sant'Antonino di Susa


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    In good hands

    venerdì 27 luglio 2012

    l'Ilva un caso emblematico.

    di Zag in ListaSinistra
    La vicenda dell'ILVA di Taranto è sintomatico di come si trattano e si giungono alle soluzioni "inevitabili". Si lascia prima che si incancrenisca il problema, nel silenzio e nell'apatia più assoluta. Nessuno ascolta, nessuno evidenza gli appelli accorati, le urla disperate, i morti, le disgrazie, le tragedie. Al massimo una alzata di spalle ai lamenti, o un grido di "Comunisti! " o per argomentoi anche di natura ecologica l'accusa " siete i soliti ecologisti che dite di no a tutto!" Chi conduce la battaglia. Quella che si definisce da quasi quarant'anni la "sinistra", poi "Centro sinistra", poi "democratici" . Si lascia che i problemi si incancreniscono, fino a diventare essi stessi una cancrena. E poi, pronta la soluzione. La soluzione diventa inevitabile, Non c'è altra soluzione. Il risanamento costerebbe più della vendita. Conti alla mano.
    Oppure la dove non interviene la politica si lascia che intervenga la Magistratura Che il caso diventa un caso di legalità . Nasce l'emergenza ed allora la soluzione non può che essere una ed una sola

    Il caso Ilva , un caso simile nella strategia.

    L'inquinamento di questa fabbrica risale fin dai tempi della sua nascita. Ma era la soluzione alla povertà. Il modello di sviluppo richiedeva il sacrificio della natura. Passare dai contadini all'operaio siderurgico. Senza nessuna mediazione, senza nessun compromesso. Tutto e subito.

    Fin da quando era fabbrica di Stato si produceva diossina, inquinamento atmosferico. I tumori, e le malattie polmonari erano all'apice nelle statistiche nazionali. Ma tutto era dovuto.

    Era il prezzo da pagare per l'industrializzazione.

    Al massimo si alzò qualche barriera ecologica, qualche albero ai confini della fabbrica , che in pochi anni divennero striminziti, ingialliti.... morivano dopo pochi anni. Tutto intorno il silenzio e il fumo

    Ma era il prezzo che si doveva pagare per il progresso.

    Le urla, le grida divennero più alte, Le invocazioni di aiuto, le proteste per quella fabbrica che oltre a produrre ricchezza produceva morte erano inascoltate con una alzata di spalle.

    Era il prezzo da pagare per lo sviluppo

    Poi arrivò il privato. Il padron Riva che all'inquinamento produsse anche l'alterigia del padrone privato. Fuori anche quell'embrione di sindacato, quella simulazione di organizzazione dei lavoratori. La dignità e l'umanità doveva varcare il cancello della fabbrica.
    Oltre all'acciaio si produceva, la Palazzina Laf, e l'inquinamento. Diossina e PCB. Gamlen e fanghi da scaricare in mare. Diossina e fumi di polvere di carbone da scaricare in aria.

    Era il prezzo per il nuovo modello di sviluppo.

    La politica, sopratutto quella locale, dietro quelle migliaia di morti , dietro quelle centinaia di casi di tumore che non potevano più essere causate solo dal fumo delle sigarette o dall'ereditarietà , come ci avevano detto per tanti anni. Ed allora ha tentato di emettere qualche vagito, qualche flebile lamento subito , però, silenziato dall'interesse della produzione, del profitto.

    Era il prezzo da pagare per uscire dalla crisi.

    Ora è intervenuta la magistratura Ha fatto diventare l'ILVA un caso nazionale , Ma lo si affronta ancora come una guerra fra poveri. La Salute contro il lavoro. O si muore per i tumori o si muore per fame. O si muore subito o lentamente per inedia.

    Si è lasciato che il problema si ingigantisca, che vengano eliminati tutti le soluzioni . DI fronte all'emergenza ci si trova davanti al un bivio.
    La guerra è guerra fra poveri.
    --
    Zag(c)
    Grave è la situazione sotto il cielo. Però la situazione non è eccellente!


    NAPOLITANO, A CAST IRON ALIBI

    giovedì 26 luglio 2012

    L’nformazione rifletta su come tratta la crisi


    di Alberto Burgio - rifondazione -
    Tutto si può dire della lettera pubblicata ieri dal «manifesto», meno che usi mezze misure. Parlare di furto di informazione non è uno scherzo: perché, dunque, questi toni? Credo che la denuncia muova da una convinzione: oggi, nel trattare della crisi economica e delle politiche che dovrebbero arginarla, la stampa italiana (ma il discorso vale probabilmente anche su scala europea) non svolge la funzione che le competerebbe: quella di spiegare in modo comprensibile gli eventi. Fa perlopiù esattamente il contrario: ripete l’interpretazione ufficiale, la presenta come l’unica possibile e, così facendo, impedisce ai non addetti ai lavori di capire che cosa sta succedendo da cinque anni a questa parte.
    In altri termini, la stampa opera come uno schermo opaco, ostacolando la formazione dell’opinione pubblica.
    Che cosa continuiamo a leggere sulle pagine dei maggiori quotidiani? E che cosa ci raccontano i telegiornali e gli opinionisti chiamati a dibattere della crisi nei dibattiti televisivi? Una cosa soltanto: la crisi sarebbe nata dall’indebitamento degli Stati, dovuto agli eccessi della spesa pubblica e all’ingordigia dei lavoratori dipendenti. Sarebbe cioè l’effetto di una «crisi fiscale», provocata dall’esorbitante costo delle pensioni, della sanità e della scuola; e sarebbe altresì la conseguenza di salari e stipendi troppo alti, pagati a lavoratori troppo numerosi e poco produttivi. Arrivati a un certo punto, i cosiddetti mercati si sarebbero stancati di finanziare un sistema insostenibile, e avrebbero ragionevolmente preteso garanzie di stabilità e solvibilità dei bilanci pubblici. Stando così le cose, una sola strada appare percorribile: quella di una drastica cura dimagrante, fatta di tagli alla spesa, di più tasse e di licenziamenti.
    In sostanza, la grande narrazione dispensata da giornali e televisioni trasmette ai cittadini un quadro senza vie d’uscita che non siano la povertà dilagante e, soprattutto, senza alternative. Ma è sicuro che le cose stiano in questi termini? Non è affatto sicuro. Moltissimi economisti, del calibro di Joseph Stiglitz, Paul Krugman e Jean-Paul Fitoussi – per fare solo qualche nome – hanno un’opinione del tutto diversa. Ricordano che la crisi è nata dal debito privato (di banche, finanziarie, fondi d’investimento e imprese di assicurazione) e solo in un secondo momento ha coinvolto il debito degli Stati (che hanno usato denaro pubblico per risanare i bilanci privati). Sostengono che la strada dei tagli e del cosiddetto rigore è suicida, poiché impedisce la crescita economica, unica possibile soluzione della crisi. Ripetono che bisognerebbe ridurre le enormi disuguaglianze che caratterizzano le nostre società in questa fase storica. E soprattutto affermano che da questa situazione non si uscirà senza una regolamentazione del sistema finanziario, che argini la speculazione e protegga l’economia reale.
    Ognuno, si dirà, è libero di pensarla come vuole. Ma proprio questo è il punto. Come può il cittadino prendere posizione su tali questioni se il giornale che legge e la televisione che lo informa continuano a fare come se questa discussione nemmeno esistesse e l’interpretazione della crisi che ispira le politiche del rigore fosse l’unica possibile?
    Qualcuno, leggendo la lettera sul furto d’informazione, ha detto che essa attribuisce alla stampa la colpa della crisi. È una lettura semplicistica e paradossale. Se crediamo davvero che l’informazione libera sia un elemento chiave della democrazia, non dovremmo poi affermare che la stampa si limita a «riportare i fatti», come se i fatti parlassero da soli. Questa maldestra difesa si ritorce contro la stampa, riducendola a portavoce del potere politico. In realtà, l’informazione libera è un ingrediente fondamentale di un sistema democratico perché interpreta i fatti e, così facendo, modifica in misura rilevante la realtà. Le idee, i giudizi, le spiegazioni fornite dagli organi di informazione contribuiscono alla formazione dell’opinione pubblica. E non occorre scomodare Orwell per capire che, se queste idee, questi giudizi, queste spiegazioni si riducono alla ripetizione di «verità rivelate», l’opinione pubblica non può svilupparsi, e il consenso che la cittadinanza esprime non può essere definito in senso proprio «democratico».
    Un’ultima considerazione. In Italia, come in tante altre parti d’Europa, molta gente vive male e sempre peggio. Milioni di persone perdono il lavoro o temono di perderlo. Milioni di giovani, diplomati e laureati, non trovano uno straccio di occupazione. Non hanno reddito o guadagnano troppo poco per vivere dignitosamente. Milioni di famiglie si indebitano e sono costrette a rinunciare a beni fondamentali, come la salute e la conoscenza. È così difficile, in questa situazione, immaginare l’impatto sociale e politico di un’informazione libera sulle cause della crisi e le possibile vie d’uscita? Forse, se agli italiani che pagano le tasse e vivono sempre più poveramente e precariamente si dicesse che questo stato di cose deriva da un sistema iniquo che può essere cambiato – e non dal volere incontrastabile delle nuove divinità, chiamate Spread e Mercati –, questo paese sarebbe un po’ meno rassegnato di quanto non appaia. Certo, questo provocherebbe qualche inconveniente. Si verificherebbe qualche turbolenza, e il governo di turno – tecnico o non tecnico – dovrebbe sforzarsi di rispondere alle domande poste dal paese. Sarebbe una strada per certi versi più difficile. Ma la politica si muoverebbe più in sintonia con lo spirito della nostra Costituzione.
    articolo21.org

