Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

giovedì 15 agosto 2013

L'accordo economico transatlantico (TTIP) e il potere dell'economia

di Gaetano Colonna

Nonostante siano sotto gli occhi di tutti i risultati del liberismo assoluto che ha dominato l'economia globale nel corso degli ultimi decenni, Stati Uniti ed Unione Europea stanno mettendo a punto il nuovo strumento giuridico che consentirà alle grandi compagnie multinazionali di influire sulle scelte sociali e politiche dei singoli Stati europei, allo scopo di affrontare da posizioni rafforzate la competizione globale per l'egemonia sull'economia-mondo del XXI secolo.

Lo scorso luglio infatti, a Washington, si sono ufficialmente aperte le trattative sulla Transatlantic Trade and Investiment Partnership (TTIP), un'ipotesi di accordo economico globale tra Usa e UE che potrebbe stabilire i principi della riorganizzazione economica dell'Occidente nel pieno di una crisi che sempre più dimostra di essere strutturale e non congiunturale. Unione Europea e Stati Uniti, infatti, rappresentano insieme quasi metà del Prodotto Interno Lordo del pianeta ed un terzo del commercio mondiale: ogni giorno tra le due sponde dell'Atlantico vengono scambiati beni e servizi per 2 miliardi di euro, mentre gli investimenti reciproci toccano quasi i 3.000 miliardi di euro. Si tratta quindi non solo dell'area che ha dato storicamente vita al capitalismo occidentale, ma soprattutto della principale concentrazione economico-finanziaria del capitalismo internazionale odierno.
Il progetto TTIP si è sviluppato nel corso della grande crisi epocale che attraversiamo, a partire dal 2007, ma ha conosciuto un'accelerazione negli ultimi mesi, pur restando sotto traccia nell'attenzione mediatica anche a motivo di una particolare riservatezza sui protagonisti effettivi della sua elaborazione, al punto che l'Unione Europea si è rifiutata fino ad ora di fornire i nomi dei componenti della commissione tecnica mista, costituita nel novembre 2011 per predisporre l'agenda dei lavori e le analisi preliminari (High‐Level Working Group on Jobs and Growth), a parte quelli dei due responsabili, lo statunitense Ron Kirk ed il commissario per il commercio della Ue, il belga Karel De Gucht: a nulla sono servite, ad esempio, le richieste di conoscere i nomi degli altri autorevoli membri del gruppo di lavoro da parte di Pascoe Sabido, dell'organizzazione Ask the EU, nonostante la sua organizzazione si sia appellata alle norme comunitarie sul diritto all'informazione.

A chi interessa il TTIP?
Non è tuttavia difficile individuare i promotori di questa iniziativa, al di là dei singoli nomi dei protagonisti: sono le grandi multinazionali che dominano il panorama mondiale dell'economia, riuniti in gruppi di pressione su entrambe le sponde dell'Atlantico che da decenni esercitano una fortissima influenza, mediante tutti gli strumenti del lobbying moderno, sugli organismi regolatori del mercato europeo, siano essi l'Unione Europea o i singoli Stati nazionali. Se per esempio consideriamo il principale dei gruppi statunitensi che operano per indirizzare le trattative del TTIP, la Business Coalition for Transatlantic Trade (BCTT), troviamo che nel consiglio direttivo dell'associazione sono direttamente presenti aziende come Amway, Chrysler, Citi, Dow Chemical, FedEx, Ford, General Electrics, IBM, Intel, Johnson & Johnson, JP Morgan Chase, Lilly, MetLife e UPS, mentre tra le associazioni che aderiscono alla coalizione troviamo Business Roundtable, Coalition of Service Industries, Emergency Committee for American Trade, National Association of Manufacturers, National Foreign Trade Council, Trans-Atlantic Business Council, U.S. Chamber of Commerce, U.S. Council for International Business. Ben si vede che il gotha delle grandi imprese americane internazionalizzate è direttamente impegnato per orientare secondo i propri desiderata i rappresentanti dei governi.

Nonostante questo, solamente le preoccupazioni francesi sugli effetti che il TTIP potrebbe avere sui sussidi alla propria industria audiovisiva hanno fatto notizia per qualche giorno, senza che ovviamente il cittadino europeo potesse mettere bene a fuoco i termini della questione.

Eppure questo accordo potrebbe avere effetti importanti su tutti gli aspetti della vita sociale europea nei prossimi decenni, dato che esso investe tutti i settori economici (prodotti, beni e servizi) per assoggettarli al principio fondamentale dell'abolizione di ogni barriera regolamentativa, tariffaria e non, omogeneizzando le normative e gli standard applicativi, eliminando quanto più possibile strumenti a garanzia del consumatore come possono essere, ad esempio, controlli, etichettature e certificazioni, ritenuti tutti "barriere indirette" al libero scambio. Il tutto in una gamma di business che va dalla chimica-farmaceutica alla sanità, dalle auto all'istruzione, dall'agricoltura ai cosiddetti commons (i beni comuni come l'acqua), agli strumenti bancari e finanziari.

L'esempio più semplice è quello degli organismi geneticamente modificati, la cui introduzione massiva nell'agricoltura europea è stata fino ad oggi rallentata da una serie di regole definite dall'Unione Europea, in conseguenza del massiccio rifiuto dell'opinione pubblica continentale nei confronti di queste tecnologie. Regole e controlli che si sono ispirati al cosiddetto "principio di precauzione", secondo cui in presenza di potenziali rischi per la salute e per l'ambiente, sono necessarie speciali cautele nell'introduzione e commercializzazione di tecnologie e di prodotti.

