Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 9 novembre 2013

Euro: si può uscire a sinistra

Autore: Mimmo Porcaro      - controlacrisi                 
Un recente articolo di Roberta Carlini suggerisce fin dal titolo che l’uscita dall’euro può essere pensata ed attuata solo da destra, argomentando la tesi col dire che, se all’inizio dell’unione monetaria qualche borbottio si era fatto sentire anche a sinistra, ormai il discorso anti-euro è decisamente egemonizzato dalle formazioni politiche di area opposta. Ma questa, mi spiace dirlo, non è una notizia. La vera notizia è piuttosto che, dopo decenni di inebetita accettazione della moneta unica, anche all’interno della sinistra qualcuno comincia a proporre di consegnare l’euro alle nostalgiche raccolte dei numismatici. Ne parla la sinistra francese, con dovizia di argomenti. Ne parla, con la serietà di chi vive momenti drammatici, la stessa Syriza. Ne discute addirittura anche la Linke, e addirittura grazie ad uno dei suoi padri nobili: proprio quell’Oskar Lafontaine che aveva salutato positivamente la nascita della nuova moneta. E, qui da noi, nell’imminente congresso di Rifondazione Comunista si discuterà un emendamento che propone l’uscita dall’euro, legandola al progetto di una soluzione tendenzialmente socialista della crisi italiana. La vera notizia, quindi è che si delinea finalmente un’uscita a sinistra dall’euro. E che questa proposta è talmente sensata che anche chi vi si oppone, immaginando improbabili terze vie, è costretto a riconoscere, il carattere nefasto della moneta unica, mentre chi pure continua, come Christian Marazzi, a vedere un futuro per l’euro come moneta comune accanto alle monete nazionali, deve ormai dire con una certa nettezza che l’euro è la quintessenza del monetarismo, che esso non è assolutamente riformabile e che ci si deve attrezzare a gestirne l’inevitabile e “naturale” rottura. Eppure, nonostante le discussioni in corso, le dure critiche, le continue conferme fattuali del ruolo dell’euro nell’acuire automaticamente le divergenze tra le economie europee e tra le classi tutto ciò non si traduce ancora in una condivisa proposta di uscita (magari prudente, magari graduale) dal meccanismo della moneta unica. Perché? Obiezioni abituali all’idea dell’uscita I motivi sono molti, e profondi. E non sono soltanto quelli che si manifestano nelle affermazioni più abituali: “ i rischi dell’uscita sono eccessivi”, “la svalutazione non risolve tutto”, “il neoliberismo non si identifica solo con l’euro”. E, in ogni caso, “non si può proporre ciò che propone la destra”. Affermazioni a cui si può rispondere ricordando che se uscendo si rischia, restando si è certi di finire nel baratro. Che le risorse per impostare le vere soluzioni dei problemi italiani non potranno essere reperite fintanto che un Paese in deficit commerciale come il nostro avrà la stessa moneta di un Paese in surplus. Che l’euro è la più forte delle politiche neoliberiste perché fa apparire l’attacco al welfare e ai salari non come il frutto di una scelta ma come una necessità “naturale”. E infine che non è vero che la destra (italiana) propone l’exit: essa per ora annusa l’aria, dice e non dice, lancia qualche ballon d’essai. Ci da ancora un po’di tempo, quindi, per proporre la nostra versione dell’inevitabile uscita. E per rammentarci che sempre, quando vogliono realmente uscire dalla crisi del capitalismo, destra e sinistra tendono inevitabilmente ad occupare spazi contigui perché entrambe devono conquistare, per vincere, le classi che dalla crisi sono più colpite. La destra non si è mai vergognata di appropriarsi delle parole d’ordine della parte avversa, facendone poi un uso alquanto…originale. Perché dovrebbe vergognarsene la sinistra, soprattutto quando quelle parole d’ordine appaiono di destra solo perché la stessa sinistra radicale, rincitrullita dal liberoscambismo, non le ha fatte proprie per tempo, mentre invece sono chiaramente coerenti con quanto scritto sulle vecchie e gloriose bandiere della sinistra stessa: controllo democratico della finanza, investimenti pubblici diretti, stato sociale, sovranità popolare? Eppure non si riesce a farlo. Per il persistere di orientamenti politici e culturali magari nobili, ma ormai controproducenti. Ma anche per motivi molto più prosaici. Cominciamo dai primi.


L’Europa non è uno spazio ottimale
L’Europa, si dice, è l’unità territoriale minima per rendere efficace qualunque tipo di politica economica, e di politica tout court. Nel mondo contemporaneo, in cui si muovono giganti come gli Usa e i Brics, ogni entità politica più piccola dell’Unione europea sarebbe incapace di fare alcunché. Nel gergo di noialtri comunisti questa tesi viene in genere riformulata così: poiché il “livello” del capitale è ormai continentale (in quanto la produzione è integrata su scala europea) il “livello” della lotta di classe non può che essere continentale anch’esso: questo è l’unico modo per controllare, almeno potenzialmente, catene del valore che ormai si estendono “dal Manzanarre al Reno”, e oltre. Tesi, queste, non peregrine. In effetti l’Europa sarebbe davvero uno spazio economico-politico ottimale, così come sarebbe davvero opportuno poter agire dentro confini talmente ampi da contenere – e quindi controllare – le reti di produzione volutamente frammentate dal capitalismo. Ma il condizionale, qui, è davvero d’obbligo. L’Unione europea sarebbe uno spazio politico ottimale, ma non lo è , semplicemente perché è uno spazio che, proprio grazie all’euro, non consente nessun’ altra politica che non sia quella funzionale alle necessità di accumulazione del capitale. E’ uno spazio che non dà scelte, e che quindi consente solo politiche antipopolari. L’Unione europea non espande la sovranità popolare, non le consente di agire su scala più vasta, ma semplicemente la elimina: in basso assegnando agli Stati nazionali (ad eccezione dello Stato dominante, quello tedesco) il mero compito di disciplinare i lavoratori e di trasferirne i risparmi verso il capitale finanziario; in alto, sostituendo la sovranità sulla moneta con la sovranità della moneta (che è peraltro una moneta analoga a quella dello Stato dominante). Quindi purtroppo l’idea di utilizzare lo spazio europeo per una politica di più ampio raggio non è realisticamente proponibile. Purtroppo bisogna ripiegare, ma non già su uno spazio esclusivamente nazionale, bensì su poli internazionali meno estesi dell’Unione europea (quale potrebbe essere il polo sudeuropeo) ma forse più capaci di proiezione esterna (verso l’area mediterranea, il Medio oriente ed i Brics) perché non più vincolati ad una moneta rigida come l’euro, che fa temere ad ogni potenziale alleato il rischio di finire strangolato da un debito inestinguibile. E capaci, su questa base, non già di tagliare le reti produttive che li legano al resto d’Europa, ma di gestirle in maniera maggiormente negoziata. Purtroppo chi vuole costruire un vero Stato democratico europeo deve prima distruggere il semi-Stato attuale. Perché non ci sentiamo nazione? Non sono pochi gli europeisti di sinistra disposti a condividere, in tutto o in parte, quanto ho appena scritto. Ma subito dopo si fermano, atterriti da un ostacolo insormontabile: “non possiamo certo tornare al nazionalismo!”, “non possiamo certo isolarci dal mondo!”, e così via. Entra in gioco, qui, un caratteristica profonda della cultura del nostro Paese, ossia la persistente difficoltà dell’Italia a pensarsi come nazione. Difficoltà comprensibile: la Repubblica democratica nasce proprio sulle ceneri di una velleitaria avventura nazionalista; lo sviluppo postbellico e l’improvviso benessere goduto dal Paese sono stati vissuti anche come effetto dell’apertura della nostra economia al mercato mondiale. Decisamente dipendente dall’estero per capacità militare, per fonti energetiche e materie prime, l’Italia si è volontariamente legata, come socio minore, all’alleanza atlantica ed ha fatto a lungo di necessità virtù, deponendo (per fortuna) ogni forma di sciovinismo, ed individuando sempre negli organismi internazionali la principale sede di decisione. L’universalismo cattolico ed una versione sempre più soft dell’internazionalismo comunista hanno certamente rafforzato questa attitudine, il cui esito più concreto ed importante è stato individuato proprio nell’Unione europea, e nell’euro stesso. Sulla base di questa collocazione geopolitica subalterna e delle culture che l’hanno, ad un tempo, mascherata ed illusoriamente nobilitata, sono da noi attecchite ideologie che altrove hanno avuto assai minore fortuna: la diffusa convinzione che lo Stato nazionale non conti più nulla; la pretesa che esso possa essere felicemente superato dalle istanze sovranazionali e dall’autonomia del “sociale”; il globalismo che immagina un mondo piatto, privo di confini, dove gli scontri tra blocchi economico-politici sono soltanto un evitabile incidente di percorso; l’idea, infine, che siccome noi non ci comportiamo veramente come nazione nemmeno gli altri debbano farlo: da ciò la persistente illusione sul fatto che “alla fine” la Germania ed i suoi diretti satelliti rinunceranno alla loro gretta strategia mercantilistica e nazionalistica a favore dei nobili ideali del “mondo interconnesso”. Tutto questo insistente chiacchiericcio viene oggi soverchiato dal fragore della crisi, che mostra la vera natura dell’Unione europea, la persistente importanza degli Stati forti nel gestire le gravissime turbolenze economiche, l’emergere di gravi conflitti trai diversi blocchi mondiali. E, soprattutto, l’esaurimento della rendita di posizione che aveva consentito all’Italia di progredire dal punto di vista sia economico che sociale pur nel contesto di una subordinazione geopolitica. E proprio questo è il punto: se la collocazione atlantica ci ha consentito, in passato, di situarci comunque in un’area economica espansiva (anche se ultimamente trainata solo dalla droga finanziaria), oggi questo non è più possibile. Anche l’idea di allontanarci dal rigorismo tedesco per beneficiare del “keynesismo” americano è illusoria: sia perché questo “keynesismo” è in realtà una bolla gigantesca, sia perché la strategia fondamentale degli Stati uniti è quella dell’estensione del più integrale liberoscambismo a tutta l’Europa (unita o meno), è quella della completa demolizione dei limiti posti al movimento dei capitali, e quindi cozza con le esigenze di un Paese come il nostro che, per ricostruire una base produttiva distrutta da decenni di rapine berlusconiane e di svendite prodiane, ha bisogno proprio di rendersi il più possibile autonomo dal capitale finanziario mondiale, di regolarne i movimenti, di riconquistare una capacità di manovra pubblica. Una scelta difficile L’Italia deve quindi riconoscere che non può più identificarsi senza riserve nelle istituzioni del capitalismo atlantico, ed in particolare nell’euro, pena il proprio crescente immiserimento. E che quindi deve costruire, insieme ad altri, un’autonoma posizione internazionale (di potenziale raccordo tra Nord e Sud, Ovest e d Est) come condizione di un’autonoma strategia di crescita civile interna. La difficoltà nel liberarsi dell’euro e nell’immaginarsi senza Unione europea non è che il sintomo, a mio avviso, della sorda percezione e della subitanea rimozione di questo problema epocale, la cui soluzione imporrebbe una decisa e difficile cesura con la cultura politica e con la prassi della sinistra italiana, anche della parte migliore di essa. Difficile ma non impossibile. Se solo si diradasse la nebbia globalista in cui siamo immersi si vedrebbe che, dalla Comune di Parigi alla guerra antinazista dell’Unione Sovietica, dalla Resistenza italiana alle varianti latinoamericane del socialismo, nessuna grande esperienza di emancipazione sociale ha mancato di riferirsi in qualche modo alla nazione. Si vedrebbe che quando il comando del capitale si presenta anche come distruzione o indebolimento dello Stato nazionale, la difesa dello spazio nazionale può essere una forma non di repressione, ma di ripresa della lotta di classe. Si vedrebbe che l’internazionalismo non è – appunto – globalismo, ma patto progressivo tra lavoratori che, avendo riconquistato protagonismo politico nel proprio spazio nazionale, possono proprio per questo costruire uno spazio più ampio, e così resistere in maniera più efficace alle dinamiche del capitalismo mondiale. E la nebbia in cui siamo immersi può essere diradata se le nuove, e peggiori, condizioni sociali imposte dalla crisi sono lette e spiegate da nuove, e migliori, idee sul futuro del Paese.