    Come uscire, con intelligenza, dall’Euro

     
    di Emiliano Brancaccio
    L’opzione di uscita dall’euro non è più solo una prerogativa di Berlusconi, Grillo e dei movimenti cosiddetti “populisti”. Giorni fa era il Corsera a pubblicare editoriali che riabilitavano il tema della sovranità nazionale ed altri interventi che sollevavano il problema della difesa dei capitali nazionali da acquisizioni estere a prezzi di sconto. Oggi [ieri, ndr], a quanto pare, anche il Sole 24 Ore sembra disporsi a un eventuale salto del fosso, pubblicando un articolo di La Malfa che in termini espliciti perora la causa di un abbandono, sia pure “ordinato”, della moneta unica.

    Questi segnali non devono in fondo meravigliare. Come ho cercato di sottolineare in una recente intervista a Radio 24, la netta maggioranza degli imprenditori italiani dipende dall’andamento della domanda interna. Era quindi prevedibile che negli assetti del capitalismo italiano prima o poi iniziasse a formarsi un consensus politico favorevole a strategia d’uscita dall’unione monetaria e a una difesa del mercato interno. Che questa coalizione di interessi possa prendere repentinamente il sopravvento è ancora difficile a dirsi. Di sicuro, data la situazione, ha le carte in regola per riuscire nell’intento.
    Il guaio, come ho detto e ripetuto, è che c’è modo e modo di abbandonare l’euro. Un modo tipico, definibile di “destra”, è di scaricare il peso della svalutazione sui salari e di consentire piena libertà di fuga dei capitali. Questo criterio, tuttavia, non è semplicemente lesivo degli interessi del lavoro subordinato ma espone l’intera base produttiva nazionale a un rischio di svendita e desertificazione. Per tutelare gli interessi dei lavoratori e per difendere la struttura produttiva del paese, bisognerebbe allora governare diversamente l’uscita introducendo: 1) immediati blocchi alle fughe di capitali, 2) se necessario anche misure di regolazione dei flussi di merci e degli investimenti a lungo termine, 3) indicizzazioni salariali, 4) controlli amministrativi su alcuni prezzi “base”, 5) vincoli alle acquisizioni estere in campo sia industriale che bancario. Ossia, in buona sostanza, l’abbandono della moneta unica deve implicare anche una limitazione del mercato unico europeo. Non sarebbe del resto una novità: tra il 2008 e il 2011 la Commissione Europea ha calcolato oltre 400 nuove misure di protezione dei mercati interni adottate nel mondo, dagli Stati Uniti alla Cina.
    Tra l’altro, come abbiamo cercato di chiarire nel libro L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa (Il Saggiatore), la messa in discussione del mercato unico europeo resta l’unica carta da giocare per far capire agli industriali tedeschi che i costi di una deflagrazione dell’euro potrebbero essere, per loro, più alti del previsto. Dunque, mostrarsi pronti a una limitazione degli scambi è la strategia “dominante” nel senso di Nash, è valida in ogni caso, è la mossa politica da compiere.
    Ma la “sinistra”, per il momento, si limita ad abbaiare alla luna. La questione infatti non è di definire “vigliacco e traditore” chi sposta i capitali all’estero. Anzi, in casi simili dire senza agire è persino controproducente. Allora, per cominciare, la logica decisione da prendere dovrebbe esser semplicemente questa: vincolare la fiducia al governo Monti a un provvedimento che blocchi immediatamente le fughe di capitali [1]. Se l’irriducibile liberoscambista Monti non se la sente gli si tolga all’istante la fiducia. Altrimenti è la solita pletora di mefitiche chiacchiere.
    [1] Ad avviso di chi scrive il Trattato “materiale” versa ormai in una crisi irreversibile. Ma in materia di movimenti di capitale è interessante notare che: “Le disposizioni dell’art. 63 non pregiudicano il diritto degli Stati membri di prendere tutte le misure necessarie per impedire le violazioni della legislazione e delle regolamentazioni nazionali, in particolare nel settore fiscale e in quello della vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie, o di stabilire procedure per la dichiarazione dei movimenti di capitali a scopo di informazione amministrativa o statistica, o di adottare misure giustificate da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza” (art. 65 TFUE).

    pubblicato su www.emilianobrancaccio.it

    Il crescente potere del neoliberalismo nel mondo

    Taylan Tosun intervista Robin Hahnel - fonte -

    Taylan Tosun: Perché i centri del potere finanziario internazionale temono così tanto un’inflazione anche minima? Perché quasi tutte le banche centrali di tali paesi sono incaricate di “combattere l’inflazione”? Perché gli interessi finanziari internazionali si oppongono al tipo di inflazione moderata che potrebbe ben accompagnare politiche favorevoli alla crescita e contrarie all’austerità?

    Robin Hahnel: Quando i tassi d’inflazione sono più elevati del previsto i finanziatori ricevono un tasso di remunerazione, in termini reali, inferiore alle attese, mentre i debitori finiscono per pagare meno, in termini reali, di quanto pensavano di dover pagare. In generale sono i ricchi quelli che concedono prestiti, mentre il resto di noi si indebita. Questa è la prima ragione per cui i ricchi – che sono i clienti serviti dall’industria finanziaria internazionale – sono più preoccupati del resto di noi di mantenere bassi i tassi d’inflazione.