Euro, una moneta prematura e divergente

di Domenico Mario Nuti - da sbilanciamoci.info

Se l’Eurozona rimarrà immutata è destinata al fallimento e al collasso. Perciò è necessario realizzare gli stadi e le istituzione ancora mancanti dell’integrazione europea

I benefici e i costi attesi da una moneta comune
Dalla formazione di un’area con una moneta comune ci si attendono di solito almeno sette benefici lordi per i suoi membri:
Primo, una riduzione dei costi di transazione, ad esempio il costo cumulativo delle commissioni pagate per convertire una valuta in un’altra (e in un’altra ancora).
Secondo, un aumento della concorrenza, data la maggiore trasparenza e comparabilità dei prezzi una volta che essi siano tutti espressi in una valuta comune.
Terzo, una riduzione del tasso d’inflazione, se la nuova valuta è assoggettata ad una maggiore disciplina da parte di una Banca Centrale indipendente che si pone una bassa inflazione come obiettivo.
Quarto, l’eliminazione del rischio di variazioni del tasso di cambio nelle transazioni fra paesi membri all’interno dell’area della moneta comune.
Quinto, una riduzione dei tassi d’interesse, grazie alla riduzione dell’inflazione e all’eliminazione del rischio del tasso di cambio all’interno dell’area.
Sesto, oltre a tutti questi fattori che dovrebbero promuovere l’integrazione commerciale all’interno dell’area, la promozione di maggiori investimenti diretti esteri, data l’abilità degli investitori di rimpatriare i profitti liberamente nella stessa moneta in cui sono stati realizzati.
Settimo, i benefici attesi da una maggiore integrazione finanziaria, che fra gli altri vantaggi dovrebbe fornire una forma di assicurazione implicita contro gli effetti di shocks asimmetrici.
Al tempo stesso ci sono almeno tre svantaggi lordi che i membri dell’area di una moneta comune devono attendersi. Primo, la perdita di una politica monetaria nazionale: anche se di solito i governi delegano alla Banca Centrale nazionale l’obiettivo inflazionistico e quindi fa poca differenza se lo delegano invece alla Banca Centrale che gestisce la moneta comune, la mancanza di una politica monetaria nazionale potrebbe essere uno svantaggio serio nel caso di shocks asimmetrici. Secondo, la perdita del tasso di cambio nazionale come strumento di politica economica, specialmente la perdita della svalutazione della valuta nazionale come mezzo per migliorare la competitività del paese nel commercio internazionale. Terzo, la maggiore disciplina fiscale a cui normalmente si devono assoggettare i governi nazionali in virtù della loro appartenenza all’area della moneta comune.
Nel complesso, ci si attendono benefici netti positivi dalla formazione di un’area dalla Moneta Comune.

I benefici e i costi effettivi dell’ Eurozona
La creazione dell’area dell’euro ha portato a un misto di vantaggi e inconvenienti di diverse dimensioni, tendenze ed effetti netti nel corso del tempo. Chiaramente il risparmio nei costi di transazione è stato sopravvalutato, dato che questi costi riguardano solo una possibile divergenza fra la composizione valutaria dei ricavi e delle spese, e non l’intero volume delle transazioni. I prezzi possono essere espressi facilmente in qualsiasi valuta scelta come numéraire, tanto da rendere illusoria la pretesa di una maggiore trasparenza e concorrenza. L’inflazione è stata domata con successo dalla Banca Centrale Europea e portata al di sotto della migliore performance precedente della Bundesbank, ma nel 2013 la disoccupazione del lavoro ha raggiunto livelli medi record superiori al 12% e ancora crescenti nell’area dell’euro. I tassi d’interesse sono caduti con l’introduzione dell’euro e gradualmente hanno registrato una convergenza a un basso livello praticamente uniforme mantenuto per sette anni e mezzo fino al 2010 quando è scoppiata la crisi greca. Da allora lo spread fra i tassi sui prestiti nazionali e il tasso più basso pagato da un membro dell’area (la Germania sui suoi Bunds a lungo termine) si è disperso e allargato in maniera spettacolare, insieme al costo di assicurarsi contro il default di un paese membro mediante Cds (credit default swaps). L’integrazione fra le banche dell’Eurozona si è trasformata in un meccanismo di contagio. Gli shocks asimmetrici – una seria preoccupazione quando l’Euro veniva creato – in pratica non sono stati un problema importante, ma l’impossibilità di realizzare una svalutazione esterna ha comportato misure alternative e costose di svalutazione interna ossia di deflazione di salari e prezzi. La disciplina fiscale, sotto forma di austerità concertata, all’interno dell’intera Unione e non solo nell’Eurozona, ha depresso il reddito e l’occupazione nell’intera area e soprattutto negli stati membri del Meridione Europeo, in una misura proporzionalmente maggiore della riduzione del debito e quindi facendo aumentare sia i rapporti fra debito e Gdp sia la loro divergenza.
A partire dalla crisi greca del 2010 e le crisi successive di altri paesi membri si è seriamente discussa la possibilità che l’Eurozona si dissolva nelle sue componenti nazionali con la restaurazione delle monete nazionali, o che almeno si separi in gruppi, quali ad esempio un gruppo Nordico e uno Meridionale con una valuta rispettivamente più forte e più debole dell’euro odierno. (Vedasi il Cambridge Journal of Economics, numero speciale sui Prospects for the Eurozone, Volume 37 Issue 3 May 2013, scaricabile gratuitamente). Mentre i primi suggerimenti di una rottura dell’Eurozona venivano espressi inizialmente da circoli della destra, recentemente ad essi si aggiungeva la voce di circoli di sinistra (per una critica si veda Andrew Watt, Why Left-wing Advocates Of An End To The Single Currency Are Wrong, Social Europe Journal, 10-07-2013).