Rompere l’alleanza tra lavoro e capitale europeista Ma la battaglia ideale non basta. Perché i motivi dell’insano attaccamento all’euro non sono semplicemente culturali, ma, come dicevo, anche molto prosaici. Più che l’attaccamento all’euro conta qui – passatemi l’espressione – la fame di “euri”. Quella del ceto politico PD, che trova linfa e sostegno nell’essere parte integrante del blocco dominante “eurista”. Ma anche quella del ceto sindacale che sopravvive grazie all’indiscussa accettazione della prospettiva europea, che comporta in cambio legittimazione, partecipazione ad enti bilaterali, alla gestione della formazione ed altro. Ma anche quella di una parte delle associazioni civili (e dei movimenti di cui esse sono struttura portante) che pur seguitando a criticare in tutti i modi le idee neoliberiste, accettano senza batter ciglio le pratiche neoliberiste della governance, che implicano riduzione dello Stato, sussidiarietà, e, ovviamente finanziamento diretto (tramite fondi europei) delle associazioni stesse. Ma ciò che più importa è che, purtroppo, la traballante struttura dell’euro è sostenuta soprattutto dallo stesso blocco sociale che sostiene la sinistra, ossia da quei lavoratori della grande industria, del pubblico impiego e delle nuove professioni intellettuali, nonché dai pensionati, che, pur vedendo sempre più minacciata la propria relativa stabilità, temono che le inevitabili difficoltà dell’uscita dall’euro si riversino soprattutto sulle loro spalle. Temono, insomma, più il futuro del presente. Mentre i lavoratori meno stabili ed i microimprenditori (che sono quasi sempre proletari costretti alla partita IVA), in stato di crescente disperazione, temono più l’oggi che il domani ed oscillano tra l’astensione e l’appoggio alla retorica antisistema – ed antieuropea – della destra. Dobbiamo quindi concluderne che i lavoratori cosiddetti garantiti sono gli avversari di oggi? Tutt’altro. Questo è proprio l’atteggiamento della destra, è l’atteggiamento di Grillo (ma non certo di tutto il M5S), che consiste nel mettere i lavoratori gli uni contro gli altri per poi fregarli tutti insieme, distruggendo ogni tipo di struttura sindacale e di autonomia politica. No. Noi dobbiamo ovviamente puntare sull’unità di tutti i lavoratori. Ma dobbiamo anche riconoscere che, in determinati momenti storici, i lavoratori più deprivati sono gli unici capaci di scelte politiche radicali. E che quindi bisogna prendere le mosse proprio dall’organizzazione di questi lavoratori, dall’alleanza tra essi ed una parte delle piccole e medie imprese, dalla definizione di un programma per la rinascita economica e civile del Paese. E che successivamente bisogna, su questa base, riconquistare un rapporto unitario con la parte “forte”, ma in realtà sempre più debole, del lavoro, momentaneamente alleata col grande capitalismo europeista. Anche il lavoro apparentemente stabile, infatti, è e si sente continuamente minacciato di declassamento sociale, e questa sensazione si accrescerà sempre di più. Dobbiamo accompagnarla chiarendo il ruolo negativo dell’euro e la possibilità di un’uscita a sinistra. Ossia di un uscita che non si traduca semplicemente in svalutazione ed inflazione (anche se la svalutazione ci è fisiologicamente necessaria ed anche se l’inflazione non consegue automaticamente, ed in misura proporzionale, alla svalutazione), ma comporti controllo dei capitali e dei prezzi, indicizzazione delle retribuzioni, nazionalizzazione del credito, ripresa della sovranità monetaria, quindi della politica industriale e quindi della stabilità occupazionale. E comporti una rivendicazione della sovranità nazionale come condizione della sovranità popolare, e la rivendicazione di una nuova costruzione europea basata sul coordinamento graduale delle diverse economie, ma soprattutto su motivi più politici che economici: sulla scelta, cioè, di un ruolo di gestione cooperativa e pacifica dei conflitti mondiali. Tutto questo si può fare. In fondo i lavoratori più disperati si rivolgono a destra perché nessuna sinistra ha offerto loro una pur minima speranza. E quelli meno disperati sostengono al momento il grande capitale europeista non solo perché hanno ancora qualcosa da perdere, ma anche perché nessuno ha mai offerto loro un’alternativa credibile. La speranza e l’alternativa potranno essere offerte soltanto da una formazione politica che capisca che “sinistra”, da sola, è una parola vuota che ben può associarsi a corruzione parlamentare, bellicismo, colpevole adesione culturale all’ideologia del più forte. La “sinistra senza aggettivi”, tanto cara a Niki Vendola; combina solo disastri: serve una sinistra che ritrovi gli aggettivi che la legano alle grandi ideologie di emancipazione popolare, al comunismo, al socialismo, allo stesso cattolicesimo sociale. Serve aver chiaro che non si tratta solo di “uscire a sinistra dall’euro”, ma di uscire dalla crisi del Paese con un inizio di strategia socialista. Sette novembre 2013
 

Grecia: “La mozione di sfiducia è una gaffe o un bluff?”

8 novembre 2013

                   

Ta Nea, 8 novembre 2013
Il 7 novembre la coalizione di sinistra Syriza ha presentato una mozione di sfiducia contro il governo di Antonis Samaras dopo lo sgombero da parte della polizia della sede della radio-televisione pubblica ERT, avvenuto la notte precedente. La sede era stata occupata da giornalisti licenziati in occasione dell'improvvisa chiusura dell’azienda a giugno.
Secondo il leader di Syriza Alexis Tsipras l’operazione costituisce “un attentato alla democrazia”. In ogni caso secondo Ta Nea non c’è dubbio che Samaras otterrà la fiducia, perché la sua coalizione con i socialisti del Pasok può contare su 155 voti in parlamento su 300. Secondi il quotidiano la mozione si trasformerà in un regalo per il governo, ricompattando i ranghi della maggioranza.
I dibattiti dovrebbero iniziare l’8 novembre nel pomeriggio. Il voto si terrà il 10 novembre, a mezzanotte.

Le locomotive d’Europa e la zavorra del mondo

di Agenor - sbilanciamoci -
Il surplus tedesco è stato foraggiato negli anni dai consumatori portoghesi, irlandesi, greci e spagnoli. Mentre a livello globale l’eurozona è diventata più un peso che un fattore di crescita. Ecco perchè il Tesoro americano ha accusato apertamente la Germania
La vera locomotiva d’Europa nei primi dieci anni di vita dell’unione monetaria sono stati i Pigs, ovvero i consumatori portoghesi, irlandesi, greci, e spagnoli. I consumi di questi paesi, “drogati” dal credito facile, da un flusso senza precedenti di capitali dai paesi con eccesso di risparmio e difetto di consumi, e da livelli esagerati di debito privato, sono stati il vero motore che ha sostenuto paesi come la Germania, in cui la domanda interna veniva repressa e quella estera rimaneva l’unica possibile fonte di crescita.
In un regime di cambi flessibili, questo processo avrebbe rapidamente portato ad un apprezzamento della moneta maggiormente richiesta (quella dei paesi esportatori) ed un deprezzamento della moneta meno richiesta (dei paesi importatori), riequilibrando la situazione. In un regime di cambi fissi, la cui versione estrema è l’unione monetaria, questo ovviamente non è stato possibile.
Il risultato sono i famosi squilibri commerciali interni alla zona euro che adesso si cerca di correggere. Un misto di impotenza politica e di propaganda moralistica, però, impedisce che ciò avvenga. La terminologia usata è importante: chi cresce sulle spalle degli altri, comprimendo la propria domanda e appoggiandosi su quella degli altri, genera un “surplus”, il che ha una connotazione positiva. Ma il mio “surplus” richiede un “deficit” altrui per esistere, soprattutto in un’area valutaria comune in sostanziale pareggio commerciale col resto del mondo.
Da un punto di vista politico, poi, la vera forza dei paesi in “surplus” è di evitare di contribuire al riequilibrio: le nuove regole imposta da Bruxelles sulla sorveglianza macroeconomica prevedono che un deficit commerciale del 4% sul Pil sia un campanello d’allarme, ma nel caso di un surplus non c’è problema se si arriva fino al 6%. Questo era appunto il livello del surplus tedesco secondo le stime per il 2012. I dati reali, invece, ci parlano di un surplus commerciale tedesco del 7%, che in termini assoluti è più alto persino di quello della Cina.
Qual è quindi il deficit corrispondente che finanzia il più grande surplus del mondo? Come detto, dall’inizio dell’unione monetaria la Germania passava gradualmente da una situazione di deficit ad una di surplus, ma visto che la zona euro era in sostanziale pareggio con il resto del mondo, il vero motore che sosteneva questo enorme surplus commerciale diventavano gli altri paesi all’interno dell’area monetaria. I quali, infatti, registravano deficit sempre maggiori. Persino l’Italia, tradizionalmente paese esportatore, dal 2002 va in deficit commerciale.
Da quando le politiche di austerità hanno spento quei motori, l’eurozona ha ripiegato sull’estero: il crollo della domanda interna ha fatto sì che l’unica fonte possibile di crescita diventasse la domanda estera. Da qui la necessità di un surplus commerciale verso il resto del mondo, che si aggira oggi intorno all’1,9% del Pil complessivo dell’eurozona e che secondo il Fmi sarà del 3,3% nei prossimi anni.
Ma cosa vuol dire tutto questo? Semplicemente che a livello globale l’eurozona si appoggia sugli altri, date le sue dimensioni diventa più un peso che un fattore di crescita, esporta prodotti ma anche disoccupazione e drena risorse dalle altre regioni. Non è un caso che il Tesoro americano abbia apertamente accusato la Germania di essere un peso che impedisce la ripresa in Europa e nel mondo intero. Se la zona euro prosegue con la sua politica deflazionista, tenderà ad importare meno, quindi a richiedere meno moneta estera di quanto l’estero domandi euro. Ma siccome il mondo non è un’unione monetaria, i cambi flessibili fanno sì che il valore dell’euro aumenti.
Tutto questo non fa altro che aggravare la situazione dei paesi periferici dell’eurozona. Questi paesi sono stati costretti a politiche deflazioniste per ridurre i salari e diventare più “competitivi”. La mancanza di politiche espansive negli altri paesi dell’eurozona li priva del simmetrico aggiustamento che sarebbe naturale all’interno di un blocco di paesi “amici”, anziché “nemici”. Il valore conseguentemente alto della moneta unica sul mercato internazionale vanifica tutti gli sforzi per essere più competitivi. A cosa serve comprimere di un 15%-20% rispetto all’inizio della crisi i salari reali in Grecia attraverso manovre di lacrime e sangue se poi il valore della moneta greca si apprezza del 20% nei confronti del resto del mondo?
Le speranze sono ben poche, perché è ben poco quello che i singoli governi possono fare, privi di politica monetaria e ormai quasi anche di politica fiscale. Non sembrano quindi esserci segnali che la spirale deflazionistica possa arrestarsi. La Bce cerca di fare il possibile abbassando i tassi allo 0,25%, ma dopo di che c’è solo lo 0%! Siamo in piena trappola della liquidità, una trappola nella quale ci siamo infilati lentamente e per pura decisione politica.