    Ma c’è un secondo motivo. L’attività principale per la maggior parte di noi consiste nel guadagnare un reddito decente. Così la maggior parte di noi vuole che l’economia produca in base al suo potenziale completo, in modo da poter ricevere redditi pieni. E’ per questo che la maggior parte di noi ha interesse in politiche che, innanzitutto, prevengano le recessioni e le interrompano quanto prima possibile. E’ per questo che la maggior parte di noi ha un forte interesse a politiche favorevoli alla crescita nel corso della recessione globale più grande da ottant’anni a questa parte.

    Comunque la partita principale per i ricchi consiste nel conservare ed estendere il valore della loro ricchezza, il che non è la stessa cosa del massimizzare l’ammontare del reddito generato dall’economia. I ricchi possono aumentare il loro reddito anche quando il reddito totale crolla nelle recessioni, se aumentano a sufficienza la loro fetta della torta. Cosa più importante, la ricchezza esistente può essere redistribuita che l’economia produca al massimo del suo potenziale o no. Dunque, se le condizioni che consentono ai ricchi di appropriarsi di una quota più grande della ricchezza esistente consistono in risultati economici più scarsi quanto alla produzione, allora i ricchi – e l’industria finanziaria internazionale che gli rappresenta – non avvertiranno alcuna urgenza di migliorare i risultati dell’economia.

    La politica della banca centrale è un esempio eccellente di come funziona questo conflitto d’interessi. Combattere l’inflazione serve gli interessi dei ricchi ed è preteso dall’industria finanziaria per conto loro. Combattere la disoccupazione servirebbe gli interessi dei lavoratori. Negli Stati Uniti la Federal Reserve Bank ha il mandato di decidere la politica monetaria in modo tale da tenere sotto controllo l’inflazione e la disoccupazione. Tuttavia la FED, negli ultimi quattro decenni, ha reso sempre più chiaro che combatte l’inflazione prestando scarsa attenzione, se mai la presta, alla disoccupazione. La Banca Centrale Europea ha il mandato di combattere la sola inflazione, il che è esattamente ciò che è andata facendo mentre i tassi di disoccupazione in Spagna e in Grecia salivano sopra il 20%. In pratica c’è poca differenza. La differenza sulla carta è un riflesso dell’ascesa del neoliberalismo, che è semplicemente un’economia che favorisce gli interessi dei ricchi a spese della maggioranza. Il mandato della BCE è stato scritto quando il neoliberalismo era molto più forte. Quando le banche centrali di altri paesi combattono soltanto l’inflazione – e quando i media agiscono come se questa fosse la sola cosa responsabile che le banche centrali possano fare – anche questo è un segnale del crescente potere del neoliberalismo a livello globale.


    TT:
    Perché il neoliberalismo è così ostile alla spese pubblica in infrastrutture o all’aumento delle remunerazione dei dipendenti pubblici al fine di stimolare la domanda? Che tipo di pericolo pone la spesa pubblica ai centri del potere finanziario internazionale?


    RH: Una volta capito che il neoliberalismo significa gestire il capitalismo esclusivamente negli interessi dei ricchi, è facile vedere che il neoliberalismo si oppone alla spesa pubblica per qualsiasi cosa avvantaggi la maggioranza e non loro. I ricchi non vogliono aumentare le remunerazioni dei dipendenti pubblici perché (a) non sono dipendenti pubblici, (b) dovranno pagare più tasse per pagare salari più alti ai dipendenti pubblici e (c) se i dipendenti pubblici ottengono paghe più elevate, i datori di lavoro privati – che sono ricchi dovranno anch’essi pagare di più ai propri dipendenti. La spesa in infrastrutture è più complicata. Gran parte della spesa pubblica è assistenza alle imprese e le grandi imprese che beneficiano dei contratti governativi non si oppongono a quel genere di spesa. Il genere più ovvio di spesa pubblica che è assistenza alle imprese è la spesa in sistemi di armamenti militari, che raramente è contrastata dai tagliatori neoliberali dei bilanci. Ma la spesa in infrastrutture può anche garantire grandi profitti agli appaltatori governativi. Può anche rappresentare un sussidio ad altre imprese quando crea un ambiente più redditizio in cui operare. Perciò i neoliberali non sono sempre ostili alla spesa pubblica in infrastrutture. Si oppongono ad essa quando è parte di un programma per promuovere l’occupazione quando loro preferiscono invece abbandonare i mercati del lavoro.

    Il salario nelle crisi

    Modigliani e l’inizio della fine del Pci

    Il dibattito economico odierno sulle possibili soluzioni per uscire dalla crisi si concentra sull’utilità o meno di una riduzione dei salari. Sebbene si citi spesso la frase di Marx (per cui la storia si ripete come farsa), in questo caso la farsa è che questo dibattito si ripeta ancora nel nostro paese. Infatti, durante la crisi degli anni ’70, lo stesso dibattito ebbe luogo proprio in Italia, e vide confrontarsi il futuro premio Nobel Franco Modigliani ed economisti eterodossi, molti vicini al Partito Comunista Italiano. Proprio il dibattito sul livello del salario nella crisi è un indicatore importante per misurare l’orientamento delle varie posizioni politiche e il loro cambiamento reale.

    Modigliani: la riduzione del salario reale e il compito dei sindacati


    Gli anni ’70 furono attraversati da diversi fenomeni economici. Da una parte si concluse il ciclo di lotte cominciano nei decenni precedenti, con la conquista di molti diritti, tra cui lo Statuto dei Lavoratori e la scala mobile per i salari. Dall’altro l’Italia, come le altre economie capitaliste fu colpita da una crisi di stagflazione, che univa quindi alla crisi della produzione un’impennata dell’inflazione.

    Per uscire dalla crisi era necessario, secondo Modigliani, una riduzione del salario reale, che sarebbe dovuta passare attraverso la modifica o la cancellazione del meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione (conosciuto appunto come scala mobile). La tesi di Modigliani era che questo meccanismo, di cui a prima vista beneficiavano i lavoratori, andava in realtà contro i loro stessi interessi collettivi. La scala mobile infatti conduceva, a suo dire, a un aumento del salario reale ( a causa dell’impossibilità per gli imprenditori di scaricare tutto l’aumento salariale sui prezzi) determinando così un peggioramento della bilancia commerciale italiana (le importazioni sarebbero aumentate, mentre le esportazioni sarebbero diminuite). Inoltre l’occupazione sarebbe calata. In definitiva, secondo Modigliani, il meccanismo della scala mobile tutelava i lavoratori attivi a discapito dei disoccupati. Era quindi nell’interesse dei lavoratori stessi, e compito dei loro sindacati, cancellare la scala mobile e accettare un livello salariale più basso, che fosse compatibile con la piena occupazione. Inoltre la riduzione del costo del lavoro avrebbe fermato l’inflazione.

    In sostanza i lavoratori ci avrebbero guadagnato rispetto alla situazione che stavano vivendo: mentre la scala mobile generava inflazione e disoccupazione (tutelando solo una parte della forza lavoro), con le sue proposte si sarebbe sconfitta l’inflazione e si sarebbe ottenuta la piena occupazione. A fronte di un sacrificio momentaneo, si sarebbero quindi potuti ottenere benefici successivi.


    Graziani: conflittualisti o compatibilisti


    La figura di Modigliani rendeva le sue proposte interessanti all’interno del dibattito degli anni ’70. Questo è stato il decennio che ha segnato la crisi del pensiero keynesiano e dell’efficacia delle politiche economiche di intervento pubblico contro la disoccupazione e la crisi. Modigliani si considerava, ed era considerato, un rinomato economista keynesiano del Mit, e in quanto tale le sue proposte raccolsero l’attenzione tanto accademica quanto della pubblica opinione.

    La risposta più dura alle sue analisi e alle sue proposte venne dall’economista Augusto Graziani.

