Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 6 luglio 2013

La Grecia è un comune destino

Fonte - Rossland -
Entro 3 giorni la Grecia dovrà dare risposta alle richieste avanzate dalla Troika come conditio sine qua non per ottenere la nuova tranche di aiuti.
La maggior parte dei tagli riguarderà dai 4000 ai 7000 dipendenti nel settore pubblico.
Intanto, il Ministro della Salute, Adonis Gheordiadis, conferma ufficialmente la volontà di chiudere gli ospedali del Paese.
La Troika avrebbe poi chiesto di trovare le coperture che mancano ai numeri greci in un ritocco alla normativa sul lavoro, abbassando il salario minimo nel Paese a 350€.
Che non è uno stipendio, ma l'argent de poche concesso al servo volonteroso e fedele.

Leggevo stamattina un pezzo sulla situazione in Grecia, pubblicato il 20 giugno su un sito francese e riportato tradotto su Come Don Chisciotte, dal quale riporto alcuni paragrafi che, se compresi, dovrebbero farci scendere tutti in piazza a sostegno dei greci e contro l'ulteriore proseguimento delle politiche di austerità, ovunque uguali, in Europa:
Benvenuto in Grecia, laboratorio europeo del « capitalismo del disastro» ! Milton Friedman descrive come dei cambiamenti economici improvvisi e di grande ampiezza provochino delle reazioni psicologiche « facilitanti la risoluzione » . Una risoluzione che si traduce per degli attacchi sistematici contro la sfera pubblica. Un approccio simile alla dottrina militare degli Stati Uniti in Irak, Shock and Awe (Choc e spavento), descrive l'autrice canadese Naomi Klein, che aveva lo scopo di « controllare la volontà, le percezioni e la comprensione dell'avversario e di privarlo di ogni capacità di agire e reagire .» Per meglio riuscire, infine, la terapia dello choc economico.
« Non siamo più nel capitalismo, ma nel suo prolungamento, una sorta di meta-capitalismo »prosegue. Il trauma collettivo. Una situazione che ricorda stranamente la strategia dello choc, definita da Milton Friedman, teorico del liberismo economico : « Aspettarsi una crisi su ampia scala, poi, mentre i cittadini sono ancora sotto choc, vendere lo Stato pezzo per pezzo, a degli interessi privati prima di trovare il modo di rendere eterne le « riforme » varate sotto il segno della fretta » (10)
Perché i greci hanno accettato queste misure di austerità in cambio di un piano di salvataggio che non ha risolto niente? « Abbiamo perso un milione di posti di lavoro nel settore privato. E' come se, in Francia, si sopprimessero d'un colpo 6 o 7 milioni di posti di lavoro. Si ricevono più volte al giorno delle cattive notizie. Come può un cervello umano sopportare questa cadenza (ravvicinata di cattive notizie)? » si interroga Panagiotis Grigoriou, storico e etnologo, autore del blog Greek Crisis. « Più di 8000 manifestazioni e scioperi hanno avuto luogo in tre anni, i greci si sono rassegnati. Cosa si può fare di più? Ogni linea del memorandum (lista delle misure di austerità imposte dalla Troika, ndr) è stata votata. Si annullano delle leggi in vigore da decenni. La Costituzione è stata violata. A cosa serve il Parlamento? »
Poco fa, su Il Fatto Quotidiano, la notizia che chiarisce, a chi ancora non lo avesse compreso, l'obiettivo della dottrina Shock and Awe applicata ai Pigs, paesi guarda caso sul Mediterraneo, dalla Troika:
Al via la cinesizzazione della Grecia. Una piccola Dubai nascerà nell’Egeo

Avevate dubbi?

Riflettevo poco fa che è la paura lo strumento più efficace della terapia a base di Shock and Awe di cui si serve la Troika per ottenere ciò che vuole, esige, comanda, pretende.
Allora, forse dovremmo iniziare a chiederci se non sia la paura, il nostro peggior nemico.

Paura sottile, che mimetizziamo fingendo che sia tutto normale e che si infiltra intanto ovunque.
Paura che paralizza ogni nostra capacità di giudizio, anziché farci urlare di dolore come di norma si fa quando si ha paura.
Che ci fa remissivi anche mentre abbiamo davanti agli occhi la forca che ci impiccherà e neutralizza in noi ogni reazione fin oltre il buon senso (o l'istinto di sopravvivenza nudo e crudo, se volete), anche quando siamo fin troppo consapevoli che quanto ci accade è opera o di folli o di criminali.
Noi non reagiamo più.
Al più twittiamo o commentiamo o scriviamo post (come faccio impotente anch'io, peraltro).
Qualche volta ci uniamo a qualche comitato, a qualche associazione, quasi a farci coraggio nelle nostre intenzioni di ribellione, ma sempre agendo poi con tempi e modi "civili".
Perché l'altra cosa singolare è questa: protestare è consentito solo se la protesta è "civile".
Altrimenti è illegale, cioè i criminali diventiamo noi.

Ciò che succede in Grecia scuote la nostra attenzione ogni volta per quel paio di minuti in cui leggiamo la notizia prima di scordarcela passando alla successiva, come si trattasse di qualcosa che non ci riguarda, che non ci toccherà mai, che ci dispiace ma forse la Grecia "se lo merita" perché, come ci propinano da almeno un paio d'anni, la Grecia ha "vissuto al di sopra delle proprie possibilità".
E noi italiani? E gli spagnoli?
Non sono forse le stesse cose che dicono a noi nell'imporci l'Imu o l'aumento dei ticket o quando riducono i diritti nel mondo del lavoro perché bisogna ridurre il debito ma anche pensare alla ripresa dell'economia?
E che economia si riprende, se non quella a cui siamo nel frattempo stati riadattati?