La crescita è nemica della vita

La crescita è nemica della vita

shiva
di Vandana Shiva
La crescita illimitata è il sogno degli economisti, degli uomini d’affari e dei politici. E’ considerata una misura del progresso. In conseguenza il prodotto interno lordo (Pil), inteso come misura della ricchezza delle nazioni, è emerso come sia la cifra più potente sia il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia la crescita economica cela la povertà che essa crea attraverso la distruzione della natura che a sua volta conduce a comunità prive della capacità di provvedere a sé stesse.
Il concetto di crescita è stato proposto come misura di mobilitazione di risorse durante la seconda guerra mondiale. Il Pil è basato sulla creazione di confine artificiale e fittizio, presupponendo che se si produce ciò che si consuma, non si produce. In effetti la “crescita” misura la conversione della natura in denaro e dei beni comuni in merci.
Così i meravigliosi cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono definiti non-produzione. I contadini del mondo, che forniscono il 72 per cento del cibo, non producono; le donne che allevano o compiono la maggior parte dei lavori di casa non rientrano nel paradigma della crescita neppure loro. Una foresta vivente non contribuisce alla crescita, ma quando gli alberi sono abbattuti e venduti come legname, allora abbiamo crescita. Le società e le comunità sane non contribuiscono alla crescita, ma la malattia crea crescita attraverso, ad esempio, la vendita di medicinali brevettati.
L’acqua disponibile come bene comune condivisa liberamente e protetta da tutti provvede a tutti. Tuttavia non crea crescita. Ma quando la Coca Cola crea un impianto, estrae l’acqua e riempie di essa bottiglie di plastica, l’economia cresce. Ma tale crescita è basata sulla creazione di povertà, sia nella natura sia nelle comunità locali. L’acqua estratta oltre la capacità della natura di rinnovamento e rifornitura crea una carestia d’acqua. Le donne sono costrette a percorrere distanze più lunghe in cerca di acqua potabile. Nel villaggio di Plachimada, nel Kerala, quando la distanza da percorrere per l’acqua è diventata di dieci chilometri, la donna tribale locale Mayilamma si è detta che quando è troppo è troppo. Non possiamo camminare oltre; l’impianto della Coca Cola va chiuso. Il movimento che le donne hanno avviato ha portato alla fine alla chiusura dell’impianto.
In modo simile, l’evoluzione ci ha donato i semi. I contadini li hanno selezionati, coltivati e diversificati; sono la base della produzione del cibo. Un seme che si rinnova e si moltiplica produce semi per la stagione successiva e cibo. Tuttavia i semi coltivati e accantonati dai coltivatori non sono considerati un contributo alla crescita. Creano e rinnovano la vita, ma non producono profitti. La crescita comincia quando i semi sono modificati, brevettati e messi geneticamente sotto chiave, facendo sì che i coltivatori siano costretti a comprarne altri ogni stagione.
La natura è impoverita, la biodiversità è erosa e una risorsa pubblica e gratuita è trasformata in una merce brevettata. Acquistare semi ogni anno è una ricetta per l’indebitamento per i contadini poveri dell’India. E da quanto sono stati creati i monopoli dei semi, il debito dei contadini è aumentato. Dal 1995 più di 270.000 contadini, imprigionati nella trappola del debito in India, si sono suicidati.
La povertà è anche ulteriormente diffusa quando sono privatizzati sistemi pubblici. La privatizzazione dell’acqua, dell’elettricità, della salute e dell’istruzione genera crescita economica attraverso i profitti. Ma genera anche povertà costringendo la gente a spendere grandi quantità di soldi per qualcosa che era disponibile a costi accessibili come bene comune. Quando ogni aspetto della vita è commercializzato e mercificato, vivere diventa più costoso, e la gente diventa più povera.
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Sia l’ecologia sia l’economia sono nate dalle stesse radici: “oikos”, il termine greco per ‘famiglia’. Fintanto che l’economia è stata focalizzata sulla famiglia, ha riconosciuto e rispettato le sue basi nelle risorse naturali e nei limiti del rinnovamento ecologico. L’economia basata sulla famiglia era anche incentrata sulle donne. Oggi l’economia è separata e opposta sia ai processi ecologici sia ai bisogni fondamentali. Anche se la distruzione della natura è stata giustificata con la motivazione di creare crescita, sono aumentate la povertà e gli espropri. Oltre a essere insostenibile, è anche economicamente ingiusta.
Il modello dominante di sviluppo economico è diventato, in realtà, nemico della vita. Quando le economie sono misurate solo in termini di flussi di denaro, i ricchi diventano più ricchi e i poveri diventano più poveri. E i ricchi possono essere ricchi in termini monetari, ma anche loro sono poveri nel più ampio contesto di ciò che significa essere umani.
Nel frattempo le esigenze dell’attuale modello economico stanno portando a guerre per le risorse, guerre per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre per il cibo. Ci sono tre livelli di violenza coinvolti nello sviluppo non sostenibile. Il primo è la violenza contro la terra, che si esprime come crisi ecologica. Il secondo è la violenza contro le persone, che si esprime nella povertà, indigenza e nella cacciata dai propri luoghi. Il terzo è la violenza della guerra e dei conflitti, con i potenti che allungano le mani sulle risorse che si trovano in altre comunità e paesi per soddisfare i loro appetiti illimitati.
L’aumento dei flussi monetari attraverso il Pil è divenuto scollegato dal valore reale, ma quelli che accumulano risorse finanziarie possono poi rivendicare interessi sulle risorse reali della gente, sulla sua terra e sulla sua acqua, sulle sue foreste e sui suoi semi. Questa sete li induce a predare l’ultima goccia d’acqua e l’ultimo palmo di terra del pianeta. Questa non è la fine della povertà. E’ la fine dei diritti umani e della giustizia.
Gli economisti vincitori del premio Nobel, Joseph Stiglitz e Amartya Sen, hanno ammesso che il Pil non coglie la condizione umana e hanno sollecitato la creazione di strumenti diversi per misurare il benessere delle nazioni. E’ per questo che paesi come il Bhutan hanno adottato, per calcolare il progresso, la felicità nazionale lorda in luogo del prodotto interno lordo. Dobbiamo creare misure che vadano oltre il Pil ed economie che vadano oltre il supermercato globale, per rinnovare la ricchezza reale. Dobbiamo ricordare che la moneta reale della vita è la vita stessa.

Fonte: znetitaly.org, (originale: The Guardian, traduzione di Giuseppe Volpe).