    Graziani vedeva infatti nelle proposte di Modigliani (e di Padoa Schioppa, coautore di un importante articolo del 1977(1)) una riaffermazione “aggiornata” dei principi marginalisti. Questi legavano in modo biunivoco il prezzo di una merce (in questo caso il salario) con la quantità acquistata di questa merce (in questo caso la forza lavoro): qualsiasi deviazione da questo equilibrio di mercato avrebbe causato disoccupazione (una minore quantità) e inflazione (per l’aumento dei salari oltre l’equilibrio). L’unica differenza rispetto ai criteri classici era che il livello salariale era determinato dall’accettazione dei lavoratori piuttosto che dalla domanda e dall’offerta. Questa posizione veniva definita da Graziani come “compatibilista”(2).

    Al contrario Graziani riteneva (come altri economisti) che la società fosse divisa in classi e che il livello salariale fosse determinato dal risultato del conflitto tra le classi. In questo visione non esisteva un solo livello salariale possibile, ma le soluzioni sarebbero state molteplici. Questa impostazione veniva definita dallo stesso Graziani come conflittualista(3).

    Un aumento dei salari avrebbe quindi determinato un aumento dei consumi, con una ripresa dell’economia e attraverso essa miglioramenti occupazionali.

    Un’altra economia per una nuova Europa

    Fonte - Autore: Guido Viale
           
    Una classe dirigente inetta, incolta, arrogante, asservita sta portando alla rovina l’Europa e con essa le principali conquiste che il movimento operaio e la cultura democratica avevano realizzato nel corso di un secolo. Contrattazione collettiva, pieno impiego, diritti sindacali, sanità, pensione, istruzione, ricerca e cultura come diritti universali: promossi per il bene di tutti e non nel solo interesse di chi li paga o ne beneficia. La combinazione di tante manchevolezze nelle nostre classi dirigenti è riconducibile all’adesione, per molti esplicita e per gli altri sottintesa alla teoria liberista che affida il governo della società al mercato. Anzi, ai mercati.

    Quei mercati sempre meno identificati come un sistema di relazioni tra soggetti indipendenti e sempre più come un insieme di potenze imperscrutabili nelle cui mani è riposto il destino del mondo. Sotto la copertura di questa pseudoteoria che ha impregnato di sé i vertici di imprese, istituzioni finanziarie, governi, partiti e mondo accademico si sono andati realizzando, nel corso dell’ultimo trentennio, l’asservimento totale della vita di intere popolazioni e dei loro governi, da un lato, al potere della finanza (e un gigantesco trasferimento di risorse dal lavoro al capitale) e, dall’altro, a uno spirito proprietario (condito di nazionalismo e razzismo: «padroni in casa nostra») che quelle stesse classi dirigenti sono andate diffondendo per fidelizzare il loro elettorato.

    La politica è stata così ridotta a mera contabilità: dapprima sostenendo che solo il mercato promuove il benessere; da quando è scoppiata la crisi, terrorizzando la gente con la prospettiva di disastri crescenti se non si obbedisce ai mercati, sacrificando loro ogni volta qualcosa.

    Sacrifici che non bastano mai: ogni nuova misura viene prospettata come risolutiva per poi scoprire che non basta ancora e che ce ne vogliono altre. In questa rincorsa alle richieste dei mercati anche l’unione politica dell’Europa è stata declassata al rango di mera misura per far fronte agli spread: una misura contabile da affiancare all’unione bancaria, agli eurobond, al fondo salva-stati, alla mutualizzazione dei debiti, alla trasformazione della Bce in prestatore di ultima istanza, ecc. Non c’è progetto, non ci sono valori condivisi, non c’è road-map, non c’è alcuna idea né considerazione per la democrazia. Confrontate questo non-pensiero con gli ideali dei “padri spirituali” o con la cultura dei fondatori della Comunità Europea: avrete una misura della caduta dello Zeitgeist di tutto l’Occidente.

    Bce, la fabbrica del debito che sta rovinando l'Europa

    di Magdi Cristiano Allam - nocensurea -
    Se tutti i giorni i Merkel, Monti, Barroso, Draghi scendono in campo per rassicurarci che «l'euro è irreversibile», vuol dire che stiamo assistendo a un rito scaramantico per allungare il più possibile la vita del moribondo. Tutti gli indicatori dell'economia reale attestano in modo inequivocabile che giorno dopo giorno siamo prossimi al funerale. Il nostro funerale. La recessione sempre più profonda, l'indebitamento pubblico che cresce, il Pil che si riduce, la produzione, le esportazioni e i consumi in calo, le tasse più alte al mondo, le imprese strangolate che chiudono, i disoccupati e i poveri che aumentano, i giovani senza prospettive. Ebbene, come è possibile che, da un lato, la crisi è causata dall'euro e, dall'altro, siamo noi italiani, noi europei, a pagarne le conseguenze? La risposta è nella recente dichiarazione del governatore della Bce (Banca centrale europea) Mario Draghi a Le Monde: «Il nostro mandato non è di risolvere i problemi finanziari degli Stati, ma di garantire la stabilità dei prezzi e mantenere la stabilità del sistema finanziario in tutta indipendenza».Ma come: la Bce dopo aver imposto condizioni spietatissime agli Stati per poter accedere al credito finalizzato al ripianamento del debito pubblico, ora ci dice che si lava le mani dei problemi degli Stati? Ma come: se questi problemi sono legati alla carenza di liquidità monetaria e l'unica istituzione titolata ad emettere l'euro è la Bce che si rifiuta di farlo? Ma come: quando le banche e le società quotate in borsa crollano si pretende il massiccio intervento degli Stati con denaro pubblico mentre quando gli Stati sono in crisi voltate loro le spalle?Il signoraggio è la differenza tra il costo reale e il valore nominale della moneta.
    Oggi la Bce stampa la banconota da 100 euro al costo di 3 centesimi e la vende alle banche commerciali a 100 euro, più l'1% di interesse, in cambio di titoli di garanzia. Le banche rivendono la banconota allo Stato a un tasso superiore in cambio di buoni del Tesoro che sono titoli di debito. Lo Stato ripaga questi interessi facendoli gravare sulle tasse imposte ai cittadini. Quindi tutto il denaro in circolazione è gravato da interessi percepiti dalle banche e da tasse che gravano sulle nostre spalle. È così che noi siamo indebitati dal momento in cui nasciamo. È il sistema che di fatto corrisponde ad una «fabbrica del debito». Chi è il responsabile? A differenza di quanto si tenderebbe a pensare, la Bce è un'istituzione che svolge una funzione pubblica ma è di proprietà privata, detenuta da banche private, comprese quelle dei Paesi europei che non aderiscono all'euro. Ha la struttura di una società per azione e gode di autonomia assoluta dalla politica pur condizionando pesantemente la politica. Questa «fabbrica del debito» si è arricchita grazie a due nuovi trattati, il Fiscal Compact o Patto di stabilità, e il Mes o Fondo Salva-Stati, approvati il 19 luglio dal nostro Parlamento: così ci siamo ormai autocondannati ad essere indebitati a vita. Ci siamo impegnati, al fine di dimezzare il debito pubblico per portarlo al 60% del Pil, a ridurre i costi dello Stato di 45 miliardi di euro all'anno per i prossimi 20 anni, ciò che si tradurrà in nuove tasse e ulteriori tagli alla spesa pubblica; mentre per creare il Fondo Salva-Stati, l'Italia si è accollata la quota di 125 miliardi di euro, che non abbiamo. Nasciamo indebitati perché la moneta non la emette lo Stato ma una banca privata e abbiamo sottoscritto degli accordi con istituzioni sovranazionali le cui sentenze sono inappellabili. D'ora in poi lavoreremo sempre di più e vivremo sempre peggio per pagare i debiti. Ci limiteremo a produrre per consumare beni materiali, non ci saranno né risorse né tempo per occuparci della dimensione spirituale. Siamo ad un bivio epocale: salvare l'euro per morire noi come persona, oppure riscattare la sovranità monetaria per salvaguardare la nostra umanità. Ecco perché solo una nuova valuta nazionale emessa direttamente dallo Stato, che ci affranchi dalla schiavitù del signoraggio e scardini dalle fondamenta la «fabbrica del debito», emessa a parità di cambio con l'euro per prevenire fenomeni speculativi e inflazionistici, potrà darci la libertà di essere pienamente noi stessi nella nostra Italia che ha tutti i requisiti di credibilità e solidità per andare avanti a testa alta e con la schiena
    Pubblicato a pagina 4 de "Il Giornale" di Lunedì 23 Luglio 2012 e sul sito all'indirizzo http://www.ilgiornale.it/news/interni/bce-fabbrica-debito-che-sta-rovinando-leuropa.html