Dobbiamo imparare a sentire che la Grecia è ognuno di noi, perché inizino a invertirsi quei rapporti di forza che consentono oggi alla Troika di imporre in Grecia salari da 350€ così da poter felicemente consegnarla alla Cina affinché ne faccia una nuova Dubai.
Un paese svenduto chiavi in mano, fornito di schiavi pronti all'uso.
E non mi si venga a dire che non sanno quel che fanno.
Lo sanno.
Shock and Awe funziona perché siamo vittime della paura di aver compreso fin troppo bene, cosa ci stanno facendo.
E funziona perché siamo vittime di un'idea di noi stessi che ci fa allontanare da noi perfino il pensiero, che sia tempo di smetterla con la generosità di giudizio verso chi ci sta spingendo a forza la testa sotto la mannaia.

La reinvenzione del fascismo

di Johan Galtung

Se la libertà è quella di utilizzare denaro per guadagnare più denaro, la sicurezza è la possibilità di uccidere i nemici, la democrazia è ridotta al rito delle elezioni, qualcosa di grave sta accadendo. È la reinvenzione del fascismo, il potere che passa nelle mani del nuovo “complesso militare-finanziario”

Le atrocità della Seconda guerra mondiale hanno lasciato dietro di sé danni permanenti, abbassando i nostri standard su quello che è accettabile. La guerra è male; ma se non è una guerra nucleare, non siamo oltre il limite. Il fascismo è male; ma se non è accompagnato dalla dittatura e dall’eliminazione di un’intera categoria di persone, non siamo oltre il limite. Hiroshima, Hitler e Auschwitz sono profondamente radicati nelle nostre menti, deformandole.
La bomba di Hiroshima ci porta a trascurare il terrorismo di stato contro le città tedesche e giapponesi, che ha ucciso cittadini di ogni età e genere. Hitler e Auschwitz ci fanno trascurare il fascismo, inteso come il perseguimento di obiettivi politici attraverso la violenza e la minaccia della violenza. Ci vogliono due soggetti per fare la guerra, di qualunque tipo. Ma ne basta uno per realizzare il fascismo, contro il proprio popolo e/o contro gli altri.
Qual è l’essenza del fascismo? La definizione è il connubio tra il perseguimento di obiettivi politici e l’uso di una violenza smisurata. Proprio per evitare questo abbiamo la democrazia, un gioco politico in cui si perseguono obiettivi politici attraverso mezzi nonviolenti, in particolare attraverso l’ottenimento della maggioranza da parte di un soggetto politico, in elezioni libere e giuste o nei referendum. Un’innovazione meravigliosa, con una conseguenza logica: l’utilizzo della nonviolenza quando la stessa maggioranza oltrepassa i limiti, come è ad esempio scritto nei codici dei diritti umani.
Lo Stato forte, capace e disposto a mostrare la sua forza, anche nella forma della pena di morte, appartiene all’essenza del fascismo. Questo vuol dire un monopolio assoluto del potere, anche quello che non viene dalle armi, incluso il potere nonviolento. E vuol dire una visione della guerra come un’attività ordinaria dello Stato, rendendola normale, eterna addirittura. Vuol dire una profonda contrapposizione con un nemico onnipresente, come gli ariani contro i non ariani, la cristianità contro l’Islam, glorificando il primo e demonizzando il secondo. Ovunque, il fascismo fa del dualismo, del manicheismo e di Armageddon – la battaglia finale – un tutt’uno.
Va da sé che tutto questo vuol dire una sorveglianza illimitata sul proprio popolo e sugli altri; la tecnologia postmoderna rende tutto ciò possibile, o almeno plausibile. Quello che conta è la paura; conta che le persone abbiano timore e si astengano dalla protesta e da azioni nonviolente, per la minaccia di essere individuate per la punizione estrema: l’esecuzione extragiudiziale. Che ci sia davvero un controllo su e-mail, attività su internet e telefonate, è meno importante rispetto al fatto che le persone credano che ciò stia accadendo sul serio.
Il trucco è farlo in maniera indiscriminata, non concentrandosi solo sugli individui sospetti, ma facendo sentire ciascuno un potenziale sospetto; spingendoli a stare al sicuro per la paura, trasformando i potenziali attivisti in cittadini passivi sottomessi al governo. E lasciando così la politica nelle mani dei Big Boys – gli uomini di potere con i muscoli, sia in patria che all’estero.
Il trucco più semplice è rendere il fascismo compatibile con la democrazia. Una recente notizia colpisce: “Ammettendo che le forze inglesi torturarono i kenyoti che combatterono contro il dominio coloniale negli anni ’50, il governo risarcirà 5.228 vittime” (International Herald Tribune, 7 giugno 2013). Un numero drammatico, più di 5.000 – ma sicuramente il numero delle vittime è maggiore. Dov’era la “Madre dei Parlamenti” durante una simile manifestazione di fascismo? Si avverte una formula: “era per la sicurezza degli inglesi in Kenya”, dove sicurezza è la parola-ponte tra fascismo e democrazia, sostenuta da quella paranoia istituzionalizzata a livello accademico che sono gli “studi sulla sicurezza”.