Smettiamola di preoccuparci del lavoro

Smettiamola di preoccuparci del lavoro

Sel
di Francesco Gesualdi
Globalizzazione e austerità hanno certificato che questo sistema di lavoro non ne creerà più. E non sappiamo se salutare la notizia con un grido di dolore o un urlo di gioia. Per cominciare di quale lavoro stiamo parlando? La domanda è d’obbligo perché se ci guardiamo attorno, di lavoro da fare ne vediamo a bizzeffe: edifici pubblici e privati da rimettere a posto, argini di fiumi da rinforzare, città da ripulire e buche da sistemare, bambini svantaggiati da sostenere e anziani da assistere. Avessimo voglia di fare, non ci sarebbe che l’imbarazzo della scelta. Eppure continuiamo a dire che non c’è lavoro. La verità è che non sono le cose da fare che mancano, ma una forma particolare di lavoro, il lavoro salariato, che pur essendo solo una delle tante forme possibili è diventata così dominante da averci fatto dimenticare tutte le altre.
Il lavoro salariato è quello destinato al mercato e dopo averci tolto qualsiasi possibilità di provvedere a noi stessi, se non prostituendoci in cambio di un salario da poter spendere nei supermercati per procurarci ciò che ci serve, oggi ci sentiamo dire che non c’è più bisogno di noi. Noi continuiamo a ritenerci persone, ma per le imprese siamo solo un costo da abbattere e quando robot e bengalesi diventano più convenienti di noi, ci trasformiamo automaticamente in avanzi. Gente in sovrappiù, prima sedotta e poi abbandonata, che, certo, qualche problema al sistema lo dà. Non tanto per la disperazione che ormai si taglia a fette con il coltello, ma per la diminuzione dei consumi che un abbassamento della massa salariale inevitabilmente comporta. Ma per questo, un rimedio fino ad oggi il sistema l’ha trovato. “Indebitati che ti passa” sembrano dirci le concessionarie che ci offrono le auto a rate o i supermercati che ci mettono nel portafoglio una carta prepagata che per un mese ci dà l’illusione di comprare gratis.
Peccato che poi i debiti vanno pagati e passato il tempo breve della cicala, rimane quello lungo, a volte perpetuo, degli stenti, tutto orientato al pagamento di interessi e capitale. Ed allora la situazione si fa peggiore non solo per i malcapitati debitori, ma per l’intero sistema perché l’unico modo per restituire i debiti è tirare la cinghia. Che significa riduzione dei consumi e a ruota contrazione della produzione, come ci insegna l’austerità ormai assunta come principio guida della gestione di ogni bilancio pubblico.
Al punto in cui ci troviamo abbiamo solo due scelte. La prima: buttarci sempre di più nelle braccia del mercato. Che significa concepirci definitivamente come una merce destinata ad apprezzarsi o a svalutarsi in base all’andamento del mercato. Ed oggi che siamo poco richiesti accettare di abbassare il nostro prezzo e i nostri diritti fino al livello di schiavitù, come succedeva nel 1700 allorché si producevano solo beni di superlusso per una esigua minoranza superprivilegiata. Se questa prospettiva non ci piace, non ci rimane che un’altra strada: ammettere di essere stati vittima di un grande imbroglio e organizzare un mega vaffaday all’indirizzo del lavoro salariato.
Avere il coraggio di gridare in faccia a mercanti, affaristi, multinazionali, banche, assicurazioni, fondi pensione, che possiamo fare a meno di loro. Anzi che senza di loro facciamo anche meglio, perché non è vero che il solo modo per provvedere ai nostri bisogni è attraverso il mercato. Esistono anche i fai da te individuali e collettivi che usano come ingredienti l’uso diretto del lavoro, lo scambio alla pari, la solidarietà collettiva. Per secoli ci hanno ripetuto che senza di loro, i padroni della terra prima, dei capitali dopo, non saremmo andati da nessuna parte. Ed alla fine ci abbiamo creduto, ci siamo convinti di essere dei mentecatti incapaci di organizzarci per soddisfare i nostri bisogni. Ma ora è arrivato il momento di dimostrare il contrario. Non solo per una questione di sopravvivenza, ma per ridare speranza alla dignità, alla libertà, alla sovranità e per finire alla sostenibilità.
In tempi di crisi economica, l’ambiente è il grande protagonista che scompare di scena. Gli sforzi tutti tesi a corteggiare gli investitori per ottenere qualche posto di lavoro e qualche punto di Pil in più per pagare i debiti (a questo serve la crescita), dimentichiamo la drammatica situazione in cui versa il pianeta, sempre più povero di risorse e sempre più intossicato da veleni e rifiuti come mostra il collasso del clima. Ed allora dobbiamo recuperare il dibattito sul lavoro tenendo anche conto che per fare pace col pianeta non dobbiamo produrre di più, ma di meno. O quanto meno diverso, che non è lo stesso progetto della green economny, nuova frontiera del capitalismo per ridare impulso alla crescita in un momento in cui i consumi ristagnano.
L’unico modo per conciliare dignità sociale e sostenibilità ambientale è smetterla di preoccuparci per il lavoro. In una società evoluta, che dà spazio a tutte le dimensioni umane, l’obiettivo non è lavorare tanto, ma lavorare poco. Per cui la domanda giusta da porci non è come si fa a creare lavoro, ma come si fa a garantire a tutti una vita dignitosa, utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibili e lavorando il meno possibile in un contesto di piena inclusione lavorativa. Ossia di equa divisione fra tutti del monte lavoro che serve.
orario-di-lavoro_02Un primo passo in questa direzione è rappresentato dalla riduzione dell’orario di lavoro. Subito, per legge, battendosi per una soluzione analoga anche in Europa, in modo da togliere alle imprese il pretesto di opposizione in nome della perdita di competitività. Ma altri quattro passaggi sono fondamentali per avviare la traversata. Il primo: il potenziamento del fai da te a livello individuale. Quante più cose sappiamo fare da noi tanto meno dipenderemo dal denaro e quindi dal lavoro salariato che è garantito solo in presenza di alti consumi. Bisogna crederci nel fai da come espressione di libertà e dignità personale, per cui dobbiamo riformare la scuola affinché ci fornisca tutti gli strumenti di base, ti tipo intellettuale e manuale, per permetterci di saper provvedere quanto più possibile a noi stessi su tutti i piani.
Il secondo passo: potenziare gli scambi di vicinato attraverso formule di scambio autogestite come le banche del tempo e le camere di compensazione.
Il terzo passo: il lancio di cooperative di prosumatori. Di attività produttive, cioè, avviate, possedute e gestite sia da chi ci lavora, sia da chi si è impegnato ad assorbire la produzione. Lo sbocco di mercato sicuro è elemento fondamentale di stabilità lavorativa, produttiva e finanziaria. Per cui andrebbero promosse cooperative cogestite da lavoratori e consumatori, con vantaggio reciproco: dei lavoratori finalmente padroni di se stessi, dei consumatori finalmente controllori di ciò che consumano e non più assoggettati a nessuna forma di rendita. In fin dei conti potrebbe essere un’evoluzione degli attuali Gruppi di acquisto solidali.
Il quarto passo, forse il più difficile, è rappresentato da un totale ripensamento dell’economia pubblica, per compiti, per livelli organizzativi, per formule di funzionamento. Il tutto per farla diventale una triplice area di sicurezza: di garanzia dei bisogni fondamentali per tutti, di tutela dei beni comuni, di lavoro minimo garantito. Tanti i cambiamenti necessari per raggiungere un simile traguardo, ma uno che dobbiamo mettere a fuoco è il bisogno di totale autonomia che significa indipendenza assoluta dell’economia pubblica da quella di mercato. Obiettivo che si raggiunge interrompendo la dipendenza dal gettito fiscale tramite il passaggio dalla tassazione del reddito alla tassazione del tempo. Il tempo è la ricchezza più abbondante che abbiamo, se ciascuno di noi mettesse anche solo un giorno alla settimana, gratuitamente a disposizione della comunità, avremmo così tanto lavoro da non sapere dove metterlo.
Lavoro gratuito, in cambio di beni e servizi gratuiti, può rappresentare il domani. Ma intanto abbiamo un compito urgentissimo da assolvere: impedire che venga demolito tutto ciò che di pubblico ci è rimasto. I picconatori sono annidati in ogni dove, non solo a destra ma anche a sinistra e tutti usano lo stesso pretesto: il pagamento del debito. In suo nome non solo impongono nuove tasse applicate ai più deboli, ma chiudono anche servizi e svendono il patrimonio pubblico. Dobbiamo impedirlo imponendo nuove soluzioni al problema del debito pubblico partendo dall’idea che a pagare non devono essere solo i cittadini, ma anche i creditori.

Francesco Gesualdi, del Centro nuovo modello di sviluppo, è promotore di campagne internazionali e autore di diversi libri, tra cui le edizioni della Guida al consumo critico (Emi), Il prezzo del ferro (Emi), Sobrietà (Feltrinelli); l’ultimo è Le catene del debito. E come possiamo spezzarle (Feltrinelli). Questo articolo prosegue il dibattito proposto da Alberto Castagnola in Ripensare la società dal lavoro. Alcune proposte.
Foto: Système d’échange local (Sel), ovvero banca del tempo francese.