mercoledì 14 agosto 2013

L’incubo tedesco di Berlino

Una voce fuori dal coro del "sogno tedesco"

Piotr Zygulski intervista L.F. Palazzini Finetti

Ciao Filippo, raccontaci brevemente di te. Come mai ti trovi in Germania e precisamente a Berlino?
Come neo-laureato alla triennale di Filosofia all’Alma Mater di Bologna scelsi, consapevole dell’importanza che la conoscenza del tedesco ha per lo studio della tradizione filosofica occidentale e non solo, di continuare il mio percorso di formazione professionale in una città della Germania, ove avrei potuto tanto imparare ex novo ed esercitare questo idioma, quanto eventualmente trovare un ambiente umanamente fertile ed accogliente in cui gettare le basi per la mia vita futura, viste e considerate le tragiche sorti in cui versa il mio paese e le scarse aspettative consentite in patria a noi giovani. Inizialmente influenzato da una certa mitologia tuttora molto forte in Italia che vede la Germania come quella nuova terra europea dove tutto è possibile, dove tutto funziona bene per tutti, e in particolare dalla storica fama di Berlino. Pianificai quindi di terminare i miei studi proprio in quella grande città di cui tutti parlavano sempre così bene e che da una mia precedente breve visita ricordavo positivamente.

Poiché l’hai effettivamente vissuta per alcuni mesi, puoi raccontarci come è la città di Berlino.

Sì, avvicinandomi all’ottavo mese di vita qui, penso di poter ora dare alcune indicazioni, di carattere personale, che descrivano in qualche modo la realtà sociale che mi circonda, secondo le impressioni e le idee che mi sono fatto sinora.
Premetto subito che la nota dominante sarà quella della disillusione. Berlino è oggi una metropoli tedesca molto particolare, ma al tempo stesso perfettamente assimilata dai meccanismi di riproduzione massificata della società ultra-capitalistica neoliberale (di stampo U.S.A.) contemporanea. È una città che ha fatto dell’accoglienza e della tolleranza i suoi cavalli di battaglia, per non dire elefanti da guerra. È una città economicamente in stato di rapido sviluppo con relativa esplosione dei consumi e dei prezzi, ricca e piena di opportunità se paragonata a qualsiasi città italiana, ma povera e del tutto eccentrica se paragonata agli altri centri abitativi importanti della Germania. Nondimeno è riconosciuta generalmente una progressiva assimilazione al modello urbano di sviluppo londinese con implicato abbattimento delle peculiarità tradizionali dei singoli Stadtviertel (quartieri cittadini, Kreutzberg, Prenzlauer Berg, Friedrichshain ecc, per intenderci), anche sotto il profilo più strettamente urbanistico-architettonico, oltre che una certa qual omogeneizzazione dei caratteri che informavano negli anni passati le diverse anime di Berlino. L’incontro con i nostalgici degli anni novanta è stato continuamente all’ordine del giorno. Le lamentele che ho sentito levarsi da ogni parte contro questa particolare forma di globalizzazione da parte di tutti coloro i quali sono qui da molti anni, i cosiddetti “vecchi dinosauri” di Berlino, vanno rimpiangendo i tempi della Love Parade, del marco, delle case occupate, e della Berlino degli artisti, dove chiunque poteva vivere bene, reinventarsi e realizzarsi con molta facilità. Oggi queste lamentele contro l’omologazione sono anch’esse omologate in un unica rassegnata litania che recita: “ormai quel mondo è finito, e non tornerà più”. Qui, più che in altri luoghi emerge, a mio parere con chiarezza, l’apocalittica monodimensionalità dell’uomo marcusiano, solo con qualche sopravvivenza – per dirla con Taylor – di sfumature tipiche del carattere nordico-tedesco che, sia detto per inciso, non mi fa impazzire di empatia. In sintesi vi trovo la convergenza del carattere alienante e spersonalizzante, tipico di tutte le megapoli contemporanee, e della proverbiale freddezza etico-climatica del tipo tedesco, che logicamente continua a dare la in-formazione primaria e fondamentale alle dinamiche cittadine restando immanente alla tanto sbandierata multietnicità dell’accoglienza.

E i berlinesi? Che impressioni hai avuto del loro carattere e di quella accoglienza cui ti riferivi?