Crisi del debito: Il Portogallo fa tremare la zona euro

Il primo ministro Pedro Passos Coelho

Il primo ministro Pedro Passos Coelho
Rodrigo
La crisi politica che scuote il Portogallo apre un nuovo periodo di turbolenze per l’Ue. Mentre qualcuno si affrettava ad annunciare la fine della crisi, ci si pone adesso la questione della crescita. A che serve un rigore senza ripresa? Soprattutto in paesi politicamente deboli.
Alcuni ministri si dimettono, un governo vacilla e i mercati si mostrano molto preoccupati. Chi avrebbe immaginato solo qualche settimana fa che il Portogallo avrebbe provocato tutti questi problemi? Dopo lo sblocco del piano di salvataggio da 78 miliardi di euro, il paese era additato come esempio.
In effetti Lisbona non ha risparmiato gli sforzi per risanare le sue finanze, mettendo a dieta l’amministrazione pubblica e avviando con coraggio le riforme richieste dai suoi creditori.
Ma dietro l’aria da studente modello della zona euro, le ferite sono rimaste aperte. Il piano di risanamento finanziario ha provocato una forte recessione e la coalizione di governo ha perso il sostegno dell’opinione pubblica. La fatica del rigore ha investito il paese e adesso minaccia di portare a elezioni anticipate e a una rinegoziazione del programma di aiuti internazionali, con il pericolo di una ristrutturazione forzata del debito, se non addirittura dell’abbandono dell’euro.
In questo modo il Portogallo ha risvegliato nella zona euro i fantasmi dell’autunno 2011, quando gli investitori vedevano la Grecia avviarsi verso un’inesorabile bancarotta, seguita dalla Spagna e dall’Italia, mentre le banche europee perdevano la fiducia dei suoi finanziatori.
E per di più il Portogallo ridesta questi timori nel momento peggiore: il nervosismo è molto alto da quando gli investitori si sono resi conto che non potranno continuare a contare sulle banche centrali e sulla loro generosa iniezione di liquidità per ammortizzare lo shock recessivo e contrastare le debolezze politiche. Che cosa può fare oggi la Bce se non spingere i dirigenti europei ad accelerare le riforme?
In questi ultimi dodici mesi i mercati hanno apprezzato l’azione energica di Mario Draghi per sostenere le banche – con la concessione di prestiti per miliardi di euro – e gli stati – con lo scudo costituito dal programma di acquisto di obbligazioni di stato. Ma avevano dimenticato una cosa essenziale: la poca vivacità della crescita e del credito nei paesi “periferici”, il peso sempre insopportabile dei loro debiti, l’alta disoccupazione e l’instabilità dei loro governi.
I mercati hanno continuato a ignorare le disparità fra i paesi della zona euro, che rimangono considerevoli, o che addirittura sono in aumento, e che sul lungo periodo non sono sostenibili; per poi dirsi disponibili a nuove mutualizzazioni delle risorse e a nuovi trasferimenti di sovranità. Molto probabilmente la Germania non farà nulla prima delle elezioni politiche di settembre e prima del verdetto della corte di Karlsruhe sulla legalità dello scudo della Bce. E di conseguenza l’estate promette di essere ancora molto agitata.
Traduzione di Andrea De Ritis

mercoledì 3 luglio 2013

Libero scambio Usa-Ue, un accordo a perdere

di Anna Maria Merlo - sbilanciamoci -

L’Europa, che arriva al negoziato con gli Usa divisa, rischia di immolare sull’altare della competitività i propri servizi pubblici. Salute, scuola e acqua rischiano di finire nel tritacarne

Le stupefacenti rivelazioni sullo spionaggio statunitense nelle ambasciate, missioni diplomatiche e istituzioni europee potrebbero ritardare l’avvio del negoziato sul libero scambio Ue-Usa, approvato da parte europea al consiglio dei ministri del commercio del 13 giugno scorso. Viviane Reding, commissaria alla Giustizia, si è dichiarata a favore di un blocco del negoziato, nell’attesa di spiegazioni. “I partner non si spiano a vicenda”, ha affermato. L’eurodeputato verde Daniel Cohn-Bendit sostiene che “ci vuole prima un accordo sulla protezione dei dati dei cittadini e delle istituzioni europee, e fino a che un accordo in questo senso non sarà firmato non ci sarà accordo nel negoziato di libero scambio”. Reazioni indignate in particolare dalla Germania e dalla Francia, due tra i principali bersagli dello spionaggio della Nsa. Invece, colpisce il silenzio del presidente della Commissione, l’ultra-atlantista José Manuel Barroso, che mira ad avere un incarico internazionale alla fine del suo mandato a Bruxelles e punta alla Nato.
Una pausa di riflessione sul trattato di libero scambio può rivelarsi molto utile. La Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) ha l’obiettivo di fondare una “Nato del commercio” tra le due grandi potenze economiche, che concentrano il 40% degli scambi mondiali. Sotto la pressione della Francia, che ha minacciato il veto, è stato tolto dal tavolo dei negoziati il settore culturale, anche se la Commissione ha poi attenuato questa eccezione, con il commissario Karel De Gucht che ha parlato di possibile reinserimento del settore dell’audiovisivo nel corso delle discussioni. Il negoziato dovrebbe dare vita a un mercato interno transatlantico, che attraverso l’abbattimento delle barriere non tariffarie (omologazione delle norme) servirà come arma dell’occidente contro l’emergenza della Cina.
Il Parlamento europeo ha chiesto anch’esso di preservare l’eccezione culturale, ma ha comunque votato a maggioranza a favore dell’apertura della trattativa bilaterale (la sinistra della Gue e i Verdi hanno però votato contro, dei francesi del gruppo S&D si sono astenuti). Malgrado la breve discussione all’europarlamento i cittadini europei sono stati tenuti praticamente all’oscuro su un futuro trattato che, se verrà concluso, è destinato a influire su molti aspetti della vita economica e sociale degli europei, dai diritti del lavoro alla salute, alla scuola, ai beni comuni.
Trionfo della liberalizzazione competitiva
Gli Usa vogliono che tutto venga messo sul tavolo della trattativa. La Commissione, che per i Trattati europei ha il potere di negoziare a nome dei 27, è sulla stessa posizione. “Tutto” significa ogni settore dell’economia suscettibile di creare profitto. Per far fronte alla crisi economica, Usa e Ue hanno scelto la strada del bilateralismo, dopo anni di blocco del Doha Round alla Wto e il conseguente progressivo abbandono del multilateralismo nel commercio internazionale. La Commissione europea preme per rispondere positivamente alla proposta di Obama, affermando che aumentando gli scambi transatlantici ci sarà una spinta alla crescita: Bruxelles è arrivata addirittura a calcolare 545 euro in più l’anno per famiglia europea, grazie a un tasso addizionale di crescita generato dal Ttip tra lo 0,5 e l’1% del pil della Ue e la creazione di almeno un milione di posti di lavoro. L’Europa spera di aumentare l’export in Usa, paese più protezionista (l’80% del mercato europeo è aperto, solo il 30% negli Usa, dove per esempio il 23% degli appalti pubblici sono riservati alle imprese nazionali, protette anche dal “buy american”). Ma già su queste prospettive rosee ci sono forti perplessità. Intanto, l’impatto non sarà eguale in tutti i 27 e con la liberalizzazione si rischia di accentuare le divergenze tra il nord prospero e il sud e la periferia della Ue in crisi.