Errata corrige: Democrazia

di Sandro Moiso - sinistrainrete -

Il sogno della democrazia consiste nell’elevare il proletariato a livello dell’idiozia borghese” (Gustave Flaubert)
Non è stata la manifestazione più grande, non ci ha lasciato immagini epiche da tramandare ai posteri e, nemmeno, slogan che passeranno alla storia…eppure, eppure…il corteo del 19 ottobre a Roma ha segnato il passaggio ad una fase nuova. Una massa che non si fa rappresentare, ma che si rappresenta. Una massa che non ascolta dichiarazioni e promesse, ma che si dichiara.Una massa combattiva e pacifica, determinata e multietnica. Una massa consapevolmente in guerra contro l’esistente e più pericolosa per le istituzioni di qualsiasi pubblica ed imbelle dichiarazione di guerra.
Perché la democrazia non sta nelle costituzioni, se queste non prevedono il conflitto e il diritto alla rivolta. E non sta nelle leggi elettorali se non esistono partiti in grado di difendere e diffondere il conflitto sociale. E non sta nei partiti e partitini se questi si arrogano, comunque e soltanto, la rappresentazione del conflitto. La democrazia è conflitto e vive soltanto nel conflitto.
Là dove il conflitto è negato, la democrazia non c’è. Che sia un governo liberista a negarlo, oppure un governo ancor più marcatamente autoritario oppure, ancora, un governo socialista come quello sovietico dagli anni venti del ‘900 in avanti, ci si trova davanti ad una dittatura.
Non è questione di forme, ma di sostanza. Prendendo a prestito una frase di Mark Rotko a proposito dell’arte e della pittura, si può affermare che “La democrazia non è qualcosa che riguarda l’esperienza , ma è l’esperienza”.
Democrazia è esperienza diretta della politica. Per chi non è rappresentato dagli ingombranti catafalchi della politica racket, è la politica. E, in quanto tale, non può che essere conflittuale.
Non vi è democrazia nel compromesso. Il compromesso si preoccupa delle forme e non dei risultati. Reali. La democrazia borghese è formale, dichiarativa, rappresentativa e a-conflittuale. Deve superare, castrare, negare, regolarizzare e rappresentare, appunto, il conflitto. Relegandolo alle stanze della politica, ai palazzi, agli ambiti parlamentari. Agli angoli oscuri delle trattative riservate oppure, per uguale e opposta formalità, alla rappresentazione mediatica giornalistica e televisiva.
Là dove quotidianamente viene rappresentata una delle più celebri opere di Shakespeare: “Molto rumore per nulla”. Sempre uguale nella sostanza, ma sempre diversa soltanto per gli attori, sempre più scadenti, che la portano in scena. Inutile, noiosa, imbelle ripetizione di schemi, parole, proposte sempre uguali, vuote e volgari. Slogan che non servono nemmeno più a lenire il malessere causato dalla crisi o a consolare chi continua a pagare per debiti, colpe e responsabilità che non ha mai avuto e non ha mai contribuito a creare.
La democrazia è per forza di cose conflittuale poiché si realizza, anche solo parzialmente, soltanto là dove esistono forze reali contrapposte (Lavoro Vs. Capitale), in cui gli attori abbiano tutti un’eguale peso politico nella società. La rappresentazione parlamentare che ne conseguirà non sarà dunque la causa, ma l’effetto del conflitto. In barba, val la pena di ripeterlo, a tutte le leggi elettorali e alle, sempre aleatorie, garanzie istituzionali.
Negli anni settanta uno slogan recitava: “Democrazia è il fucile in spalla agli operai”. Alcuni lo vollero attuare clandestinamente anche là dove non ne esistevano le condizioni, senza capire che il vero fucile sulla spalla degli operai, dei giovani e dei lavoratori era quello delle lotte, delle occupazioni delle fabbriche, della scuole e delle case e che solo a partire da queste era possibile rivendicare un diritto all’autodifesa che fu riconosciuto, a metà degli anni settanta, anche dal Tribunale chiamato a processare un nucleo di operai di Sesto San Giovanni colti in possesso di armi.
Tutto ciò diventa particolarmente vero nell’attuale situazione italiana. Dove, nonostante i balletti, le dichiarazioni, le fantasmagoriche ricette o leggi di “stabilità”, tutto traballa, tutto scivola lungo un piano inclinato sempre più ripido. E l’accelerazione della crisi sociale, politica ed economica diventa ogni giorno più rapida e violenta.
Monti è definitivamente cotto, bollito o fritto che sia. Letta è agli sgoccioli e Napolitano pure, mentre si abbarbica ad un formalismo autoritario con la disperazione di un cercatore di funghi scivolato lungo un pendio che lo porterà a volare in un dirupo. Mentre le lotte intestine al PdL porteranno ben presto allo sfascio quella che è sembrata, ma soltanto sembrata, essere l’unica forza politica di governo degli ultimi venti anni.
Allo stesso tempo, però, anche il sogno di una nuova, grande DC, che dalle ceneri del PdL avrebbe dovuto rinascere come l’Araba Fenice, è già morto.
Abortito nonostante i voti della Chiesa e di Papa Bergoglio. Perché la DC non ha mai potuto esistere o governare senza il supporto di un’abbondante spesa pubblica. E’ stato il segreto di Pulcinella per i suoi quasi cinquant’anni di governo, dal 1948 al 1993. E Mani Pulite non servì a combattere la corruttela politica ed economica dei suoi leader e rappresentanti, ma, sostanzialmente, a eliminare un sistema di governo che ripartiva anche socialmente una parte della ricchezza prodotta collettivamente pur di mantenere il proprio potere politico.
Insomma Mani Pulite mise fine all’era Giolitti iniziata novant’anni prima per riportare tutto a un immaginario ordine liberale in cui tutti i profitti dell’economia reale, irreale e mafiosa dovevano tornare esclusivamente nelle tasche dei parùn da le bele braghe bianche senza che questi dovessero tirar fuori o tralasciare altre palanche per compensare il resto della società . Stop! Fine della DC e anche del sogno neo-DC, ucciso dai colpi di coda di Berlusconi e di Monti e dal trionfo della finanza su qualsiasi altra attività economica.
A ben pensare però, nel corso degli ultimi vent’anni, l’unica forza che ha davvero governato l’Italia sulla via della restaurazione capitalistico-finanziaria non è stata però Forza Italia con i suoi orrendi alleati leghisti e fascisti, ma, nell’ombra solo per chi non vuol vedere la realtà, il PCI – PDS – PD. Dalla mortadella Prodi al salame Bersani, quell’aggregato politico ha rappresentato la vera continuità e garanzia istituzionale sulla strada della riforma liberista e finanziaria del sistema Italia. E’ dunque per questo motivo che si può dire che Reagan e la Thatcher hanno avuto, qui da noi, la maschera di “severi” politici come D’Alema e i suoi accoliti, seppure in salsa catto-comunista emiliana.
La cui unica proposta alternativa è stata per anni quella dell’economia del “Terzo Settore”, cooperative e associazionismo, che, dopo aver contribuito a smantellare lo stato sociale appellandosi alla solidarietà, hanno finito con il rappresentare il modello principale per le attività sottopagate, aprendo la via alla riforma al ribasso del lavoro di cui sente quotidianamente parlare oggi. Così, mentre da un lato la CGIL si ostinava, apparentemente, a difendere i lavoratori delle grandi fabbriche (in realtà garantendo soltanto ai grandi complessi industriali la possibilità di usufruire di milioni e milioni di ore di cassa integrazione), dall’altra si creavano tutte le condizioni per un drastico abbassamento dei costi del lavoro, giovanile e non.
Solo così si può comprendere la funzione di quella sinistra istituzionale che ha rivendicato negli ultimi vent’anni la sua funzione ( anche se verrebbe da scrivere finzione) liberale, scambiando liberalismo con liberismo…but Love me, love me, love me, I’m a liberal! (come cantava quasi cinquant’anni fa il buon Phil Ochs). E il cui risultato attuale è il mostruoso, gigionesco e pericolosissimo Matteo Renzi. Colui che ha già gettato l’ultimo residuo di maschera sinistrese di quel partito e che, onesto almeno in questo, ha rivolto apertamente la sua richiesta di voto all’elettorato di destra! Completando e portando a termine la parabola di un partito iniziata, come minimo, settanta anni fa con la svolta togliattiana di Salerno.
Unico candidato possibile per un Partito destinato ormai a ricoprire il ruolo di centro che nessun altro ( né Berlusconi, né Monti, né tanto meno Casini) può oggi cercare di ricoprire. Soltanto a questo si possono ricollegare le speranze di vittoria elettorale del PD, che fanno oggi fibrillare il governo Letta quanto le altalenanti tattiche berlusconiane e che alimentano le ultime speranze di governabilità della marcia e decomposta borghesia italiana.
Ma proprio questa speranza centrista sarà ciò che affosserà definitivamente il PD, che finirà sì col guadagnare voti a destra, ma anche col perdere gran parte del poco elettorato attivo di sinistra che ancora gli rimaneva. E che non vedeva ancora come il ruolo democratico rappresentativo del Partito fosse dipeso più dalle lotte sociali reali degli anni sessanta e settanta che gli imponevano determinate tattiche più che dai suoi intenti reali.
Così, mentre i sondaggi danno ormai per le prossime elezioni un 50% di astensioni (tra astensione reale e schede bianche), i movimenti del 19 ottobre (No-Tav, per la casa e per il lavoro) diventano l’unico possibile polo di aggregazione per la stragrande maggioranza dei cittadini italiani, volenti o nolenti che siano. Le parole d’ordine concrete diventano infatti la base di pratiche antagonistiche e delle uniche riforme possibili. Riforme che, come si è già detto più volte su Carmilla, non possono che essere conseguenza di una pratica conflittuale e, quindi, rivoluzionaria.
La Rivoluzione futura sarà anonima e tremenda” affermava molti decenni or sono il vecchio dinosauro Amadeo Bordiga. Tanto anonima da non aver bisogno di un partito fondato su dichiarazioni di stampo ideologico, tanto tremenda da non aver bisogno di racket politici e parlamentari per far parlare di sé. Tanto pericolosa da far tremare i suoi avversari anche senza l’uso immediato della violenza. Cosa di cui i rappresentanti più scaltri dell’ordine esistente (dai giornalisti come Santoro agli imprenditori della piccola e media industria ) si sono già accorti, mentre il Potere delle istituzioni si sbriciola e sfarina ogni giorno di più sotto gli occhi di tutti e anche Grillo deve fare i conti con un vertiginoso calo di popolarità.
Ieri un importante quotidiano, infatti, ha potuto così affermare : ”Di ottimisti, cioè di entusiasti pronti a pronosticare lunga vita per Letta e i suoi ministri, in giro se ne trovano sempre meno.[...] Il quadro della situazione, del resto, è sufficientemente noto: non uno dei tre partiti che sostengono il governo delle larghe intese gode di buona salute [...] E se è fondata la «rivelazione» di Simona Vicari, senatrice PdL,secondo la quale le «elezioni le vogliono i renziani, i falchi PdL e tutto il Movimento 5 Stelle», ecco, se questa è la polveriera sulla quale siede Enrico Letta, chi darà fuoco alla miccia? [...] Con buona pace, naturalmente, delle riforme da fare, delle preoccupazioni del Capo dello Stato e della situazione in cui versa il paese*
A cui va aggiunto ciò che affermava l’editorialista di un altro importante quotidiano nei giorni scorsi; “Se [questo] servirà a scaricare di nuovo sull’Italia e sulle sue istituzioni l’impotenza dei partiti, si apriranno scenari dei quali ognuno si dovrà assumere le proprie responsabilità**
In questo contesto sarà, sempre più probabilmente, costituito da tutto ciò che è stato fin qui elencato il motivo reale del successo dei movimenti, in cui i giovani e i lavoratori, le donne e gli immigrati (ovvero i grandi e indiscussi protagonisti della manifestazione ottobrina), scopriranno sempre di più la bellezza, l’utilità immediata e la gioia connesse a una lotta di liberazione in cui l’individuo riscoprirà tutte le sue potenzialità creative, all’interno di una nuova comunità umana. In cui la ripartizione sociale delle ricchezze e del lavoro non sarà più solo frutto dei capricci del capitale finanziario e delle banche centrali. Libera dallo sfruttamento, dal consumo inutile e distruttivo e dallo spreco delle risorse umane ed ambientali.

Ovvero, finalmente, la vera democrazia realizzata e non quella fittizia, stigmatizzata da Flaubert già nel XIX secolo!

Tagli alle pensioni, o inutili o da esproprio

Maurizio Benetti

La legge di stabilità di Monti nel 2011 ha segnato con tutta probabilità uno spartiacque negli interventi sul sistema pensionistico. Da un lato è intervenuta sull’età di accesso alla pensione portando a compimento un processo iniziato nel 1992 con la riforma Amato, dall’altro ha limitato pesantemente l’indicizzazione delle pensioni.

Il primo tipo d’intervento è quello che, unitamente al cambiamento del metodo di calcolo delle pensioni introdotto con il metodo contributivo nel 1995, ha caratterizzato tutte le riforme del sistema pensionistico dal 1992 al 2011. Tutte queste misure hanno avuto come platea d’intervento i futuri pensionati, ossia i lavoratori, colpendoli progressivamente in misura via via maggiore sia nelle modalità di computo della pensione sia nell’età di pensionamento. Questo processo è ora giunto a compimento e le previsioni a medio-lungo termine della Ragioneria generale sulla spesa pensionistica indicano “come, nel panorama europeo, l’Italia risulti uno dei paesi con la più bassa crescita della spesa pensionistica in rapporto al PIL segnalando, sotto questo aspetto, un rischio contenuto in termini di impatto dell’invecchiamento demografico sulla sostenibilità delle finanze pubbliche”.

Questo significa che se nelle prossime leggi di stabilità si volesse ancora fare cassa sulle pensioni come si è fatto sino al 2011, la platea d’intervento non potrà più riguardare i lavoratori-pensionandi, ma non potrà che riguardare i pensionati. Monti-Fornero l’hanno già fatto attraverso il blocco dell’indicizzazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo e l’ha ripetuto in forma più attenuata Letta modificando in peggio le norme sull’indicizzazione.

Già negli anni novanta si è intervenuti sull’indicizzazione delle pensioni, eliminando l’aggancio ai salari e con blocchi ripetuti della perequazione per le pensioni superiori a 8 volte il minimo. Con Monti e Letta si è abbassato questo limite da 8 a 3 volte il minimo intervenendo, quindi per la prima volta, sulle pensioni medio-basse pari a 1.400/1.500 euro lordi al mese (1.150/1.250 euro netti). A questa novità si aggiunge oggi il fatto, come detto, che le pensioni in essere sono nel sistema pensionistico l’unica fonte a cui il governo può attingere per drenare risorse.

A questa nuova situazione di fatto si aggiunge un altro importante elemento su cui nessuno in ambito sindacale sembra riflettere e che trova invece udienza in qualche politico, vedi Renzi e Grillo, e in qualche economista, vedi Boeri.

Un sistema pensionistico a ripartizione, con le pensioni finanziate dai contributi di chi lavora, è accettabile dai lavoratori nella misura in cui le loro pensioni attese siano simili a quelle per le quali versano i contributi. Diventa non accettabile se i lavoratori debbono finanziare con i loro contributi pensioni sensibilmente più alte di quelle che potranno avere. Nel nostro sistema pensionistico siamo oggi di fronte a quest’ultimo scenario per effetto da un lato delle riforme fatte e dall’altro di un mercato del lavoro che ha reso precarie, oltre al lavoro, anche le aspettative pensionistiche.