L’accoglienza è in effetti a mio avviso un punto fondamentale e uno dei tanti paradossi che alberga presso le logiche cittadine. A dispetto di un’effettiva enorme capacità di accoglienza sotto il profilo puramente legato alla funzionalità amministrativa, all’assorbimento nel mercato del lavoro (in verità in critica diminuzione), alle progettazioni politiche di agevolazione all’integrazione linguistica e culturale, si rivela oggi nel vissuto effettivo un sottosuolo di tristi e lugubri compartimenti stagni. Il quotidiano è, infatti, fondamentalmente all’insegna dell’atomizzazione totale dell’individuo (carattere tipico della morfologia capitalistica) e superficialmente all’insegna dei gruppi chiusi di stampo nordico, ove lo scenario che si apre è quello di cinesi con cinesi, giapponesi con giapponesi, turchi con turchi, polacchi con polacchi o, al massimo, con russi, italiani con italiani, e, massimamente e primariamente, tedeschi con tedeschi. In sette mesi, antistante la mia nota socievolezza di cui chiunque mi conosca può far testimonianza, non ho nemmeno un amico tedesco, né ho mai incontrato le possibilità reali perché si potesse dare effettivamente l’occasione di allacciare e stringere una tale amicizia. E tutti quelli con cui mi confronto mi dicono la stessa cosa: che è difficile relazionarcisi, che i tedeschi sono schivi, distaccati e poco empatici. Il tipo /stereo-tipo tedesco appare infatti nella sua tendenziale chiusura entro circolarità ristrette e consolidate negli anni. Fenomeni di questo tipo sono presenti in ogni dove lo sguardo si volga, addirittura individuano un assetto sociale pressocché uniforme che definirei all’insegna della sclerotizzazione. L’attributo caratteristico del tipo tedesco, che indicherei come primario se me lo si chiedesse a bruciapelo, è infatti la rigidità, intesa in tutti i sensi possibili (mentale, abitudinaria, normativa, amministrativa-burocratica) ed eminentemente nel significato contrario all’elasticità. Sono rigidi come rigidi sono i loro inverni, senza mezzi termini. Se c’è una cosa da fare, pianificata, la si fa, punto. Il piano dell’ordine e della disciplina sovrasta quello dell’incontro con l’altro. Hanno persino modalità di reazione pianificate, ma l’imprevisto puro li coglie impreparati. Non sono flessibili. Questo carattere si è eretto a fondamento esistenziale, ed emerge in filigrana anche a dispetto dell’eccentricità in cui, come già accennato, la Berlino città-stato tedesca odierna si colloca rispetto alle altre parti della Germania. La programmazione sistematica di ogni momento e spazio della vita, tutti con l’agenda piena di appuntamenti, le lontananze cittadine, la mancanza di una dimensione comunitaria, di piazza, agorà-centrica e la conseguente difficoltà nello stabilire relazioni filantropiche, sono solo alcune manifestazioni delle forme di alienazione quotidiana, a cui contribuiscono in egual misura i caratteri che abbiamo individuato e che principalmente raccogliamo sotto le due seguenti voci caratteriali :
1. Freddezza-rigidità
2. Individualismo (di massa) metropolitano spersonalizzante.

Per un'economia simmetrica

di Alberto Bagnai

Stiamo vivendo una devastante crisi di debito pubblico: questo è quanto ci ripetono i quotidiani, echeggiando le analisi di alcuni economisti. La parola debito viene riproposta in modo assoluto ed ossessivo (il debito, il debito, il debito…), e acquista così vita autonoma, assurge a simbolo del fallimento di un sistema di governo, della disfatta di intere generazioni, diventa un totem al quale tributare sacrifici, si carica di mille significati (politici, etici, psicanalitici). Si perde così di vista un punto essenziale, confermato dall’esperienza personale di molti di noi: non ci può essere debito se non c’è stato un creditore, non si possono prendere in prestito soldi se nessuno te li dà in prestito.

Una banalità? Forse, ma esploriamone le conseguenze. Intanto, ammettendo che il problema sia effettivamente il debito pubblico (ma su questo le voci sono discordanti), una cosa è certa: dato che nessuno presta a se stesso, i creditori del settore pubblico apparterranno al settore privato. Questo, in buona sostanza, significa che quella che viene descritta come una crisi di debito pubblico, da risolvere punendo e circoscrivendo lo Stato “che si è indebitato troppo”, è almeno in parte anche una crisi di credito privato, che forse si sarebbe potuto prevenire regolamentando e sorvegliando il Mercato “che ha prestato troppo” (cioè incautamente).

Descrivere la relazione fra due contraenti insistendo su un solo lato, e quindi, ad esempio, parlare solo di debito, è un esempio di rappresentazione asimmetrica di un fatto economico, insomma, un esempio di asimmetria. L’asimmetria nella rappresentazione, nell’analisi, conduce ad un’asimmetria nella proposta politica, che non sempre si traduce in un beneficio netto per la collettività. Ad esempio, le politiche di austerità, oggi generalmente criticate come causa della persistente recessione, sono state adottate pochi mesi or sono sulla base di un’analisi “asimmetrica”, che poneva tutte le responsabilità della crisi in capo allo Stato, e vedeva in termini comunque positivi qualsiasi politica restringesse il “perimetro” di quest’ultimo. Un’analisi che oggi trova molti meno sostenitori di un anno fa.

Ricordare quindi che ogni debito è anche un credito, per restare al nostro esempio, non è una semplice banalità: è anche il rimuovere un’asimmetria concettuale, analitica. Questa rimozione, a sua volta, non è un mero esercizio intellettuale: è un contributo all’apertura del dibattito politico verso spazi più articolati ed efficaci di soluzioni dei problemi.

Riflessioni di questo genere sono ancora poco frequenti da noi, ma sono comuni nella stampa e nella letteratura scientifica internazionale, dove addirittura esistono riviste specializzate sul tema delle asimmetrie. Un tema ampio, trasversale, che ogni economista incrocia almeno una volta nel proprio percorso di studi, affrontando il tema delle asimmetrie informative, cioè dei fallimenti del mercato che scaturiscono da una imperfetta informazione di almeno un contraente. Sembra una cosa molto esoterica, ma è una cosa vecchia quanto il mondo (il marito e l’amante hanno informazione asimmetrica). Rientra fra le asimmetrie informative il moral hazard, cioè il rischio di comportamento sleale della controparte – fenomeno portato all’attenzione del grande pubblico da Money never sleeps di Oliver Stone – che molti considerano fra le cause principali della crisi che stiamo vivendo: il settore finanziario privato avrebbe prestato senza esercitare la dovuta diligenza perché intuiva che il settore pubblico sarebbe intervenuto in suo soccorso.

Ma le asimmetrie sulle quali riflettere, sulle quali fare ricerca, divulgazione, e proposta politica, nel senso di proposta alla polis, non si esauriscono certo qui, e hanno tutte riflessi più o meno immediati, ma sempre penetranti, nella vita quotidiana di ognuno di noi.