martedì 2 luglio 2013

Noam Chomsky:

Pennivendolo imperiale. La Libia e la fabbrica del consenso

Ripulendo i ribelli libici e demonizzando il regime di Gheddafi, il leader intellettuale statunitense Noam Chomsky contribuisce all’invasione imperialista? In una lunga intervista con Chomsky, Dan Glazebrook se lo chiede.
noamÈ stato un colloquio difficile per me. Fu Noam Chomsky che per primo mi aprì gli occhi sulla struttura neo-coloniale del mondo e sul ruolo dei media aziendali nel mascherare e legittimare questa struttura. Chomsky ha costantemente dimostrato come, fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, i regimi militari furono imposti al Terzo Mondo dagli Stati Uniti e dai loro alleati europei, con lo scopo riconosciuto di tenere bassi i salari (e quindi alte le opportunità di investimento) con l’annientamento di comunisti, sindacalisti e chiunque altro fosse considerato una potenziale minaccia all’impero. Fu in prima linea nel svelare le menzogne e le motivazioni reali dietro l’aggressione contro l’Iraq, l’Afghanistan e la Serbia negli ultimi anni, e contro l’America Centrale e il Sud-Est asiatico prima. Ma sulla Libia, a mio parere, è stato terribile. Non fraintendetemi: ora la campagna è quasi finita, Chomsky può essere molto schietto nella sua denuncia, come spiega nell’intervista. “In questo momento, la NATO bombarda la più grande tribù della Libia“, mi dice. “Non viene sempre detto, ma se si leggono i rapporti della Croce Rossa descrivono una crisi umanitaria terribile nella città sotto attacco, con gli ospedali al collasso, senza farmaci e persone che muoiono, fuggono a piedi nel deserto per cercare di allontanarsi, e così via. Ciò accade sotto il mandato alla NATO di proteggere i civili“. Ciò che mi preoccupa è che questo era esattamente il mandato che Chomsky ha sostenuto.
Il generale statunitense Wesley Clark, comandante della NATO durante i bombardamenti della Serbia, aveva rivelato alla televisione statunitense sette anni fa che il Pentagono, nel 2001, elaborò una “lista” di sette Stati da eliminare entro cinque anni: Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran. Grazie alla resistenza irachena e afgana, il piano è in ritardo, ma chiaramente non è stato abbandonato. Dovevamo, quindi, aspettarci pienamente l’invasione della Libia. Dato il fallimento dell’ex presidente degli Stati Uniti George Bush, nell’ottenere con la prepotenza il supporto globale nella guerra all’Iraq, con l’impegno dichiarato di Obama al multilateralismo e al “soft power”, avremmo dovuto aspettarci che questa invasione venisse meticolosamente pianificata per darle una patina di legittimità. Data la crescente predilezione della CIA nell’istigare “rivoluzioni colorate” per colpire i governi che non gli piacciono, avremmo dovuto aspettarci qualcosa di simile nell’ambito dell’invasione della Libia. E data la stretta collaborazione di Obama con i Clinton, ci si sarebbe dovuti aspettare che questa invasione seguisse il modello di grande successo istituito dall’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton in Kosovo: supportare i movimenti ribelli a terra per condurre provocazioni violente contro uno Stato, per poi urlare al genocidio per la risposta dello Stato, al fine di terrorizzare l’opinione pubblica mondiale per farle supportare l’intervento. In altre parole, avremmo dovuto vedere intellettuali di spicco e ampiamente rispettati, come Chomsky, adoperarsi per pubblicizzare le rivelazioni di Clark, avvertire dell’imminente aggressione e attirare l’attenzione sulla natura razzista e settaria dei “movimenti ribelli” che i governi di Stati Uniti e Gran Bretagna hanno tradizionalmente impiegato per rovesciare governi non conformi. Chomsky non ha certo bisogno di ricordare le atrocità sgangherate dell’Esercito di liberazione del Kosovo, dei Contras del Nicaragua, o dell’Alleanza del Nord afghana. Anzi, fu lui che allertò il mondo su molti di essi. Ma Chomsky non si è adoperato per chiarire questi punti.
Invece, in un’intervista con la BBC, a un mese dall’inizio della ribellione e, soprattutto, appena quattro giorni prima del voto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite della risoluzione 1973 e l’inizio della guerra lampo della NATO, ha preferito definire la ribellione “meravigliosa”. Altrove, l’occupazione della città orientale di Bengasi da parte di bande razziste, come “liberazione”, e la ribellione come “inizialmente non violenta”. In un’intervista con la BBC, aveva anche affermato che “la Libia è l’unico posto [in Nord Africa], dove c’è stata una reazione molto violenta dello Stato nel reprimere le rivolte popolari“, una rivendicazione così lontana dalla verità che è difficile sapere da dove iniziare. L’ex presidente egiziano Hosni Mubaraq, attualmente è sotto processo per l’uccisione di 850 manifestanti, mentre secondo Amnesty International, solo 110 morti possono essere confermati a Bengasi prima dell’avvio delle operazioni della NATO, compresi i filo-governativi uccisi dalle milizie ribelli. Ciò che rende davvero eccezionale la Libia nella Primavera araba del Nord Africa, è che sia l’unico Paese in cui la ribellione era armata, violenta e apertamente volta a facilitare l’invasione straniera. Ora che Amnesty ha confermato che i ribelli libici hanno compiuto violenze fin dall’inizio, torturando e giustiziando in massa libici neri e migranti africani fin da allora, ho iniziato l’intervista chiedendo a Chomsky se oggi si rammarica per il suo sostegno verso di loro. Lui alza le spalle. “No. Sono sicuro che Amnesty International ha ragione. Vi erano elementi armati tra di loro, ma noto che non ha detto che la ribellione fosse armata, infatti, la grande maggioranza è formata probabilmente da persone come noi [sic], oppositori borghesi di Gheddafi. Era quasi una rivolta senza armi. Si è trasformata in una rivolta violenta, e gli omicidi che vengono descritti in effetti avvengono, ma non è cominciata così. Appena è diventata una guerra civile, è successo.” Tuttavia, in realtà è iniziata proprio così.