I costi delle non riforme: bassa crescita e austerità

Il rinvio continuo delle riforme strutturali ha lasciato

 ai paesi Ue un’unica soluzione: l'austerità

Graffiti sui muri del cantiere della nuova sede della Bce, a Francoforte (foto Afp)

Graffiti sui muri del cantiere della nuova sede della Bce, a Francoforte (foto Afp)

 
La recente crisi dell’Eurozona ha dimostrato che le misure di austerità sono controproducenti: provocano effetti recessivi che, almeno nel breve periodo, tendono a far crescere il debito pubblico, in rapporto al Pil. È una tesi confermata dall’analisi econometrica che mostra come gli aggiustamenti di bilancio siano stati più recessivi del previsto, con moltiplicatori fiscali superiori dell’unità.
Gli effetti particolarmente restrittivi dell’austerità sono ben illustrati nella figura 1, che ripropone un recente grafico di Paul Krugman per il New York Times. La correlazione negativa tra le misure di austerità messe in atto dai paesi dell’area euro tra il 2008 e il 2012, così come misurate dall’Fmi, e il tasso di crescita nello stesso periodo appare forte, con il coefficiente maggiore di 1. La conclusione che se ne trae è che l’austerità non è il modo migliore per curare le finanze pubbliche.
Nasce allora una domanda: perché i politici dell’Eurozona continuano a fare lo stesso errore? La risposta implicita di Krugman è che i politici non sono particolarmente intelligenti, o sono stati mal consigliati, e hanno sottostimato gli effetti delle loro politiche. Detto in parole diverse, perseguendo l’austerità i politici europei si dimostrano ignoranti in fatto di economia, o stupidi.
Figura 1 - Austerità e crescita
1
Assumere che i politici siano irrazionali o stupidi è una facile via di uscita, specialmente per gli accademici. Un modo alternativo di guardare alla questione è interrogarsi sulla causalità nella correlazione tra austerità e crescita. Krugman ritiene che con le misure di austerità i politici europei mostrino la loro irrazionalità, o stupidità: sono stupidi perché perseguono l’austerità invece di una opzione politica preferibile.

venerdì 8 novembre 2013

DE–AMERICANIZZARE IL MONDO

di Truman
Geopolitica DI NOAM CHOMSKY
Truth-out.org

Durante l'ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli USA non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe "de - americanizzarsi" - separarsi dallo stato canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori.

La fonte diretta dello sfacelo di Washington é stato il forte spostamento a destra della classe politica.

In passato, gli USA sono stati talvolta descritti ironicamente - ma non erroneamente - come uno stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani.

Questo non é più vero. Gli USA sono ancora uno stato a partito unico, il partito azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso USA designa se stessa).

Esiste ancora una organizzazione repubblicana, ma essa da lungo tempo ha abbandonato qualsiasi pretesa di essere un partito parlamentare normale. Il commentatore conservatore Norman Ornstein, dello Enterprise Institute, descrive i repubblicani di oggi come "una rivolta radicale - ideologicamente estrema, sdegnosa dei fatti e dei compromessi, che disprezza la legittimità della sua opposizione politica" : un grave pericolo per la società.

Il partito é al servizio dei più ricchi e del settore delle imprese. Siccome i voti non possono essere ottenuti a quel livello, il partito é stato costretto a mobilitare settori della società che per gli standard mondiali sono estremisti. Pazza é la nuova norma tra i membri del Tea Party e una miriade di altri [gruppi], al di là della corrente tradizionale.

La classe dirigente repubblicana ed i suoi sponsor d'affari avevano previsto di usarli come ariete nell'assalto neoliberista contro la popolazione - per privatizzare, deregolamentare e limitare il governo, pur mantenendo quelle parti che sono al servizio della ricchezza e del potere, come i militari.

La classe dirigente repubblicana ha avuto un certo successo, ma ora si accorge che non riesce più a controllare la sua base, con sua grande costernazione. L'impatto sulla società americana diventa così ancora più grave. Un esempio: la reazione virulenta contro l' Affordable Care Act (Atto sulla Salute Conveniente, è il piano nazionale per la sanità, più noto in Italia come ObamaCare, ndt) e il quasi shutdown (spegnimento, arresto, ndt) del governo federale.

L'osservazione del commentatore cinese non è del tutto nuova. Nel 1999, l'analista politico Samuel P. Huntington avvertiva che per gran parte del mondo, gli USA stanno "diventando la superpotenza canaglia", visti come "la più grande minaccia esterna per le loro società."

A pochi mesi dall'inizio del mandato di Bush, Robert Jervis, presidente della American Political Science Association, avvertiva che "Agli occhi di gran parte del mondo, infatti, il primo stato canaglia oggi sono gli Stati Uniti." Sia Huntington che Jervis hanno avvertito che un tale corso é imprudente. Le conseguenze per gli Stati Uniti potrebbero essere deleterie.

Nell'ultimo documento emanato da Foreign Affairs (Affari Esteri, ndt), uno dei principali giornali, David Kaye esamina un aspetto dell’allontanamento di Washington dal mondo: il rifiuto dei trattati multilaterali, "come se si trattasse di sport. "

Egli spiega che alcuni trattati vengono respinti in modo definitivo, come quando il Senato degli Stati Uniti "ha votato contro la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità nel 2012 e il Comprehensive Nuclear – Test Ban Treaty (il trattato sulla messa al bando del nucleare - CTBT ) , nel 1999."

Altri sono scartati dal non agire, inclusi "temi come il lavoro, i diritti economici e culturali, le specie in pericolo di estinzione, l’inquinamento, i conflitti armati, il mantenimento della pace, le armi nucleari, la legge del mare, e la discriminazione contro le donne."

Il rifiuto degli obblighi internazionali "è cresciuto in modo così radicato", scrive Kaye , "che i governi stranieri non si aspettano più la ratifica di Washington o la sua piena partecipazione nelle istituzioni create dai trattati. Il mondo va avanti; le Leggi vengono fatte altrove, con limitato (quando c’è) coinvolgimento americano."

Anche se non è nuova, la pratica si è effettivamente consolidata in questi ultimi anni, insieme con l'accettazione tranquilla all’interno della nazione della dottrina che gli USA hanno tutto il diritto di agire come uno stato canaglia.

Per fare un esempio, un paio di settimane fa, le forze speciali USA hanno preso un sospetto, Abu Anas al- Libi, dalle strade della capitale libica Tripoli, portandolo su una nave da guerra per l'interrogatorio senza avvocato o diritti. Il Segretario di Stato americano John Kerry ha informato la stampa che le azioni sono legali perché sono conformi con il diritto americano, senza suscitare alcun particolare commento.

I principi sono validi solo se sono universali. Le reazioni sarebbero un po' diverse, manco a dirlo, se le forze speciali cubane avessero rapito il prominente terrorista Luis Posada Carriles a Miami, portandolo a Cuba per l'interrogatorio ed il processo in conformità alla legge cubana.

Tali azioni sono limitate agli Stati canaglia. Più precisamente, a quegli stati canaglia abbastanza potenti da agire impuniti: in questi ultimi anni, per svolgere aggressioni a volontà, terrorizzare le grandi regioni del mondo, con gli attacchi dei droni, e molto altro.

E a sfidare il mondo in altri modi, ad esempio persistendo nel suo embargo contro Cuba, nonostante l'opposizione di lunga durata di tutto il mondo, escluso Israele, che ha votato con il suo protettore , quando le Nazioni Unite hanno condannato ancora una volta l'embargo ( 188 voti contro 2 ) nel mese di ottobre.

Qualunque cosa il mondo possa pensare, le azioni degli USA sono legittime perché diciamo così. Il principio fu enunciato dall’eminente statista Dean Acheson nel 1962, quando diede istruzioni alla Società americana di diritto internazionale, in base alle quali nessun problema giuridico si pone quando gli Stati Uniti rispondono a una sfida per il loro "potere, posizione e prestigio ."

Cuba ha commesso quel delitto, quando ha sconfitto un’ invasione proveniente dagli Stati Uniti e poi ha avuto l'ardire di sopravvivere a un assalto progettato per portare "i terroristi della terra" a Cuba, nelle parole dello storico Arthur Schlesinger, consigliere di Kennedy.

Quando gli Stati Uniti ottennero l'indipendenza, cercarono di unirsi alla comunità internazionale del tempo. É per questo che la Dichiarazione d'Indipendenza si apre esprimendo la preoccupazione per il "rispetto delle opinioni dell'umanità."

Un elemento cruciale fu l'evoluzione da una confederazione disordinata verso un’unica "nazione degna di stipulare trattati", secondo l'espressione storica del diplomatico Eliga H. Gould, che osservava le convenzioni dell'ordine europeo. Con il raggiungimento di questo status, la nuova nazione otteneva anche il diritto di agire a suo piacimento a livello nazionale.

Essa poteva quindi procedere a liberarsi della popolazione indigena e ad espandere la schiavitù, una istituzione così "odiosa" che non poteva essere tollerata in Inghilterra, come l'illustre giurista William Murray, conte di Mansfield, stabilì nel 1772. L'evoluzione del diritto inglese era un fattore che spingeva la società schiavista a sfuggire alla sua portata.

Il diventare una "nazione degna di stipulare trattati" conferì molteplici vantaggi: il riconoscimento da parte degli altri Stati e la libertà di agire senza interferenze a casa propria.

Il potere egemonico fornisce l'opportunità di diventare uno stato canaglia, sfidando liberamente il diritto internazionale e le sue norme, mentre affronta una crescente resistenza all'estero e contribuisce al proprio declino attraverso ferite auto inflitte.

Noam Chomsky
Fonte: http://truth-out.org/
Link: http://truth-out.org/opinion/item/19825-noam-chomsky-de-americanizing-the-world
5.11.2013