C’è l’asimmetria del sistema monetario internazionale, basato sulla moneta di uno stato (il dollaro) che diventa moneta del mondo, inducendo un fondamentale squilibrio nei conti esteri degli Stati Uniti e concorrendo al ciclico riproporsi di crisi internazionali, secondo uno schema chiarito già da Triffin nel 1960, ma al quale decenni di riflessioni (riaperte dalla crisi del 2008) ancora non hanno trovato alternative.

C’è l’asimmetria di certe regole di politica economica, che impongono con pervicacia tolemaica parametri fissi a sistemi economici dinamici e in piena evoluzione, creando inevitabili, dunque non imprevedibili, tensioni, che si scaricano anch’esse in maniera piuttosto asimmetrica sulle popolazioni coinvolte, portando ad aumenti della disuguaglianza, della povertà, e di quella variabile non misurabile, ma assolutamente percepibile, che è la disperazione.

E poi non ci siamo solo noi: c’è l’asimmetria fra il Nord e il Sud del mondo, quel Sud del mondo del quale fanno parte (ancora per poco) le economie emergenti, anch’esse oggetto di rappresentazione asimmetrica, o forse addirittura schizofrenica: additate come salvatrici quando si può attribuire loro il ruolo di motori della crescita mondiale (che forse non sono ancora in grado di sostenere), additate come colpevoli quando occorre suggerire che il peggioramento relativo delle nostre condizioni sia una conseguenza del miglioramento delle loro (un ragionamento che convincerebbe molto di più se non avessimo tanta evidenza di errori – se sono stati tali – nella gestione delle nostre economie).

E c’è il Sud che non sta emergendo, il Sud che rimane indietro, e dal quale tanti nostri simili cercano di evadere, in cerca di prosperità nei nostri paesi.

Il che ci porta a considerare quella che forse è l’asimmetria fondamentale, quella fra capitale e lavoro. Nei modelli teorici, due lettere, K e L, che figurano in bella simmetria fra gli argomenti della funzione di produzione, la relazione matematica che descrive l’offerta complessiva di beni di un paese. In realtà, due “fattori di produzione” dalle caratteristiche radicalmente diverse: basti pensare a quanto si fa per incoraggiare l’arrivo del primo (spesso incautamente), e per ostacolare l’arrivo del secondo (spesso disumanamente).

Sono questi i temi che vogliamo portare all’attenzione del dibattito pubblico, i temi sui quali sollecitiamo la riflessione di economisti, giuristi, politologi, e di tutti gli intellettuali disposti a confrontarsi con la realtà e ad arrischiarsi sul terreno della divulgazione e della proposta concreta. a/simmetrie si offre come forum alle loro riflessioni, come supporto alle loro iniziative, come strumento di divulgazione e verifica delle loro ricerche, senza preclusioni di orientamento ideologico e di approccio, per contribuire a un reale avanzamento della coscienza civile e democratica del nostro paese. Possa questo tentativo, che sentiamo di dover fare in un periodo tanto difficile per la vita del nostro paese, avere un valore che trascenda quello della mera testimonianza

Del mito dell'Europa occorre liberarsi al più presto

Dino Greco

E non certo per rinculare dentro pericolose illusioni nazionalistiche. Un articolo del direttore editoriale di Liberazione

Dovrebbe essere superfluo annotare che lo stato di diritto, in una formazione economico-sociale dominata da rapporti capitalistici di proprietà, diventa concetto alquanto vago, petizione di principio, formula astratta che anela ad un'idea di uguaglianza dei cittadini, negata però dalla materialità dei rapporti sociali e dalla sostanziale asimmetria delle possibilità di ciascuno.

Quando poi la classe dei proprietari (diciamo pure: il capitale) esercita il suo potere in modo diretto e particolarmente dispotico, come accade ai giorni nostri, le garanzie formali, labili per definizione, si liquefano come neve sotto i raggi del sole.

Allora accade che la legge del più forte si manifesti in tutta la sua violenza, senza più paraventi ideologici, senza bisogno di ricorrere a mascheramenti che ne ottundano il carattere prevaricatore. Struttura e sovrastruttura della società, rapporti di produzione e forme della politica, attività culturale e, persino, senso comune e comportamenti individuali tendono ad identificarsi, ad appiattirsi su un piano orizzontale: la classe dominante esercita con pienezza il suo potere, "domina", appunto, anche quando non sa più "dirigere", pur nel sopruso esercitato sui molti, di cui riscuote paradossalmente il consenso. E reprime con il massimo della coercizione coloro che (movimenti, partiti, associazioni, singoli individui) trovano ancora la forza e l'indipendenza intellettuale necessarie per opporsi.

Qui la manipolazione della realtà e il rovesciamento della verità toccano vertici assoluti: gli eversori si trasformano in tutori della legalità e coloro che si battono per ottenere un minimo di giustizia o di garanzie democratiche sono messi all'indice e perseguitati come guastatori dell'ordine pubblico. Niente di nuovo sotto il sole, ovviamente. Ma di questi tempi non è inutile ricordarlo, a beneficio degli smemorati, ai cloroformizzati e a quanti ancora, ormai privi di strumentazione critica, continuano a cadere nella rete.

Oggi, tutta la rappresentanza politica ufficiale, quella che in virtù del consenso elettorale riscosso siede in parlamento, si muove dentro un "range" ben delimitato, dentro un perimetro culturale sostanzialmente omogeneo. Gli elementi costitutivi delle relazioni sociali date rappresentano un patrimonio condiviso. Non di quello si discute nel pur litigiosissimo caravanserraglio della politica nostrana. L'acqua che si pesta in quel mortaio è sempre la stessa. Ne sia prova inconfutabile il fatto che la maggiore e più impegnativa richiesta che il Partito democratico avanza ai propri supposti antagonisti del Popolo della libertà è quello di liberarsi di Berlusconi. Ove questa richiesta fosse accolta, la coalizione bipartisan che ha compiuto il proprio apprendistato sotto la direzione dell'uomo della Trilateral e che ora si è trasformata in governo organico (delle "larghe intese") potrebbe tranquillamente protrarre il proprio sodalizio ben oltre l'emergenza con la quale aveva giustificato la propria nascita, sotto l'impulso e l'autorevole padrinaggio del presidente della Repubblica.