    THE EARTH AS A WORK OF ART

    mercoledì 25 luglio 2012

    Incontro con Vassili Primikiris (Syriza)

    Siria, manipolazione e guerra

    Siria, manipolazione e guerra

    siria 20120725di Giulietto Chiesa - Il Fatto Quotidiano
    I lettori di questo blog [ndr: su Il Fatto Quotidiano] si saranno certo accorti che seguo con particolare attenzione gli sviluppi preparatori di alcune guerre, le prossime. Si tratta di Siria e Iran, due bersagli chiarissimi. Lo faccio perché sono certo che avranno effetti diretti sulle nostre vite e su quelle dei nostri figli.
    Per questo uso le fonti migliori disponibili e, tra queste, proprio quelle di coloro che preparano la guerra. In genere sono bene informati.
    L’ultima – che qui commento – viene dal New York Times del 21 luglio scorso. Lo includo tra i fautori della guerra a pieno merito perché questo giornale è stato da sempre una delle portaerei del “sistema americano”. E perché in questo caso ci descrive con abbondanza di particolari come un gruppo di criminali (il vertice degli Stati Uniti d’America) sta violando tutte le regole della convivenza internazionale.
    Di questa informazione dovremmo essergli – e gliene siamo – grati. Dove invece ne denunciamo la più vergognosa delle connivenze è nel fatto che gli autori dell’articolo (Eric Shmitt e Helene Cooper), non meno del direttore di quel giornale, ci presentano l’azione criminale come se fosse normale, ineccepibile, inevitabile, accettabile dunque.
    Andiamo con ordine con le distorsioni: “L’Amministrazione Obama ha per il momento abbandonato gli sforzi per un regolamento diplomatico del conflitto in Siria”. Notare le diverse finezze inscatolate in una sola riga. Il “per il momento” lascia pensare che, dopo, forse, ci ripenserà. Poi notate “gli sforzi” per un “regolamento diplomatico”. Cioè il lettore deve pensare che, fino ad ora, lo sforzo di Obama è stato per un “regolamento diplomatico” è che solo ora questa idea è stata “abbandonata”.
    È, naturalmente, una palese falsità. E non lo dico io. Lo dice il New York Times nella riga successiva, comunicandoci che Obama “sta aumentando l’aiuto ai ribelli e raddoppiando gli sforzi (letteralmente, ndr) per costruire una coalizione di paesi concordi ad abbattere con la forza il governo del presidente Bashar al-Assad “.
    Dunque se “sta aumentando” vuol dire che l’aiuto ai ribelli già c’era. Cioè che gli Stati Uniti stavano già violando la Carta dell’Onu e tentavano di sovvertire dall’esterno un paese sovrano. Adesso dice che “raddoppiano gli sforzi”. Cioè da oltre un anno gli USA stanno conducendo una guerra per interposta persona contro la Siria e l’ineffabile New York Times (con il codazzo di giornali e telegiornali italiani) ci spaccia che quello che è avvenuto fino ad ora era per un “regolamento diplomatico”.
    Si trattava e si tratta, dunque, di un progetto di “abbattere con la forza” un governo. Prosegue il NYT (citando fonti dell’Amministrazione) con l’annuncio che ci sono stati “colloqui con la Turchia e Israele sul tema della gestione del collasso del governo siriano” e, anzi, si fa capire che potrebbe essere affidato proprio ad Israele il compito di “distruggere i depositi di munizioni”. Nel frattempo i tagliagole libici di Al Qaeda, portati in Turchia da aerei inglesi, americani e francesi, estendono la guerra, mentre i servizi segreti dei paesi di cui sopra mettono le bombe a Damasco facendo saltare in aria, uno ad uno, i generali di Bashar. Cioè organizzano il terrorismo.
    L’Amministrazione – scrive pudico il NYT – non fornirà armi alle forze ribelli, anche perché lo stanno già facendo egregiamente tre campioni della democrazia occidentale come la Turchia, il Qatar e l’Arabia Saudita. In compenso Washington “fornirà istruzione tecnica e equipaggiamento per le comunicazioni” per accrescere la capacità di combattimento delle opposizioni”. Si presume con corredo di detonatori e di esplosivi. Infatti è previsto anche “un supporto di intelligence”.
    Come si vede tutto molto diplomatico.
    Aggiungo una notazione che piacerà molto ai debunkers dell’11/9. “Noi stiamo puntando ad una demolizione controllata del regime di Assad”, ci rivela Andrei J. Tabler dell’Istituto per la politica del Vicino Oriente, di Washington. E poi aggiunge, prudentemente: “Ma, come in qualunque demolizione controllata, c’è sempre qualcosa che può andare storto”.
    Appunto: qualcuno se ne accorge, com’è avvenuto con le tre “controlled demolitions” dell’11 Settembre 2001.
    Peccato che Russia e Cina, i cattivi, non accettino di prendere parte a queste “iniziative diplomatiche”. Washington vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca. Abbattere e uccidere (certo, uccidere) Bashar, e avere un bel regime amico in Siria. E vorrebbe che tutti fossero d’accordo con il piano. Anche se poi, crollato Bashar, arriveranno al potere i tagliagole, com’è avvenuto in Libia.
    Ora prepariamoci a vedere una parte dell’ex campo pacifista italiano applaudire l’ingresso a Damasco delle forze liberatrici arabo-saudite.
    E pensare che c’è perfino qualche Pulitzer in erba italiano che continua a scrivere, imperterrito, che gli Stati Uniti sarebbero preoccupati per una eventuale caduta di Assad. Il compianto prof. Cipolla ci ha lasciato le sue leggi fondamentali della stupidità umana. La prima era questa, da tenere presente: “Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi che ci circondano”.
    (25 luglio 2012)