Traduzione a cura di ALEX T. per www.comedonchisciotte.org

© 2012 Noam Chomsky Distributed by The New York Times Syndicate

mercoledì 6 novembre 2013

Debito pubblico, decido anch'io

Fonte: Il Manifesto | Autore: Francesco Gesualdi                                     
Da più parti si sente dire che faremo la fine della Grecia: disoccupazione alle stelle, servizi soppressi, povertà dilagante. Ma se così sarà per gli effetti, non altrettanto si può dire per le strategie.
Quando, nel 2010, la Troika atterrò ad Atene, i conti della finanza pubblica greca facevano tremare i polsi ai creditori. Le entrate fiscali non coprivano neanche la spese della macchina pubblica, figurarsi se c'erano soldi per gli interessi. Il rischio era che la Grecia diventasse un debitore insolvente, procurando guai non tanto al suo popolo, quanto alle banche di mezza Europa che avevano i cassetti pieni di titoli del debito greco. Perciò intervennero i mastini del capitalismo finanziario mondiale per costringere Atene a organizzarsi affinché i soldi per gli interessi venissero trovati. Non importa se per riuscirci bisognava affamare i bambini, costringerli all'analfabetismo e alla morte per tetano. L'importante è che da qualche parte i soldi saltassero fuori. Perché l'unico obiettivo perseguito dal Fondo Monetario Internazionale, dall'Unione Europa e la Banca Centrale Europea, la troika appunto, è garantire gli interessi ai creditori, che poi sono quel famoso 1% della popolazione mondiale che da sola controlla il 40% dell'intero patrimonio privato mondiale.
E benché strutture pubbliche, che funzionano con i soldi di tutti (per cui dovrebbero prendere le nostre difese, non delle banche), non appena uno stato è in affanno i tre gendarmi gli saltano addosso per imporgli la solita camicia di forza: più tasse e meno spese in modo da generare un avanzo da destinare agli interessi. Eppure lo sanno che per questa strada si arriva a quel disastro economico che oltre a creare disoccupazione e povertà mette sempre più a repentaglio la finanza pubblica. Perché se l'economia si contrae si riduce, anche il gettito fiscale e i conti dello stato entrano in un circuito perverso che impone altri aumenti fiscali e altri tagli alle spese come unico modo per recuperare le somme da dare ai creditori. I signori della Troika lo sanno che in fondo a questo percorso non c'è che la morte del paese, ma vanno avanti imperterriti come lupi attratti dal sangue. E di fronte a una Grecia con un buco di bilancio colossale, non hanno sentito ragioni: hanno messo i greci in catene e hanno saccheggiato le loro case per prendersi tutte le cibarie possibili da consegnare ai creditori.
Mossa rischiosa, perché quando un popolo è sottoposto a sacrifici pesanti può anche ribellarsi nell'impeto dell'esasperazione. E allora addio sogni di gloria, perché nei conflitti sociali non si sa chi ne uscirà vittorioso. Non a caso le elezioni greche del 2012, con Syriza diventato secondo partito del paese, hanno tenuto il potere finanziario col fiato sospeso. Il che conferma che quando le condizioni lo permettono, il potere preferisce le mazzate per piccole dosi, perché inducono i popoli alla sottomissione per la nostra innata propensione ad adattarci alle piccole malversità. Se non fosse che di malversità in malversità si può arrivare alla morte.
In Italia si adotta la strategia delle piccole mazzate, anche detta del rospo bollito, da una trentina di anni ed è anche per questo se ci pieghiamo con estrema docilità alle politiche di austerità imposte dall'Unione Europea.
Controllando i numeri ci accorgiamo che l'Italia in austerità c'è dal 1992, come dimostrano gli avanzi primari che da allora produciamo ogni anno. Detta in un altro modo, dal 1992 le nostre spese per servizi e investimenti sono sempre state al di sotto del gettito fiscale. Ciò non di meno continuiamo a ripetere come un mantra che siamo indebitati perché abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità e che i sacrifici a cui siamo sottoposti sono la giusta punizione per i nostri stravizi.
Qualcuno dovrà ben raccontarlo agli italiani che dal 1992 abbiamo risparmiato 672 miliardi di euro e se abbiamo oltrepassato i 2000 miliardi di debito non è per effetto delle nostre serate galanti, ma degli interessi che dal 1980 ci sono costati 2230 miliardi di euro. Ma chi lo farà? Non certo i partiti, le televisioni o i giornali. A loro i cittadini servono acefali.
La nostra unica speranza risiede in noi stessi, nella nostra capacità di auto-organizzarci. Per questo il Centro Nuovo Modello di sviluppo ha lanciato la campagna «Debito pubblico decido anch'io» con lo scopo di favorire l'attività dei gruppi locali decisi a promuovere sul proprio territorio l'informazione e l'attenzione sul debito pubblico attraverso le iniziative più varie: dalle rappresentazioni teatrali ai giochi di strada, dai momenti informativi ai dibattiti in consiglio comunale, dal controllo popolare sui bilanci comunali, alle verifiche sulle gare d'appalto.
Il primo obiettivo della campagna è favorire i contatti. Spesso le iniziative stentano a decollare semplicemente perché i militanti di uno stesso territorio non si conoscono fra loro. Per questo, il Centro invita chiunque condivida la campagna a segnalare la propria disponibilità tramite il formulario approntato nella pagina della campagna «Debito pubblico decido anch'io» pubblicata nel sito www.cnms.it
I dati raccolti serviranno a facilitare la formazione dei nodi locali, a partire dai quali potranno essere organizzati corsi e scambi di esperienze a livello regionale e nazionale.

* Centro Nuovo Modello di Sviluppo

martedì 5 novembre 2013

Un’opposizione per la nostra Europa

Guido Viale - sinistrainrete -

Non siamo più, e da tempo, cittadini italiani; siamo sudditi di un “sovrano” che si chiama governance europea: un’entità mai eletta, che risponde solo al “voto” dei “mercati”. E’ un governo di fatto che definisce le politiche dei paesi dell’Ue che gli hanno ceduto la loro sovranità, fino a concedere, con l’accordo two-packs, un controllo preventivo sui propri bilanci. Se le cose stanno così – come ci ricorda il ritornello “ce lo chiede l’Europa” – per riappropriarsi della possibilità di far sentire la nostra voce, per restituire alle comunità capacità di autogoverno, occorre creare un’opposizione in ambito e di respiro europei.

Ma come colmare l’abisso tra le politiche imposte dalla governance europea e, per suo tramite, dalla finanza internazionale, e le istanze dei movimenti e delle mille organizzazioni che si battono, ciascuno a suo modo e spesso per proprio conto, per diritti fondamentali che i governi dei paesi dell’Ue stanno erodendo: dignità, lavoro, reddito, casa, salute, istruzione cultura, vecchiaia serena, accoglienza, rispetto della vita di tutti? C’è nella rivendicazione di quei diritti l’embrione di un programma comune in cui si riconoscerebbero facilmente i partecipanti alle manifestazioni sia del 12 che del 19 ottobre, che i rispettivi promotori hanno invece concorso a tener separate per cautele politiche e aggressività verbali in entrambi i casi inaccettabili (se si vuole tutte radunare le forze disponibili).

A questo programma di massima le elezioni europee della primavera prossima, come hanno sostenuto Alfonso Gianni e Tonino Perna, potrebbero fornire una prima occasione per riproporlo in tutti i paesi dell’Unione. I capisaldi di quel programma sono infatti già largamente diffusi e condivisi da un ampio arco di organizzazioni, anche se finora non sono ancora stati oggetto di un confronto diretto e non hanno quasi mai trovato espressione e rappresentanza in sedi istituzionali. Riguardano innanzitutto i diritti indicati precedentemente; poi la revisione radicale dei vincoli finanziari imposti dalle politiche di austerity che hanno colpito le economie, l’occupazione e le condizioni di vita nell’Europa mediterranea (per ora, ma il disastro si sta estendendo anche all’Europa centro-settentrionale). Riguardano in terzo luogo la riconversione ambientale del tessuto produttivo: sia per arrestare, con nuovi prodotti e nuovi mercati – soprattutto, ma non solo, di prossimità – la perdita di milioni di posti di lavoro e la chiusura di decine di migliaia di imprese grandi e piccole, condannate a morte dalla crisi, dalle politiche di austerità, dalle delocalizzazioni, dalla perdita degli sbocchi tradizionali; sia per creare nuove opportunità di lavoro e di impresa in attività dal futuro sicuro, perché servono a contrastare la catastrofe ambientale che incombe sul pianeta.

Il quarto punto è la emersione di una nuova classe dirigente – già in gran parte all’opera nelle pieghe dei movimenti, del volontariato e delle organizzazioni civiche – che sia espressione diretta delle istanze di rinnovamento che provengono dalle comunità in lotta e che si sia formata – anche tecnicamente – in questa nuova temperie. Perché la crisi in corso non dipende solo da politiche sbagliate; è causata soprattutto dal deterioramento morale e culturale dell’establishment europeo: non solo quello politico, ma anche quelli manageriali, imprenditoriali e accademici.

Ma il problema principale non è il programma; è la forza per metterlo in marcia. Dove trovarla? Non si può contare sulle forze politiche esistenti, o su una loro svolta radicale, a meno di una dissoluzione che ne liberi le componenti che aspirano a un vero cambiamento di rotta. Solo una crescita quantitativa e qualitativa degli organismi e dei movimenti che alimentano il conflitto sociale giorno per giorno può costituire un riferimento solido.

Molte e importanti esperienze ci forniscono un filo conduttore per unire le rivendicazioni e le buone pratiche più avanzate dei movimenti alla possibilità di dare una formulazione sintetica al progetto di un radicale rinnovamento della politica e dei suoi obiettivi; e anche alla possibilità di raccogliere intorno ad esso molte forze, sia sociali che morali e intellettuali, ancora in gran parte disperse. Questo filo conduttore è la promozione di una politica fondata sui beni comuni.

In Italia e in gran parte dell’Europa abbiamo di fronte due problemi di fondo: da un lato, imprese che chiudono, licenziano e non assumeranno mai più, mandando in malora patrimoni giganteschi di conoscenze, di esperienza, di consuetudine alla cooperazione, di vite distrutte; dall’altro, la necessità di offrire nuove opportunità all’esercito degli esclusi dal lavoro e dal reddito, o costretti a condizioni umilianti di subordinazione nella palude di un precariato senza prospettive. Si tratta dei giovani, i cui tassi di disoccupazione sono astronomici nei paesi dell’Europa mediterranea, ma in crescita anche nelle economie più solide; ma è una condizione che riguarda tutte le fasce di età: tanti e tante trenta-quarantenni (TQ) che nella loro vita hanno conosciuto solo precariato e tante e tanti cinquanta-sessantenni espulsi dal lavoro, a cui viene progressivamente sottratta la prospettiva del pensionamento. E poi i profughi e i migranti che, inseriti nel lavoro e nelle società, potrebbero portare un contributo decisivo sia allo sviluppo economico e culturale dei paesi europei che alla pacificazione dei loro; per contribuire poi insieme, quando potranno ritornare nelle loro terre, alla formazione di un unico grande popolo mediterraneo.

Ora, non si può continuare a intervenire sulle aziende in crisi delegando ai governi il compito di trovar loro un nuovo padrone. I nuovi padroni, quando si presentano, lo fanno solo – è esperienza quotidiana – per depredare l’azienda dei suoi capitali residui, del suo marchio, del suo know-how, delle sue attrezzature migliori, per poi lasciare i lavoratori sul lastrico. Non si può puntare sulle nazionalizzazioni o sull’intervento statale; e non certo per il fatto che l’Unione europea lo vieta. Su molte di quelle imprese gli Stati hanno fatto disastri non meno gravi delle gestioni private o privatizzate. E poi lo Stato italiano non dispone più, con la dismissione dell’IRI, di manager in grado di gestire un’impresa (tanto che ricorre sempre all’ottuagenario Bondi, che di disastri ne ha già fatti molti). Quelle aziende hanno bisogno di una nuova governance, composta dalle maestranze e dalle loro rappresentanze, dai governi locali e dalle associazioni di cittadinanza dei territori che le ospitano, dalle competenze messe a disposizione da università e centri di ricerca, in un regime che le riconosca come “beni comuni”, né private né pubbliche, ma a disposizione delle loro comunità di riferimento. Un programma che vale, a maggior ragione, per recuperare a una gestione condivisa i servizi pubblici locali: acqua, energia, trasporti, rifiuti, scuole, gestione del territorio; le chiavi della conversione ecologica.