lunedì 1 luglio 2013

Più realisti Del re e i bombardieri della TINA.

 

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- militantduquotidien -
Quando si diceva, subito dopo l’elezione del Presidente della Repubblica, “peggio del Pasok“, l’eufemismo non era affatto tra gli invitati. Parecchio tempo fa qualcuno sostenne che la storia si ripete prima come tragedia poi come farsa. Aveva ragione, come su molto altro del resto. La tragedia, come risaputo, è quella greca, la commedia tutta nostra.
Non servirebbe nemmeno una memoria troppo ferrea per ricordare come in una Grecia sull’orlo del collasso economico le spese per fregate, sottomarini e aviazione lievitarono fino al 3% del Pil (secondo paese Nato dietro gli Usa per spese militari). Sponsor degli arsenali, il cuore dell’Europa, Parigi e Berlino che come contropartita dell’approvazione del piano di salvataggio pretesero l’acquisto di sottomarini ThyssenKrupp, fregate ed elicotteri française e carri armati Leopard (223). Era solo il 2011 ma pare che da questo saccheggio, chiamato strategicamente crisi, non vi sia nulla da imparare.
A chiunque capitasse di attraversare la Tracia in treno, in direzione Istanbul, il panorama dal finestrino potrebbe riservare delle sorprese. In prossimità del confine con la Turchia, infatti, è possibile scorgere file e file di blindati in bella mostra, monumento ridicolo all’acciaio novecentesco e monito ad un confine considerato tuttora “caldo” a dispetto della comune alleanza in ambito Nato. La distesa sonnolenta di ferraglia inanimata (era il 2009), carri armati e carri armati, poteva forse stridere con la carenza cronica di mezzi civili. Nell’estate di quello stesso anno le colline intorno ad Atene andavano a fuoco in un incendio che sembrava minacciare la stessa capitale, mentre i cannoni dormivano lungo il confine, lo Stato greco non possedeva sufficienti Candair per spegnere gli incendi e fu costretto a a chiederne in prestito ai paesei vicini, forse anche alla stessa Turchia. Difficile che un sommergibile, una fregata o un Leopard possano svolgere lo stesso compito.
bocciaChecché ne dica Boccia (uno che voleva cedere gli acquedotti pugliesi a Caltagirone) o chi per lui anche gli F-35 di cui la Camera ha discusso mercoledì non servono a spegnere gli incendi. Servono più che altro a fare la guerra e ad alimentare un mercato che non ha mai cessato di produrre profitti in barba al buco nero senza fondo nel quale versano le “finanze civili”. La farsa italiana sugli F-35 (questione che andrebbe osservata nella giusta prospettiva come scritto giustamente qui) tuttavia non si riduce di certo a qualche dichiarazione memorabile, vedi Boccia o il Ministro ciellino Mauro che riesce a pronunciare robe di questo calibro “Per amare la pace, armare la pace” perché le ombre sul prodotto da acquistare superano addirittura quelle sulla loro utilità. Pare, infatti, che gli F-35 siano un costosissimo “bidone” con le ali tant’è che anche altri paesi dalla indiscutibile fede atlantica: Canada, Olanda e Danimarca si sono già ritirati dal progetto mentre nei titolari dello stesso, gli Usa, iniziano i dubbi e le inquietanti prospettive.
Così mentre le nostre similitudini con la Grecia non si riducono alla follia della spesa militare (vedere questo articolo di guido Viale), alla Camera, Pd e Pdl affondano assieme il ritiro dell’Italia dal programma Joint Strike Fighter-F35 bocciando la mozione di Sel e M5s.
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domenica 30 giugno 2013

Titoli tossici, noi come la Grecia

    
Titoli tossici, noi come la Grecia

 