    Ingroia al confino in Guatemala


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    - Beppe Grillo -
    Ingroia, il giudice di Palermo che indaga da anni sulle collusioni tra politica e criminalità per la strage di via D'amelio, va in Guatemala. Un incarico dell'ONU per combattere la criminalità nello Stato centroamericano. E' una buona notizia? Si e no. Si, perché Ingroia era diventato un bersaglio. Rischiava di finire ammazzato come Borsellino che sapeva di morire perché a conoscenza della trattativa stato (con la s minuscola) - mafia. Borsellino era persino informato del tritolo dell'esercito arrivato dal continente appositamente per lui. Disse che la mafia, che lo avrebbe ucciso, era solo manovalanza. No, perché con Ingroia in Guatemala, ancora una volta questo Paese si dimostra di merda. Quella sostanza che esce dal culo delle istituzioni deviate da almeno vent'anni. Non è una buona notizia perchè anche un bambino assocerebbe, a torto o a ragione, il trasferimento di Ingroia alle pressioni di Mancino e di Napolitano. Quest'ultimo vorrebbe distrutte le intercettazioni tra il Quirinale e l'ex ministro degli Interni. Che Mancino, democristiano di antico corso, telefoni al Colle sapendo di essere indagato è molto strano. Le probabilità che fosse intercettato erano altissime, non poteva non saperlo. Ho il sospetto che non abbia telefonato per chiedere aiuto, ma per tentare di coinvolgere la presidenza della Repubblica. Dopodiché i giochi erano fatti.
    I tempi cambiano. I giudici prima si ammazzavano, ora si mandano al confino all'estero, molto più lontano che ai tempi di Mussolini. Ieri a Eboli, oggi a Città del Guatemala. Con il loro consenso, ovviamente. Le forme vanno salvate. Il ministro della Giustizia Severino, con sfoggio di humor british, ha detto "Combattere la criminalità organizzata anche fuori dal territorio nazionale è importantissimo, perché la criminalità organizzata è transnazionale e avere i nostri magistrati... è una cosa che ci fa veramente onore". L'Italia, Paese delle mafie, 'ndrangheta, camorra, mafia siciliana, sacra corona unita, tra i più corrotti del mondo, si priva quindi di uno dei suoi più importanti magistrati per combattere la criminalità guatemalteca. E' una barzelletta atomica. Non siete più credibili, evitate almeno di prendere per il culo gli italiani che, mentre salutano un uomo coraggioso, devono ascoltare il piduista Cicchitto, tessera 2232, spiegare che "Nessuno può paragonare Borsellino a Ingroia sul terreno della lotta alla mafia. E infatti si è visto quello che è successo a Borsellino". Cicchitto ci spieghi se la P2 è stata coinvolta o meno nelle trattative. Cicchitto, che ha detto di Ingroia, è "una grave anomalia, un falsario, un fazioso", dovrebbe saperlo. Rigor Montis, nel frattempo, pensa da vero statista alle prossime generazioni. Zzzzzzzzzzz. Non svegliatelo. Ci vediamo in Parlamento, sarà un piacere.

    Mario Monti odia lo Stato. E ci dicono che lo salverà.

    Mario Monti, il criminale che sta smembrando il futuro delle prossime due generazioni di bambini italiani e tutta la nostra ricchezza residua, è un fanatico discepolo del Libero Mercato. Il Libero Mercato è possibile solo e unicamente a condizione che lo Stato cessi di esistere, poiché lo Stato moderno è nato con la funzione primaria di proteggere la gente dalla furia predatoria del Libero Mercato.
    Il fanatismo integralista del Libero Mercato anti-Stato ha un padre-profeta, che risponde al nome di Friedrich August von Hayek, economista austriaco vissuto dal 1899 al 1992. Di seguito alcuni suoi principi:
    Sullo Stato Sociale, Hayek così si pronunciò: “Fornire agli indigenti e agli affamati qualche forma di aiuto, ma solo nell’interesse di coloro che devono essere protetti da eventuali atti di disperazione da parte dei bisognosi”.
    Sulla democrazia dello Stato, si dichiarò a favore di uno Stato minimo, ma anche di uno Stato dittatoriale che imponesse le leggi dell’ordine supremo al popolo ignorante.
    Sulla funzione pubblica della spesa statale, Hayek pensò che distruggendo ogni accesso dello Stato alla moneta si sarebbe finalmente abolita ogni forma di spesa pubblica. Propose l’abolizione completa del monopolio statale sull’emissione della moneta, per permettere solo alle banche private di creare denaro in libera competizione fra loro. Di fatto, si sarebbe trattato dell’abolizione del Tesoro nazionale e del bilancio dello Stato. L’abolizione dello Stato in sé.
    ** Si noti che quanto sopra è precisamente il disegno dell’Eurozona, cioè la sottrazione radicale agli Stati sovrani della loro moneta. Otmar Issing, uno dei padri dell’Euro e membro della BCE, ha dichiarato:“Quello che è successo con l’introduzione dell’Euro ha davvero ottenuto ciò che invocava Hayek”. E ancora: “E’ oggi chiaro che idee come le sue hanno ispirato i Trattati dell’Unione Europea… Non dovrebbe Hayek essere oggi felice di ciò che abbiamo fatto? Così tanta parte delle sue idee degli anni ’60 sono oggi legge europea”. Questo ammette il maggior insider della BCE nel 1999, parlando liberamente presso una delle più accanite fondazioni di destra neoliberista del mondo, l’Institute of Economic Affairs di Londra. Ammette che davvero, come da me scritto molte volte, questa Unione fu modellata sul volere dei profeti delle elites sociopatiche e anti-Stato, in palese sfregio del mandato ricevuto dagli amministratori dei cittadini comuni d’Europa. **
    Posto di fronte alla scelta se favorire l’occupazione o la lotta all’inflazione, Hayek non ha dubbi: la lotta all’inflazione deve essere Regina, e tutto il resto dell’economia viene dopo, incluse le masse disperate delle persone condannate a una vita ignobile nella disoccupazione e sottoccupazione, che non lo toccano minimamente.
    Hayek era un propagandista di un Darwinismo sociale senza pietà. Per lui ogni singolo aspetto del vivere comune, inclusa la morale, doveva essere frutto di una lotta spontanea, e mai di una pianificazione democratica dello Stato. Niente tutele per le minoranze, per i deboli, assolutamente no spesa dello Stato per il bene pubblico, trionfa solo il meritevole, il forte, in assenza completa di una qualsivoglia funzione pubblica. Hayek rappresenta il massimo profeta anti-Stato forse mai esistito.

    JOSÉ MUJICA, IL PRESIDENTE CHE VIVE CON 800 EURO AL MESE

    Fonte: cadoinpiedi.it          
    La sua vittoria in Uruguay, nel marzo 2010, fu un evento storico. Persone di tutte le età e classi sociali scesero in strada per festeggiare il nuovo presidente: l'ex guerrigliero di sinistra José Mujica che, dal Movimento de participación popular (Mpp) contro la dittatura, era salito alla guida del Paese.
    Adesso Mujica, 78 anni, vive con 800 euro al mese, rappresentando il miglior modello di austerity su scala internazionale. Abita in una fattoria, di proprietà della moglie, a Rincón del Cerro, alla periferia della capitale. Per il fisco, l'unico patrimonio di Mujica è una vecchia Volkswagen Fusca. Il presidente uruguaiano non sa cosa sia una carta di credito, né un conto in banca. E la sua unica scorta è il cagnolino Manuela.
    A chi gli ha chiesto spiegazioni per questo stipendio "da fame", il presidente ha risposto: "I soldi mi devono bastare perché la maggior parte degli uruguaiani vive con molto meno".