L’altro problema centrale è la quantità di energie, intelligenza, creatività e aspettative degli uomini e delle donne escluse dal mondo del lavoro, che potrebbero contribuire alla rinascita culturale e produttiva dell’Europa e, innanzitutto, dei paesi dell’Ue più colpiti dall’austerity.

Per recuperare quelle energie bisogna sottrarle ai ricatti della miseria, della disoccupazione e del precariato, garantendo a tutti un reddito di base incondizionato: le risorse per realizzarlo sono molte meno di quelle che vengono dissipate in armamenti, grandi opere inutili, interessi sul debito pubblico, evasione fiscale, costi della politica. Ma una volta sottratte al giogo di una vita senza prospettive, la riappropriazione in forme condivise di beni comuni oggi inutilizzati o ceduti a operatori privati grazie ai favori della politica – case, edifici, monumenti, beni culturali, suolo urbano, terre pubbliche o incolte, spiagge, biblioteche, teatri, fabbriche e capannoni – insieme al sostegno finanziario e tecnico a progetti autogestiti di avviamento di impresa potrebbe liberare le energie necessarie per fermare il degrado con programmi di conversione ecologica condivisi e gestiti dal basso. Ovviamente, con il coinvolgimento delle comunità di riferimento e di governi locali sottratti al giogo del patto di stabilità e di sindaci e giunte sottratti ai richiami del business; cominciando dalla requisizione dei beni contesi. Ma solo grandi lotte e grandi mobilitazioni potranno avere questo esito. E’ un progetto di lunga lena, ma andiamo incontro a tempi difficili che richiederanno soluzioni estreme; sottometterlo oggi a un pubblico dibattito è un buon punto di partenza.

lunedì 4 novembre 2013

Alexis Tsipras (Syriza): l’Europa è in guerra

Fonte: blog di Maurizio Acerbo | Autore: Alexis Tsipras
               
Vi propongo la traduzione di alcuni estratti dell’intervento di Alexis Tsipras, presidente di Syriza, al Comitato Centrale che si è riunito domenica 20 ottobre 2013 ad Atene. Dopo l’agguato omicida contro militanti di Alba Dorata le parole di Tsipras diventano ancor più pesanti. Ricordo che Syriza aveva già denunciato nelle settimane scorse manovre di ambienti vicini al Presidente Samaras per scatenare una sorta di “strategia della tensione” e usare contro Syriza la vecchia arma degli “opposti estremismi” (qui trovate un articolo che ho tradotto e postato su controlacrisi). Nell’intervento di Tsipras si legge grande fiducia per la crescita di Syriza - ”è iniziato il conto alla rovescia per il grande rovesciamento” – ma anche una preoccupazione reale per la tenuta della democrazia in Grecia. Se in Grecia siamo arrivati alla strategia della tensione per fermare ascesa Syriza l’informazione italiana continua a parlarne pochissimo e in maniera superficiale o distorta (le tv italiote credo non abbiano mai intervistato Tsipras). Il fatto che la coalizione della sinistra radicale sia arrivata a un passo dalla conquista del governo – risultato sfiorato per un soffio nel 2012 – non entusiasma i nostri media, soprattutto quelli di centrosinistra. Un oscuramento che riguarda il complesso dei partiti della Sinistra Europea che hanno deciso di designare Alexis Tsipras come candidato alla presidenza della Commissione Europea alle prossime elezioni. Una notizia che per esempio Repubblica nemmeno ha pubblicato. Se in Italia abbiamo Grillo e non un Tsipras lo dobbiamo anche a Scalfari! [dal blog di Maurizio Acerbo]

Eccovi alcuni estratti del discorso di A. Tsipras:

“Compagni,
mentre il movimento progredisce, all’interno della aggrovigliata matassa di scontri politici e conflitti sociali, all’interno delle vittorie e sconfitte della lotta di classe e della sua influenza sulla realtà materiale e sulla mentalità delle persone, dobbiamo sempre discernere e individuare il punto decisivo, il punto chiave che ci aiuti a capire come procedono le cose, in modo da poter intervenire in modo decisivo.
Quale è questo punto oggi?
Sappiamo che la stragrande maggioranza di coloro che sopportano il peso opprimente del Memorandum hanno maturato, e continuano a maturare sempre più giorno dopo giorno, la convinzione che i loro sacrifici non li stiano conducendo a nulla, se non a nuovi sacrifici. Conosciamo la rabbia, la resistenza, la disperazione, le mobilitazioni, i movimenti, le esplosioni – tutti i fenomeni di una società che viene schiacciata sotto un’enorme pressione.
In una parola: sappiamo che i Memorandum non hanno alcun consenso sociale, che coloro che sono colpiti da essi li rifiutano.
Ed è proprio a causa del rifiuto del popolo, che una guerra sporca di paura, terrorismo, menzogne, estorsione internazionale e minacce interne è stata scatenata contro di loro.
Ma ancora oggi loro continuano a rifiutare i Memorandum. Punto. Come fanno sempre più persone, con più forza, ogni giorno.
Questo è il fattore decisivo, il fattore che ha generato cambiamenti radicali della scena politica e nell’equilibrio del potere politico.
Vi è, tuttavia, un elemento nuovo, che dobbiamo notare, valutare e prendere in considerazione, perché richiede più vigilanza, determinazione e un maggiore senso di responsabilità da parte nostra. Questo nuovo elemento è il seguente:
Oggi non sono solo le persone in basso che non vogliono i memorandum, ma anche quelli al vertice, che non riescono più a contenere le loro conseguenze. Non ce la fanno più. E questo è di enorme importanza. Il governo Samaras è consumato.
Questo governo è così violentemente contrario alla volontà della grande maggioranza del popolo, alla volontà della società, che viene eroso ogni giorno. Viene mangiato dai conflitti interni, frantumato da ripercussioni morali, e diventa sempre più sensibile al dispotismo, alla propaganda grigia e nera, all’uso della provocazione come arma politica, e anche alla limitazione della democrazia, proprio perché non riesce a governare in qualsiasi altro modo.
E più diventa lampante come i governanti non possano gestire la situazione, più pericolosi essi diventano. Se questa valutazione è corretta, e sono fermamente convinto che lo sia, siamo nel momento più delicato per il paese dalla fine della dittatura.
Abbiamo davanti a noi un governo che sta marcendo, così come stanno marcendo le istituzioni necessarie per assicurare la normalità democratica e l’equilibrio sociale. Un governo che è al suo ultimo respiro, e sostenuto con le stampelle straniere, con il risultato che la stessa democrazia è compromessa. Un governo che, tuttavia, come un contractor, deve completare il progetto di demolizione per cui è stato selezionato, con il supporto di usurai internazionali e profittatori nazionali, che vedono nei memorandum la loro grande occasione non solo per aumentare ma per consolidare i loro profitti, e per esercitare un controllo soffocante, totalitario e assoluto su tutto il paese.
Possiamo quindi aspettarci il peggio.
E dobbiamo essere pronti ad affrontare il peggio con calma e determinazione, con perseveranza democratica e la consapevolezza del fatto che tutti i mezzi saranno utilizzati per impedire alla sinistra e ai suoi alleati di conquistare il governo del paese.
La macchina è già pronta e attiva, gli scenari sono in fase di elaborazione, i piani del governo sono in preparazione per garantire che la stessa politica prevalga sotto qualsiasi nuovo governo. E per evitare le elezioni. Stanno già lavorando su nuove misure anti-democratiche. Un gruppo ristretto attorno al signor Samaras sta cercando di presentare Syriza come un nemico interno e di mobilitare le riserve da parte dello Stato e del para-giornalismo per diffondere insinuazioni, calunnie e dicerie infondate. Il loro piano è stato un fallimento totale. Perché eravamo pronti e vigili. Perché siamo stati determinati e saremo impietosi con quelli che vanno oltre i limiti della decenza. Ma anche perché il loro piano è stato contestato sia dalla maggioranza dei cittadini che dai loro stessi dirigenti di partito. Li invito a fare sul serio. Lo Stato non ha più i piani segreti anti-comunisti e anti-sinistra , né il contesto internazionale è quello che era negli anni 1950 e 1960. Niente assomiglia a ciò che hanno nelle loro menti. È per questo che si sono resi ridicoli.
Questi fatti, credo, determineranno anche la nostra tattica per l’immediato futuro. Il conto alla rovescia per il grande rovesciamento è iniziato. Il conto alla rovescia è iniziato per la Sinistra – per il blocco di forze sociali e politiche che propongono, lottano e combattono per un’altra politica, radicalmente diversa da quella di oggi – per assumere la loro grande responsabilità. Noi siamo già pronti ad assumerci le nostre responsabilità. E non permetteremo a nessuno di provare a fermare il progresso del paese verso una rivoluzione democratica. [...]
Compagni,
L’altro giorno a Madrid, il Partito della Sinistra Europea ha deciso di nominare il presidente di Syriza come proprio candidato alla presidenza della Commissione europea. Questa proposta ci onora molto. Io non sto parlando di me stesso, per il quale l’onore è evidente. Mi riferisco, soprattutto, a Syriza e naturalmente al nostro paese e alle lotte del nostro popolo, che sono riconosciute dai partiti della sinistra europea come avanguardia della resistenza popolare in tutta Europa. [...]
Molti mi hanno chiesto, dopo la nomina di ieri: Dove porterete avanti la vostra lotta, in Grecia o in Europa? Rispondo: l’Europa è in guerra. Una guerra economica con milioni di vittime. Le nostre nazioni non sono in lotta tra di loro. I popoli e le persone che lavorano sono in lotta contro il sistema finanziario internazionale, il capitale aggressivo e i banchieri.
Il fronte su cui si sta combattendo questa guerra è nel sud Europa, in Grecia.
Quindi, se i nostri compagni ci hanno onorato con la mia designazione a guidare la battaglia delle elezioni europee, una battaglia decisiva per l’esito della guerra, non è per rimuovermi dal fronte, ma per rafforzare il fronte. Qui, allora, dovremo combattere la battaglia. Sul fronte, in prima linea. Una battaglia che combatteremo nel nostro paese a nome di tutti i popoli d’Europa. Una battaglia contro l’austerità e i memorandum. Una battaglia per cambiare i rapporti di forza in tutta Europa, in modo che nessuna nazione dovrà sperimentare ciò che il popolo greco sta attraversando a causa dei memorandum. Una battaglia per fermare l’ondata di riaggregazione nazionale che si esprime in alcuni Paesi con movimenti di destra o di estrema destra.
È la decisione e l’aspettativa della Sinistra Europea che costruiremo un contrappeso alle politiche della signora Merkel. Che organizzeremo un blocco di forze per salvare l’Europa dalla austerità. Più forte è il blocco, meglio è per il popolo greco. Più forte è il blocco, peggio per quelli in ogni paese che hanno implementato e applaudito i memorandum.
Il messaggio è dunque questo: come la politica dei Memorandum e la sua austerità devastante è iniziata in Grecia, sarà dalla Grecia che sarà spianata la via per una nuova Europa, di giustizia sociale, lavoro per tutti e crescita al servizio dei bisogni dei popoli.
Testo originale lo trovate qui

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