di Guido Viale - Il Manifesto –

Chi o che cosa ha autorizzato i nostri governi a giocare al casinò dei derivati con il denaro degli italiani? Quale regolamento interno, quale legge, quale norma della Costituzione? E perché non se ne può sapere quasi niente? Secondo quanto riferito da la Repubblica (e dal Financial Times) del 26 giugno, il Tesoro italiano è esposto per 160 miliardi di euro (più di un decimo del Pil italiano) con operazioni sui derivati la cui data di stipulazione non è nota. Il governo Monti ne ha rinegoziati nel corso dell’anno scorso per un importo di 31 miliardi, registrando su queste operazioni una perdita potenziale, non ancora giunta a scadenza, di circa 8 miliardi (poco meno dell’importo con cui la ministra Gelmini e, dopo di lei, il ministro Profumo sono riusciti a distruggere sia la scuola che le università italiane). Naturalmente il ministro del Tesoro ha subito smentito ogni rischio, ma quella smentita vale zero. Infatti solo un anno fa su un’altra partita di derivati del Tesoro si era già registrata una perdita di 3 miliardi, saldata dal governo Monti. Su di essa c’era stata una interrogazione parlamentare dell’Idv e una elusiva risposta – «si tratta di un caso unico e irripetibile» – del sottosegretario Rossi Doria; designato a rispondere non si sa perché, dato che si occupa di scuola e non di finanza, materia sui cui è lecito supporre una sua totale incompetenza. Ma se tanto dà tanto, sui 160 miliardi di derivati in essere, le perdite «a futura memoria», che verranno cioè caricate sul bilancio dello stato nel corso degli anni, per poi dire che gli italiani sono vissuti «al di sopra delle loro possibilità», potrebbero ammontare a molte decine di miliardi di lire.Ma facciamo un passo indietro: da tre anni ci ripetono che la Grecia ha fatto il suo ingresso nell’euro truccando i conti perché, in base al suo indebitamento, non ne avrebbe avuto titolo; di qui i guai – e che guai! – in cui è incorsa successivamente. Successivamente. Perché all’epoca del suo ingresso nell’euro nessuno si era accorto di quei trucchi. Poi si è scoperto che a organizzarli era stata la banca Goldman Sachs, allora diretta, per tutto il settore europeo, da Mario Draghi, nel frattempo assurto alla carica di presidente della Bce, cioè dell’organo preposto a garantire la riscossione di quei debiti contratti in modo truffaldino. E di quei trucchi non si è più parlato. Ma lo stratagemma a cui il governo greco e Goldman Sachs erano ricorsi per truccare i conti era proprio quello di nascondere un indebitamento eccessivo (secondo i parametri di Maastricht) dietro a derivati da saldare in futuro. Nello stesso periodo – o poco prima, cioè con maggiore preveggenza – il governo italiano sembra essere ricorso esattamente allo stesso stratagemma: ufficialmente per coprire il debito italiano dai rischi del cambio (allora c’era ancora la lira) e dalle variazioni dei tassi di interesse: i derivati sono stati infatti introdotti nel mondo della finanza come forma di assicurazione contro la volatilità dei cosiddetti mercati; ma, come si vede, la funzione che svolgono è esattamente il contrario. E’ comunque del tutto evidente che lo scopo effettivo di quelle operazioni era quello di “truccare” i conti e garantire così anche all’Italia l’ingresso nell’euro. Qui la presenza ricorrente dello stesso personaggio è ancora più dirompente; perché nel periodo che intercorre tra la probabile – non se ne sa ancora molto – sottoscrizione di quei derivati e l’emersione dei primi debiti che essi comportano Mario Draghi è stato direttore generale del Tesoro (l’organismo contraente) dal 1991 al 2001; poi, utilizzando in modo spregiudicato il cosiddetto sistema delle “porte girevoli”, responsabile per l’Europa di Goldman Sachs (una delle banche sicuramente coinvolta in queste operazioni), poi Governatore della Banca d’Italia e poi presidente della Bce e in questo ruolo uno degli attori più decisi a far pagare agli italiani – e agli altri infelici popoli vittime degli stessi raggiri – la colpa (in tedesco schuld, che, come ci ricordano i ben informati, vuol dire anche debito) di essere vissuti “al di sopra delle proprie possibilità”.
Non basta: ogni sei mesi, ci informa sempre Repubblica, il Tesoro è tenuto a trasmettere una relazione sullo stato delle finanze pubbliche, comprensivo anche dei dati sull’esposizione in derivati, alla Corte dei Conti. Ma in venti anni o quasi, questa si è accorta solo ora dei rischi connessi a queste operazioni e, per saperne di più, ha inviato la Guardia di Finanza nelle stanze del Tesoro; che però si sarebbe rifiutato di esibire la relativa documentazione. Ci ricorda qualcosa tutto ciò? Si ci ricorda da vicinissimo le recenti vicende del Monte dei Paschi di Siena i cui dirigenti – oggi in carcere o sotto inchiesta perché considerati dalle procure di Siena e Roma degli autentici delinquenti – sono riusciti a nascondere alla vigilanza della Banca d’Italia (che combinazione!) una esposizione debitoria incompatibile con il regolare funzionamento di una banca, nascondendola sotto degli onerosissimi derivati, che hanno tenuto rigorosamente nascosti per anni.
Il casinò dei derivati accomuna così le istituzioni di governo del paese alle banche truffaldine (per ora MPS; ma chissà quante altre si trovano nelle stesse condizioni, e non solo in Italia. Mario Draghi al vertice della Bce non ispira certo tranquillità). Per saperne di più, cioè per capire in che mani siamo finiti, in che mani ci hanno messo i governi che si sono succeduti negli ultimi 30 anni (da quando la teoria liberista e il pensiero unico la fanno da padroni e, in termini pratici, da quando è stato portato a termine il famigerato divorzio tra Tesoro e Banca centrale che ha messo le politiche dei governi in balia della finanza: leggi degli speculatori internazionali), basta leggere la sinossi di come funziona il casinò dei derivati che ne fa Luciano Gallino (Repubblica, 26 giugno).
«Nel mondo – spiega Gallino – circolano oltre 700 trilioni di dollari (in valore nominale) di derivati cioè 700mila miliardi, oltre 10 volte il valore presunto del prodotto lordo mondiale, nota mia], di cui soltanto il 10 per cento, e forse meno, passa attraverso le borse. Il resto è scambiato tra privati, come si dice, “al banco”, per cui nessun indice può rilevarne il valore». Ma aggiunge, anche di quel dieci per cento scambiato nelle borse, a definirne il valore concorre solo il 40 per cento cioè il 4 per cento degli scambi complessivi, nota mia]. «Di quel 40 per cento, almeno quattro quinti hanno finalità puramente speculative a breve termine…Di tali transazione a breve, circa il 35-40 per cento nell’eurozone e il 75-80 per cento nel Regno Unito e in USA si svolgono mediante computer governati da algoritmi…che operano a una velocità anche di 22mila operazioni al secondo…Ne segue che chi parla di “giudizio dei mercati” praticamente tutti gli esponenti del mondo politico, imprenditoriale, manageriale e accademico europei, nota mia] dovrebbe piuttosto parlare di “giudizio dei computer”. «Macchine cieche e irresponsabili – aggiunge Gallino – opache agli stessi operatori e ancor più ai regolatori. E per di più, inefficienti». Ma molto efficienti però, aggiungo io, nel trasferire ricchezza dai redditi da lavoro e dalla spesa sociale ai profitti e alla rendita, compito che nel corso degli ultimi trent’anni hanno svolto egregiamente. E non senza che gli addetti alla “regolazione” dei mercati, siano essi manager o politici, o entrambe le cose grazie al sistema delle “porte girevoli”, ci abbiano messo tutta la loro scienza e il loro potere per portare questo trasferimento fino alle estreme conseguenze, quelle che oggi possiamo vedere esposte in vetrina nella catastrofe della Grecia. Ma allora, perché continuare a rimaner sottomessi a un sistema simile? Non è ora di trovare la strada per tirarsene fuori al più presto?
 