    Le lezioni di economia di quei soloni dei greci

    Fonte: il manifesto | Autore: Edoardo Vanni        
    Alcune volte, ristabilire il senso alle parole non è solo pedanteria terminologica. È un’operazione di verità. Le questioni terminologiche nascondono più profondi dissidi di concetto. E il concetto che sta dietro alla parola è una cosa seria. Ci permette di dare senso al mondo. Ordinarlo. Comprenderlo. Ma soprattutto trasformarlo. Dare forma coerente alla prassi. Tanto più adesso. Che invasi dalla fantasmagoria della forma merce e dalle maglie infrangibili dell’ordinamento capitalistico, siamo incapaci di intravedere alternative.
    Salti storici. Viviamo in un eterno presente. Tutto ci sembra così immobile nella sua infinita liquidità. Il capitalismo assoluto-totalitario pone se stesso, viene a corrispondere al proprio concetto. Non lasciando spazio a nessun’altra forma, in un’inedita sussunzione reale. È in questo deserto concettuale che parole come ‘economia’ se da un lato invadono il nostro mondo verbale, dall’altro perdono ogni orizzonte di senso. De-concettualizzandosi. Intendiamoci. L’economia non è una cosa reale. È una disciplina. Né più né meno come l’astrologia. Un modo di dare senso al mondo e di dominarlo, nato tra XV e XVIII secolo. Il fatto che sia quantificabile, che la potenza delle formule matematiche gli dia senso, non ne fa un vincolo concreto.
    I Greci banalmente, distinguevano tra oikonomia e kremata. L’una aveva a che fare con la gestione della casa, la riproduzione della famiglia. Aveva come campo semico il valore d’uso. Riguardava l’uomo, la società più in genere, la gestione della città, della polis. Il secondo termine aveva a che fare con il mondo delle cose, con il valore di scambio. Si configura come l’arte di accumulare ricchezza. All’origine della nascita della polis greca, con le sue leggi, i suoi ordinamenti, le sue spettacolari forme artistiche, letterarie e filosofiche, vi fu il ristabilimento della misura (metron) all’arricchimento smisurato (apeiron) prodotto dall’economia mercantile. Nessun miracolo greco, ma un prodotto delle condizioni socio-politiche dell’epoca. In quella spettacolare interazione tra idee e condizioni materiali della produzione.
    Le prime riforme democratiche varate da Solone (638 a.C.-558 a.C.), riguardavano l’abolizione della schiavitù per debiti e l’allargamento della cittadinanza. Erano misure tese al ristabilimento del senso della totalità sociale perduta, basata su un nuovo principio politico fondato sul demos e sull’applicazione concreta del metron a tutti gli ambiti della vita collettiva e individuale. Ristabiliva il primato della politica sulla crematistica. Dell’economia (oikonomia) sul mondo delle cose. Del valore d’uso su quello di scambio. Della misura sul cattivo infinito. Questa misura era sì morale, etica. Era un atteggiamento dell’animo. Ma era soprattutto misura reale e concreta. Tendeva da un lato a controllare i consumi e forme di accumulazione (una sorta di comunismo ante litteram) e dall’altra ad indirizzare la produzione (come il socialismo) verso forme di ridistribuzione.
    Il primato della politica sull’economia come oggi la intendiamo, fu all’origine di quelle straordinarie manifestazioni culturali e civiche con cui ancora oggi ci confrontiamo. E questo ci dà la misura della forza innovativa che oggi potrebbe generare una simile presa di posizione nel mondo. Sembra banale affermare questo primato in tempi di crisi manifesta. Ma ristabilire l’ordine dei termini a volte è propedeutico. Per immaginare il futuro. A partire dal passato.
    Ciò che oggi chiamiamo economia non esiste. È un’astrazione non meno impalpabile della «fiducia» dei mercati. Esiste solo l’economia-politica, come già aveva intuito Marx. L’uomo, con tutte le sue manifestazioni ideali e materiali, produttore di società per vivere, nell’appropriazione del mondo delle cose. È questione di ristabilire le corrette gerarchie. In questo i Greci, possono ancora darci lezioni. Di oikonomia.

    martedì 24 luglio 2012

    "Oltre l'austerità", un ebook gratuito per capire la crisi

    di Sergio Cesaratto

    Da oggi è scaricabile gratis sul sito di MicroMega l'ebook "Oltre l'austerità". Un contributo indispensabile per approfondire i temi della crisi economica e sociale che ha investito l'Europa e le prospettive per la sua soluzione. Con estremo rigore analitico, ma con un linguaggio accessibile anche per il lettore non specialista, gli autori del volume fanno giustizia di molti luoghi comuni, superficialità ed errori con i quali, anche sulla stampa italiana, è stata raccontata la crisi.
    Più sotto l'indice. Buona lettura.

    I
    ndice
    Introduzione 6
    S. Cesaratto e M. Pivetti

    1. Le politiche economiche dell’austerità

    L’austerità, gli interessi nazionali e la rimozione dello Stato 11
    M. Pivetti
    Molto rigore per nulla 19
    G. De Vivo

    2. La crisi europea come crisi di bilancia dei pagamenti e il ruolo della Germania
    Il vecchio e il nuovo della crisi europea 26
    S. Cesaratto
    Le aporie del più Europa 44
    A. Bagnai
    Deutschland, Deutschland…Über Alles 55
    M. d’Angelillo e L. Paggi

    3. Austerità, BCE e il peggioramento dei conti pubblici
    Sulla natura e sugli effetti del debito pubblico 71
    R. Ciccone
    La crisi dell’euro: invertire la rotta o abbandonare la nave? 89
    G. Zezza
    Oltre l’austerità 4 MicroMega
    Le illusioni del Keynesismo antistatalista 104
    A. Barba
    La crisi economica e il ruolo della BCE 111
    V. Maffeo

    4. Austerità, salari e stato sociale

    Quale spesa pubblica 122
    A. Palumbo
    Crescita e “riforma” del mercato del lavoro 133
    A. Stirati
    Politiche recessive e servizi universali: il caso della sanità 145
    S. Gabriele
    Spread: l’educazione dei greci 160
    M. De Leo

    5. Oltre l’euro dell’austerità

    Un passo indietro? L’euro e la crisi del debito 172
    S. Levrero
    Una breve nota sul programma di F. Hollande e la sinistra francese 185
    M. Lucii e F. Roà

    La Bolivia di Evo Morales mette al bando la Coca-Cola. Segna l'inizio simbolico della "cultura della vita"

       - controlacrisi -
    Dal prossimo ventuno dicembre la Coca-Cola sarà bandita in Bolivia per essere sostituita dalla "Mocochinche", bevanda tradizionale a base di nettare di pesca. Per il governo sarà "la fine dell'egoismo e della divisione".
    "Il 21 dicembre 2012 segnerà la fine dell'egoismo e della divisione". Cion queste parole David Choquehuanca, Ministro degli Esteri boliviano, ha spiegato il motivo per cui il governo di La Paz abbia scelto proprio il ventuno di dicembre come data in cui la Coca-Cola non sarà più venduta.
    Si tratta di un simbolico passaggio di consegne tra la "fine del capitalismo" e l'inizio della "cultura della vita". Già lo scorso anno è stata lanciata la "Coca-Colla", bevanda locale che imita il prodotto statunitense nel nome e nei colori dell'etichetta. Inoltre in Bolivia, la Coca-Cola è sottoposta a rigidi controlli fiscal per verificare eventuali irregolarità dal punto di vista contabile e sfruttamento illecito degli operai. Come avviene in tante pari del mondo, la Colombia in testa, dove il sindacato Sinaltrainal ha più volte denunciato violazioni permanenti dei diritti umani dei lavoratori, unitamente a minacce alla loro vita da parte della multinazionale a stelle e strisce. La misura mostra anche la volontà del governo boliviano di voler difendere la produzione delle foglie di coca, utilizzate in maniera sempre maggiore per la produzione di beni di largo consumo, per Coca-Cola compresa, nonostante le smentite della multinazionale con sede in quel di Atlanta. Secondo indiscrezioni, negli USA, sarebbero importate 180 tonnellate all'anno di foglie di coca dal Perù.

    Verso la fine dell’euro. E’ davvero un dramma?