Il problema delle classi subalterne è che tali sono rimaste (o tornate ad essere), malgrado la crisi di sistema abbia prodotto l'impressionante impoverimento di miliardi di esseri umani in tutto il pianeta ed il contemporaneo arricchimento di un pugno di "proprietari universali.

Alla crisi del paradigma sociale dominante non corrisponde cioè la capacità delle moltitudini che ne pagano drammaticamente il prezzo di immaginare un progetto di società diverso ed una strategia per renderlo credibile e praticabile.

L'articolatissimo mondo del lavoro, dei proletari, di coloro che lungo la catena variegatissima dello sfruttamento offrono le loro braccia senza più lo straccio di un diritto esigibile, è stato messo fuori gioco. A questo risultato il capitale si è dedicato con scrupolo scientifico. Purtroppo, dall'altra parte non si è manifestata un'analoga capacità.

Il carattere inesorabilmente territoriale, nella migliore delle ipotesi nazionale, del movimento dei lavoratori ha inesorabilmente cozzato contro il carattere transnazionale dell'impresa capitalistica e della capacità di essa di muovere istantaneamente enormi risorse finanziarie da paese a paese, eludendo ogni possibilità di risposta e corrompendo i legami di solidarietà fra proletari.

A questo colossale spiazzamento non si è sino ad ora trovata, e forse neppure davvero cercata, una replica efficace. A maggior ragione necessaria di fronte al radicale esproprio di sovranità popolare di Stati e Costituzioni che è il tratto distintivo dell'Europa comunitaria nata e sviluppatasi sotto la stella del finanzcapitalismo, dell'economia di mercato e dell'ideologia liberista.

Del mito dell'Europa, di questa Europa, occorre liberarsi al più presto. E non certo per rinculare dentro pericolose illusioni nazionalistiche. Se si aspira ad un Europa dei popoli, nutrita dalla linfa delle costituzioni antifasciste ed egualitarie, non si può ragionevolmente pensare che questa scaturisca - per una sua naturale evoluzione - da una "correzione" dei difetti che oggi stanno catastroficamente demolendo ogni sistema di protezione sociale e tutti i diritti del lavoro.

Proseguire per questa via significherebbe annichilire la stessa prospettiva di un'Europa unita, perché lì continueranno a prevalere gli interessi più forti, come sempre avviene nei tradizionali conflitti intercapitalistici.

Togliersi dal collo quel nodo scorsoio è divenuta una necessità vitale, per tornare a lottare con convinzione contro poteri dotati di reale giurisdizione. Ed anche per ritessere la tela della solidarietà proletaria, totalmente lacerata e resa ininfluente nel contesto continentale.

Il futuro di una possibile Europa unita, a sovranità popolare, e quello della sinistra, oggi non passano da Bruxelles, tanto meno da Francoforte.

Operai costretti a mettere il pannolone.

INTERNAZIONALE | Autore: g.m.
                     Al lavoro 10 ore di fila senza pausa
Al peggio non c'è mai fine, è evidente. Rabbrividiamo alla notizia di lavoratori costretti a dieci ore di impiego senza pausa e dunque a indoassare il pannolone

Sono gli ooperai della "Electrical Distribution Systems-Kyungshin-Lear", un'azienda dell'Honduras che portano il pannolone nell'orario di lavoro, per la massima produttività.
A denunciare il fatto è proprio la Confederazione del lavoratori dell'Honduras che, chiarisce, che la fabbrica ha 4000 dipendenti circa.
Non è la prima volta che si presenta una situazione simile.

Nel maggio dell'anno 2007, in Cile un gruppo di cassieri di una catena di supermercati in ha infatti confessato di avere utilizzato pannolini usa e getta perché non potevano andare in bagno. Tre anni dopo è arrivato anche un gruppo di autisti di una società sempre cilena, ma non hanno preso alcun provvedimento.

martedì 13 agosto 2013

I consigli di McDonald's per arrivare a fine mese: «Doppio lavoro e tieni il riscaldamento al minimo»