Solo Syriza salverà la Grecia. Parola di New York times

    
Solo Syriza salverà la Grecia. Parola di New York times

 

E lo hanno scritto sul New York Times del 23 giugno: «Durante la notte, una organizzazione statale che era stata a lungo vituperata per corruzione e clientelismo è diventata la voce di una resistenza democratica».
Le politiche imposte alla periferia dell’Europa stanno peggiorando la crisi e, secondo i due accademici, un governo greco che respingesse queste politiche autodistruttive per l’Europa stessa farà più bene che male.
I due erano a Salonicco il 12 giugno, il giorno dopo la chiusura della Ert, per un’intervista mai avvenuta perché il canale era stato zittito. Ma negli uffici, hanno incontrato Alexis Tsipras, capo di Syriza, che ha perso d’un soffio le elezioni nazionali nel giugno 2012. Con lui hanno preso parte a un’assemblea spontanea di oltre 2mila persone.
Con la chiusura del servizio pubblico radio televisivo, scrivono Galbraith e Varoufakis che «Ora, il governo ha trasformato un dibattito torbido su mercati e austerità, fiducia e credito in una lotta aperta sulla democrazia e l’indipendenza nazionale. In quella lotta, Syriza si pone come l’alternativa, e il signor Tsipras ora ha la possibilità di diventare primo ministro. Se ci riesce, nulla cambierebbe di vitale per gli Stati Uniti. Syriza non ha intenzione di lasciare le basi militari americane della NATO o vicino. Naturalmente, la complicità americana nella dittatura greca di 1967-1974 non è stata dimenticata ma oggi il problema della Grecia oggi è con l’Europa, e il signor Tsipras non vuole litigare con Washington».
«Il settore finanziario globale vede una vittoria di Syriza con orrore. Ma le banche e gli hedge fund sanno che la maggior parte del debito greco è detenuto da contribuenti europei e dalla Banca centrale europea, e ciò che resta è a ruba dagli investitori perché sanno che sarà pagato. La grande finanza è preoccupata per quello che potrebbe accadere altrove, se un partito di sinistra vince in Grecia. Questo istinto è naturale per i banchieri. Ma per il governo americano adottare la stessa posizione paura sarebbe strategicamente miope».
Insomma, «in questo momento, Syriza potrebbe essere la migliore speranza per l’Europa» perché l’austerità è stata un fallimento ma i greci non vogliono lasciare l’Eurozona.
«Se queste politiche non cambiano – avvertono gli economisti – il crollo totale dell’economia greca è imminente». Galbraith, come noto, pensa a soluzioni di tipo keynesiano, ed è convinto che un «governo Syriza cercherebbe queste riforme e la salvezza del progetto europeo. E questo non può che essere una buona cosa per gli Stati Uniti».
Viene da chiedersi quanta gente porterebbe in piazza in Italia la chiusura della Rai. E, naturalmente, quanto sia lunga la strada per una coalizione della sinistra radicale, autonoma dal Pd, capace di contendere il governo ai liberisti più o meno temperati.”
da Globalist.it

Per cambiare l’euro deve cambiare Berlino

di Alessandro Bramucci - sbilanciamoci -

L'approfondirsi della crisi greca come specchio della crisi del modello sociale europeo. Un convegno a Berlino per cambiare la rotta dell'Europa