     
    L’Euro non può essere un tabù. Ripristinare la leva del cambio consente non solo di agire sul livello dei prezzi relativi dei beni prodotti in paesi diversi ma anche sul valore delle attività e passività finanziarie senza influire sui rischi di rimborso del capitale.

    Il disordine regna sovrano in Europa. Se il presidente della Bce Mario Draghi asserisce in un’intervista al quotidiano Le Monde che l’euro è irreversibile, il cancelliere tedesco Merkel si dichiara «ottimista» ma non sicura della sopravvivenza dell’euro. La scorsa settimana l’Eurosistema ha deciso di non accettare titoli di stato emessi o garantiti dalla Repubblica ellenica come collaterale per ottenere prestiti fino alla «conclusione dell’esame condotto dalla Commissione europea, in raccordo con la Bce e l’Fmi, sui progressi compiuti dalla Grecia»; il Fondo Monetario Internazionale, a sua volta, secondo quanto riportato da autorevoli fonti di stampa, starebbe valutando l’idea di bloccare gli aiuti alla Grecia. Il mese di luglio è ormai trascorso senza che siano state avviate misure concrete per rendere operativo il cosiddetto «scudo anti spread» che era stato approvato alla fine di giugno, con grande risalto mediatico, dai capi di stato e di governo dell’Unione europea.
    La prolungata assenza di indicazioni precise, convergenti e realizzabili, oltre che di misure concrete, da parte di coloro che hanno il potere di prendere decisioni rilevanti per i mercati finanziari ha favorito l’attuale drammatica situazione.
    Malgrado l’elevatissimo rendimento atteso, le decisioni di disinvestimento dai titoli degli stati periferici dell’area dell’euro sopravanzano sempre più largamente le decisioni di acquisto. Il divario tra il rendimento dei titoli decennali dello stato spagnolo e quelli analoghi tedeschi ha ampiamente superato i 600 punti base, quello sui titoli italiani ha nuovamente valicato la soglia dei 500 punti base; si tratta di livelli insostenibili per le finanze pubbliche e l’economia di entrambi gli stati che incorporano un’elevatissima probabilità di fallimento.
    In questa situazione l’Europa e i governi degli stati nazionali non possono più tergiversare. L’economia reale e finanziaria dei paesi periferici dell’Eurozona è in via di smantellamento; in Grecia si intensificano i fenomeni di denutrizione di ampie fasce di popolazione, tra cui tanti bambini; dovunque la disoccupazione ha raggiunto livelli insostenibili, anche se i salari e le pensioni sono stati drasticamente diminuiti e le tutele sociali smantellate. Il fallimento delle politiche economiche neoliberiste, che in Italia sono sostanzialmente proseguite senza soluzione di continuità rispetto al passato, sollecita un immediato cambiamento negli indirizzi di governo, ma purtroppo è probabile che sia troppo tardi perché possa avere effetto. La situazione è precipitata a un punto tale che in assenza di acquisti di quantità elevatissime di titoli di stato da parte dell’Eurosistema, non si può che predisporre un’uscita ordinata dalla moneta unica.
    Non è detto che sia un dramma; l’euro non può essere un tabù. Con l’attuale livello di sviluppo delle tecnologie informatiche e delle reti telematiche, la moneta unica costituisce essenzialmente un mero valore simbolico, perché i vantaggi negli scambi sono trascurabili; viceversa, in assenza di un piano di convergenza verso un’unione istituzionale ed economica, la moneta unica costituisce un insuperabile fattore di rigidità.
    L’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che in situazioni di squilibrio negli scambi reali e finanziari tra nazioni, gli interventi sul costo del lavoro, anche drastici, tendono ad accentuare gli squilibri piuttosto che a superarli; ciò è stato tanto più vero quando non sono stati accompagnati da efficaci interventi redistributivi del reddito e della ricchezza. Ripristinare la leva del cambio consente non solo di agire sul livello dei prezzi relativi dei beni prodotti in paesi diversi ma anche sul valore delle attività e passività finanziarie senza influire sui rischi di rimborso del capitale. Anche sui mercati internazionali gli effetti sarebbero trascurabili perché l’euro è stato finora utilizzato in misura molto contenuta come moneta internazionale di riserva, funzione mantenuta in modo pressoché monopolistico dal dollaro.
    Va poi considerato che l’uscita dalla moneta unica potrebbe accompagnarsi al potenziamento del sistema europeo di banche centrali del quale fanno parte gli stati che non hanno adottato l’euro (ad esempio Gran Bretagna, Danimarca, Svezia) per irrobustire il coordinamento delle politiche finanziarie tra i Paesi Ue. Di per sé, l’eventuale ritorno alle monete nazionali non è un ostacolo alla costruzione dell’Europa Unita e agli interventi di rafforzamento delle istituzioni comunitarie in una prospettiva democratica e meno tecnocratica.
    di Pitagora da il manifesto del 24 luglio 2012, via sbilanciamoci.info

    La Crescita come il baratro.

    di Zag in ListaSinistra
    La crescita è quel venticello......
    La Crescita come il baratro Il bene e il male dell'ateismo economico. Paradiso ed Inferno. Non si sa bene cosa siano, ma vengono identificati come il positivo e il negativo. Alcuni anni fa , se interrogato cos'è il bene e cosa il suo contrario si sarebbe risposto il capitalismo e il comunismo. Oggi invece l'intelletto collettivo ha spostato l'asse da concetti politici a concetti economici. E forse sta tutto qua il passaggio del moderno capitalismo. Dal produttivo al finanziario. L'esaurirsi della spinta del primo e il suo trasmutarsi nel secondo. Oggi stiamo assistendo allo sfacelo anche di questo e davanti a noi non vi è niente. Marx diceva e con lui Lenin che un periodo rivoluzionario è quando il vecchio muore e si affaccia il nuovo. Un periodo invece di decadenza è quando il vecchio decade e niente si affaccia come nuovo. Il vecchio e il nuovo si identificano e questo è il periodo più buio e pericoloso. Tutto il fecciume ci appare come nuovo e possibile, tutto pur di aggrapparci e sperare ce ci porti in salvo. Persino Grillo ci appare come l'ancora di salvataggio, persino la riedizione del Berlusconismo in chiave Berlusconi. Finanche la riedizione del montismo con o senza Monti. Basterebbero solo questi esempi per identificare il periodo di decadenza, sia morale che pratico. Cosi fu con la nascita del fascismo. Persino Mussolini apparve come il sol dell'avvenire.

    E i concetti o le immagini di Crescita e di Baratro ( coniugato anche come Tunnel , ma a differenza di questa senza via d'uscita) luoghi di salvezza o di condanna.
    Ma non era stata proprio la Crescita, questa crescita che infine ci ha portato a tutto questo? Allora la crescita non è il cammino nuovo che ci salverà, ma il percorrere il vecchio che fin qua ci ha condotto. Quale diversità della Nuova crescita c'è che sia diverso dalla vecchia? Forse il nuovo modello di sviluppo? Forse l'abbandono dei vecchi rapporti di potere o di rapporti fra le forze produttive? Niente di tutto questo solo Crescita. e...basta la parola. Ma non sarebbe il caso di chiedere , ma di quale crescita si sta parlando?
    Ma lo so ci risponderebbero che non è il caso di sottilizzare. Quando la barca affonda ( e naturalmente ci diranno che nella barca ci siamo tutti) si pensa a salvarci senza andare tanto per il sottile. L'alternativa è .... il Baratro .
    Sarà che sono diffidente e scettico.
    Ma a me pare che Crescita e Baratro alfin pari son...
    Grave è la situazione sotto il cielo. Però la situazione non è eccellente!

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