Fonte: il manifesto | Autore: Giuseppe Grosso                                      
Chi troppo, chi troppo poco. Così va il mondo, soprattutto negli Usa. Ci, vogliono, per fare un esempio tra i tanti possibili, 660 anni di lavoro di un dipendete statunitense di McDonald's per mettere insieme gli 8,75 milioni che guadagna in 12 mesi il direttore generale della compagnia del Big Mac.
Questo è il risultato che si ottiene se si dividono i quasi 9 milioni che finiscono nelle tasche del signore degli hamburger per i 13.260 dollari netti che guadagna un dipendente, friggendo patatine per un anno. Al mese sono, 1105 dollari per 40 ore settimanali. Pochi, troppo pochi, e McDonald's lo sa benissimo. Per questo, con slancio paterno, ha deciso di andare incontro ai suoi dipendenti statunitensi mettendo a loro disposizione un manualetto (creato in collaborazione con Visa) che li aiuti a ottimizzare le spese adeguandole ai (magri) ingressi, con tanto di esempio precompilato scaricabile sul sito www.practicalmoneyskills.com/mcdonalds.
Un vademecum per moltiplicare i pani e i pesci, o, in termini più moderni, un'impresa da maghi della finanza. E infatti il trucco c'è e in questo caso si vede: alla voce second job, per l'esattezza. Ovvero: cari dipendenti, cercatevi un secondo lavoro perché con 7,35 dollari all'ora (il minimo salariale Usa, anche se ci sono proposte per portarlo a 9,80 dollari), non andrete molto lontano. Caso mai ci fosse il bisogno di farlo presente. Secondo le stime, il second job dovrebbe fruttare 955 dollari al mese: supponendo che il (pluri)impiegato di McDonald's abbia un secondo lavoro al minimo salariale, dovrebbe lavorare altre 34 ore settimanali per raggiungere questa cifra. Tirando le somme sarebbero, in una settimana, 74 ore di lavoro in cambio di 2060 dollari. Uno scenario (del tutto praticabile per la multinazionale) a cavallo tra Hard Times di Dickens e l'Inferno di Dante.
Nel poco tempo libero a disposizione, lo Stachanov del panino dovrà anche dormire, cosa che è concessa, anzi, prevista, da McDonald's: il sample monthly budget contempla infatti anche la voce «casa», per la quale è prescritta una spesa di massimo 600 dollari (metà dello stipendio per un mese dietro la friggitrice). Qui i previdenti autori del manualetto di sopravvivenza scendono nello specifico e - forse per puro scrupolo - distinguono tra affitto e mutuo.
Pur supponendo ragionevolmente che gli impiegati affittuari siano più numerosi di quelli che possono permettersi di comprare una casa, c'è comunque qualcosa che non torna: secondo il Wall street journal, la media nazionale degli affitti, calcolata a fine del 2012, sarebbe di 1048 dollari: circa il doppio rispetto a quanto preventivato. Basterebbe solo questo per mandare all'aria tutti i calcoli del compendio di encomia domestica di McDonald's, ma ci sono altre «leggerezze». La voce riscaldamento (50 dollari al mese), ad esempio, fa quasi sorridere: letteralmente o ironicamente a seconda che si viva a Miami o a Chicago (dove a gennaio ci sono -6 gradi di media). Per l'assicurazione medica viene calcolata una spesa di 20 dollari al mese, ma la copertura, per quella cifra, è limitata a 2.000 dollari all'anno. Più in là del raffreddore, si rischia il crack economico. Una voce, questa della salute, che può non essere prioritaria per i dipendenti giovanissimi, ma che è determinante per lavoratori in età più avanzata, che non sono affatto pochi. Stando alle statistiche, infatti, l'87,9% degli impiegati assunti al minimo salariale (tra tutte le imprese a livello nazionale) hanno più di 20 anni e il 28% di essi ha almeno un figlio.
Comunque a tirare la cinghia e a lavorare 74 ore alla settimana (che su una settimana di 5 giorni lavorativi fa più o meno 15 ore al giorno), poi si hanno delle soddisfazioni, anch'esse quantificate dagli zelanti estensori del vademecum: 750 dollari al mese, o, che è lo stesso, 25 dollari al giorno. Con cui bisogna, semplicemente, vivere (per il poco tempo che rimane). Meglio se senza figli.

Brancaccio: "Non illudiamoci, la Merkel dopo le elezioni non cambierà linea"