La crisi della Grecia che non accenna a rallentare, il declino italiano, il modello sociale europeo in difficoltà ovunque, i salari che cadono, le analisi dell’Ilo e le alternative proposte dal sindacato tedesco, la Dgb. Questi i temi al centro del convegno The social and employment impact of the crisis, tenuto venerdì 21 giugno alla Berlin School of Economics and Law di Berlino, in collaborazione con la Global Labour University, un network di università che offre programmi di formazione per esponenti sindacali.
I lavori sono stati aperti da Trevor Evans, docente di Economia Internazionale alla Berlin School e tra i coordinatori dell’EuroMemo Group, che realizza ogni anno l’Euromemorandum sulle alternative per le politiche europee.
Georgios Argitis dell’Università di Atene e Maria Makantonatou dell’Università dell’Egeo hanno delineato il quadro della crisi greca. Dal 2010 la Grecia è intrappolata in una spirale fatta di austerità e default, imposta dalla Troika (Commissione Europea, Bce, Fmi) con l’accordo del governo di coalizione di Atene, che registra proprio in questi giorni crescenti dissensi interni. I due Memorandum di riforme economiche e finanziarie decisi da governo e Troika si fondano su tre pilastri. Il primo è la riduzione della spesa e del deficit pubblico, che deve arrivare al 2014 a un avanzo primario pari al 16% del Pil. Il secondo riguarda le “riforme strutturali”, in particolare del mercato del lavoro, che puntano ad accrescere la competitività attraverso la depressione dei salari del settore privato. Il terzo è la stabilità finanziaria, con la ricapitalizzazione del settore bancario greco con misure che, fino ad oggi, ammontano a 100 milioni di euro, circa un terzo del debito pubblico. Argitis ha riassunto con efficacia il “mea culpa” fatto dall’Fmi in una recente pubblicazione dove sono evidenziati i limiti dei risultati ottenuti dalle misure di austerità (IMF, Greece: Ex Post Evaluation of Exceptional Access under the 2010 Stand-By Arrangement, 2103). Tasso di disoccupazione più alto di dieci punti percentuali rispetto alle previsioni della Troika, Pil che diminuisce di 17 punti percentuali sui valori del 2009, contro i 5,5 punti percentuali previsti dalla Troika, mercati finanziari che non riacquistano fiducia sulla solvibilità del debito greco. Il Fondo monetario e l’Europa hanno sbagliato i calcoli sugli effetti moltiplicativi che i tagli avrebbero avuto sulla caduta del reddito, stimati inizialmente pari a 0,5% ma poi rivelatisi pari a 2. Il problema di Atene è che l’economia del paese è da sempre trainata dalla domanda interna, mentre l’export ha un rilievo modestissimo; le pressioni della Troika per aumentare la competitività sono quindi fuori bersaglio. La strategia depressiva e la caduta dei salari realizzata da Troika e governo hanno così impedito al paese di crescere, e la riduzione del reddito ha ridotto – come in Italia - le entrate fiscali, aggravando il rapporto debito/Pil. Nella sua analisi del piano di aggiustamento delle finanze pubbliche previsto dagli accordi Troika-governo, Giorgios Argitis ha mostrato la difficoltà di accumulare avanzi primari con questa spirale recessiva, le insufficienti entrate previste dal programma di privatizzazione, il peso del salvataggio delle banche private a spese dei conti pubblici. Tutt’altro che risolta, la crisi greca avrà presto bisogno di nuovi prestiti internazionali o di interventi significativi su debito e tassi d’interesse.
Gli effetti della crisi sull’economia e la socetà del paese sono stati devastanti. Maria Makantonatou ha presentato le misure di austerità dei due Memorandum, con tagli a stipendi e pensioni pubbliche dal 20 al 60%, il turn-over nella pubblica amministrazione limitato a un’assunzione ogni dieci uscite di dipendenti, le privatizzazioni di attività pubbliche, fino alla recente controversa chiusura della tv pubblica Ert, le fusioni e razionalizzazioni imposte a università, istituti sanitari, enti locali. I dati più drammatici arrivano dalla disoccupazione giovanile. Nel febbraio 2013 il dato dei giovani disoccupati under 25 raggiunge il livello shock del 62,5%; la metà dei disoccupati non lavora da più di un anno e un terzo non lavora da più di due. Crescono le forme di impiego privato prive di assicurazione sanitaria dove un lavoratore su tre è straniero. La crisi ha strangolato le piccole e medie imprese, con decine di migliaia di aziende chiuse. I senza tetto sono aumentati del 25% dal 2009 al 2011 mentre i suicidi sono cresciuti in maniera spaventosa, raggiungendo i 3000 casi. Al degrado delle condizioni di vita si accompagna anche il malcontento sociale che si è materializzato con l’entrata in parlamento del movimento neonazista Alba dorata, protagonista di gravi episodi di violenza e razzismo nei confronti degli immigrati, accanto a iniziative di supporto riservate ai cittadini greci, come distribuzione gratuita di generi alimentari. Senza dimenticare che nel dicembre 2012 il governo ha completato un muro nel nord del paese per impedire agli immigrati di entrare nel territorio nazionale.
Giorgios Argitis ha ricordato come la Grecia rappresenti un caso particolare di “capitalismo senza capitale” e Mario Pianta ha presentato i molti elementi che avvicinano l’Italia allo stesso circolo vizioso di debolezza economica, crisi finanziaria, politiche di austerità. Il caso italiano va esaminato intrecciando l’attuale crisi economica con il più ampio contesto di declino produttivo, scomparsa delle industrie nazionali, diseguaglianze crescenti e risposte politiche inadeguate, che hanno riportato gli indicatori economici nazionali a livelli pari a quelli dei primi anni Novanta.
Christoph Hermann dell’Università di Vienna ha presentato l’impatto della crisi sul modello sociale europeo e Özlem Onaram dell’Università di Greenwich ha discusso della crisi turca dopo le proteste di piazza Taksim a Istanbul. Patrick Belser dell’Ilo di Ginevra ha presentato il “Global Wage Report” che documenta gli effetti negativi provocati sull’insieme dell’economia dai tagli dei salari, mentre Florian Moritz della Confederazione dei sindacati tedeschi Dgb ha illustrato le proposte della confederazione per un’alternativa al modello neoliberista di integrazione europea. Solidarietà, integrazione e stabilizzazione sono i tre principi che ispirano il “Piano Marshall” europeo del sindacato, con nuove spese per duecento milioni di euro all’anno destinate a costruire un nuovo sviluppo, amico del lavoro e dell’ambiente. Proposte che danno le dimensioni del cambiamento di rotta ora necessario in Europa, al centro della tavola rotonda conslusiva. Per Hansjörg Herr, docente di Economia dello sviluppo alla Berlin School, sono poche le possibilità che le istituzioni europee e la moneta unica possano sopravvivere immutate alle conseguenze economiche e sociali della crisi. Ma per cambiare l’euro – come ha ricordato Argitis – bisogna prima cambiare la Germania.

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