Fonte: ilsussidiario.net | Autore: pietro vernizzi                                       
“Anche dopo le elezioni di settembre la Germania non volterà pagina rispetto all’austerity. I tedeschi hanno tratto benefici dalla crisi, e anche se la stessa Bundesbank esprime riserve sull’indirizzo generale della politica economica europea, Berlino non ha interesse a cambiare rotta”. Lo afferma Emiliano Brancaccio, ricercatore e docente di Fondamenti di economia politica all’Università del Sannio. Un rapporto della Bundesbank ha affermato che la Grecia avrà bisogno di nuovi aiuti entro la primavera del 2014, criticando in modo indiretto ma chiaro le politiche di Angela Merkel.Brancaccio, come si spiegano le critiche della Bundesbank alla Merkel?
In Germania da circa due anni si sviluppa una dialettica che vede la Bundesbank scettica sull’efficacia della politica economica europea. La banca centrale tedesca dichiara di pretendere più rigore dai paesi che chiedono aiuti per coprire i loro debiti, ma ormai sembra trattarsi solo di una scusa, di un paravento. In realtà la Bundesbank incarna la posizione di coloro che nutrono dubbi crescenti sulla futura sopravvivenza della zona euro.
Da quali constatazioni emergono questi dubbi?
Dal fatto che l’austerity sta mancando i suoi obiettivi. Nel corso degli anni 2000, con il beneplacito dei mercati finanziari e delle principali banche europee, la Grecia ha potuto accumulare debiti verso l’estero che raggiungevano punte del 18% annuo rispetto al Pil, e che non erano quasi mai inferiori al 10%. All’epoca gli operatori sui mercati finanziari erano euforici, e i creditori erano ottimisti sulle possibilità di rimborso dei prestiti. Gli economisti che lanciavano allarmi sulla insostenibilità di quei debiti non venivano ascoltati. Ora però gli umori sono cambiati. I creditori pretendono che la Grecia ribalti la sua posizione verso l’estero e inizi a pagare subito i debiti. Secondo i suoi fautori, la politica di “austerity” dovrebbe servire esattamente a questo scopo: far crollare i redditi e quindi anche le importazioni dei greci, così tanto da trasformare l’indebitamento estero del paese in un surplus. Ma i dati ci dicono che non ci sta riuscendo.
Perché?
Dalle previsioni della Commissione Ue emerge che la Grecia, nonostante i sacrifici dell’austerity, non sarà in grado di assorbire il suo indebitamento verso l’estero, né quest’anno né l’anno prossimo: nel 2014 si prevede ancora un deficit verso l’estero dell’1,7%. Intanto, il Paese ha ormai raggiunto tassi di disoccupazione del 27% nel 2013, e si prevede che nel 2014 non andrà sotto il 26%. La verità è che, avallando le politiche di austerità, stiamo solo contribuendo a distruggere l’economia greca senza riuscire a ribaltare la sua posizione verso l’estero.
Erogare nuovi aiuti alla Grecia può produrre effetti positivi?
Non nei termini attuali. I finanziamenti erogati dalle istituzioni Ue e dalla Bce a favore della Grecia e di altri Paesi periferici richiedono come contropartita tremende politiche di austerità. Ma questo scambio è contraddittorio: tali politiche infatti deprimono la spesa interna e fanno quindi crollare la produzione e i redditi dei Paesi periferici a tal punto da rendere più difficile il rimborso dei debiti.
Perché la Bundesbank, pur rendendosi conto che le politiche Ue non funzionano, continua a ergersi a baluardo dell’austerità?
Perché non ha interesse a cambiare linea. Dobbiamo renderci conto del fatto che la crisi europea è fortemente asimmetrica. Mentre i Paesi periferici, come Grecia, Spagna, Portogallo, Italia e Irlanda, hanno perso dall’inizio della crisi a oggi 6 milioni di posti di lavoro, la Germania non ha risentito in misura equivalente della crisi. Anzi, dal 2008 al 2012 i posti di lavoro in Germania sono addirittura aumentati di 1,5 milioni di unità. Per quanto si possa prendere atto del fatto che l’austerità non risolverà la crisi europea, al tempo stesso non c’è un motivo politico per pensare che la Germania sia disposta a cambiare strada.
Però il crollo delle esportazioni nell’area Ue, secondo l’Fmi, farà sì che quest’anno la crescita tedesca si fermerà allo 0,3%. Anche la Germania inizia a pagare il conto?
Senza dubbio l’economia tedesca si è sviluppata per anni sulla base di un meccanismo che non funziona più. I creditori internazionali, in larga misura tedeschi, finanziavano l’indebitamento pubblico e privato dei Paesi periferici. Questi ultimi, a loro volta, usavano buona parte dei prestiti per importare merci dalla Germania. E’ questo il meccanismo attraverso cui, dalla nascita dell’euro, la Germania ha potuto prosperare.
Per quali motivi questo meccanismo si è inceppato?
Perché è un meccanismo asimmetrico, che alimenta gli squilibri tra creditori e debitori. Prima o poi era destinato a esplodere. Sicuramente la Germania risente del fatto che non può più basarsi su di esso. Ma non dobbiamo illuderci che Berlino per questo dia il suo via libera a una stagione di politiche espansive in Europa. Alcuni commentatori auspicano che dopo le elezioni tedesche si possa intravedere una svolta. In particolare, sperano che la Germania accetti finalmente di comprare merci dall’estero in modo da risollevare le vendite e i redditi dei paesi periferici. Su queste speranze personalmente resto scettico. I tedeschi non hanno mai agito da locomotiva della domanda europea: al contrario, hanno sempre preteso di farsi trainare dalla domanda proveniente dall’estero. La crisi li colpisce troppo poco per pensare che cambieranno repentinamente strategia.

lunedì 12 agosto 2013

Silvio Berlusconi-Vanna Marchi... Destini incrociati

Fonte: liberazione.it | Autore: Multatuli
                   
Si dice che Vanna Marchi, un tempo “regina delle televendite”, condannata a sette anni di prigione per avere raggirato e truffato decine di telespettatori vendendo loro numeri sicuri per il lotto, nonché talismani, amuleti, kit contro le influenze maligne e il malocchio ed ora tornata libera, abbia presentato insieme alla figlia, complice delle imprese di tanta madre, un ricorso alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo contro il giudice Antonio Esposito (sì, proprio lui!) perché nel processo a suo carico si sarebbe macchiato di “anticipazione di giudizio”.
La fattucchiera di Castel Guelfo di Bologna, l’infaticabile venditrice di panzane televisive deve in questi giorni essersi specchiata nel Caimano e deve a buona ragione essersi chiesta se il destino crudele che tanto ha in comune con lui, non possa trovare, presso la Corte europea, risarcimento e riscatto.
La circostanza, ovviamente, muove al riso. Ma se ci pensate bene il profilo dei personaggi si sovrappone davvero. Con una differenza: che la grottesca dispensatrice di magie non era nessuno, mentre il Caudillo di Arcore, con non dissimili sortilegi, è riuscito a governare il Paese per dieci anni e lo ha tenuto in scacco per venti, senza che la partita possa ancora ritenersi chiusa. C’è poi fra i due un’altra differenza: Vanna Marchi è stata travolta da lazzi e sberleffi ed ha pagato il suo debito con la giustizia, Berlusconi trova invece ancora adepti adoranti, nonché compiacenti avversari, preoccupati di come evitargli di scontare la pena e assicurargli una nuova chance in politica. Noi speriamo che l’iniziativa di Micaela Biancofiore (una delle amazzoni di re Silvio) e quella della signora Stefania nobile (figlia di Vanna Marchi) di portare il caso davanti all’alto tribunale europeo vada a buon fine. Attenderemmo con una punta di cinico divertimento il giudizio dell’autorevole Corte. Del resto è giusto che le tragedie, una volta consumate, si abbattano in versione farsesca su coloro che se ne sono resi responsabili. Entrambi, la Vanna e il Silvio nazionali accomunati dalla medesima sorte, meriterebbero una piece teatrale dedicata allo sfruttamento della credulità popolare.

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