Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

venerdì 22 novembre 2013

Crisi del debito: Se la Grecia dice no

Financial Times Londra
Finora il governo greco ha obbedito controvoglia alle richieste della troica. Ma con un'opposizione sempre più dura e una maggioranza ormai al minimo potrebbe presto decidere di disobbedire.
Che succede se un paese che ha ricevuto un bailout alla fine decide di rispondere no? Questa è la domanda che alcuni funzionari della troika dei prestatori internazionali ha iniziato a porsi al riguardo della Grecia. La coalizione di governo, dopo oltre un anno in carica contrassegnato da un’ostinazione crescente nei confronti delle richieste di riforme, continua a ripetere che non accetterà altre misure di austerità.
Sotto molti punti di vista la Grecia ha perduto la sua capacità di sorprendere. Quasi tutto il suo indebitamento è di proprietà dei suoi salvatori ufficiali – i governi europei, le istituzioni della zona euro e il Fondo monetario internazionale – e ciò significa che il mercato finanziario in genere le presta scarsa attenzione.
Le situazioni di stallo tra Atene e chi vigila sul suo bailout sono diventate così ordinarie che ormai hanno smesso di essere registrate a livello ufficiale, perfino in posti come Bruxelles e Berlino, dove i policymaker sono quanto mai sensibili a rilevare le stranezze delle performance greche.
Ma se l’esasperazione degli ultimi giorni, a stento nascosta tra i negoziatori di alto grado, sta a significare qualcosa, l’attuale round di trattative che si sta trascinando da due mesi pare rappresentare un cambiamento di tipologia, non soltanto di quantità.
All’apparenza, il contenzioso si concentra su un argomento familiare. Nel budget del governo greco per il 2014 si è aperto un gap di circa 1,5 miliardi di euro che deve essere risolto prima del prossimo versamento di aiuti. Il controverso programma delle privatizzazioni deve essere rivisto. Le riforme strutturali, come revocare la moratoria sui fallimenti ipotecari, devono essere approvate.
Atene, che non è mai stata una riformatrice entusiasta, ha ancora meno ragioni di prima per collaborare
Ma per quelli che lavorando al programma greco da anni sembra che qualcosa di fondamentale stia cambiando. Atene, che non è mai stata una riformatrice entusiasta, ha ancora meno ragioni di prima per collaborare. “Chiaramente i costi politici stanno diventano molto evidenti”, ha detto un negoziatore della troika. “Ormai c’è come un muro di opposizione”.
Certo, molto dipende dalla “fatica riformistica” che ha perseguitato la Grecia e altri paesi oggetto di bailout non appena i loro soccorritori li hanno aiutati. Ma i calcoli ad Atene hanno iniziato a cambiare con modalità che secondo alcuni potrebbero aver indebolito gli incentivi per un accordo.
La considerazione più ovvia per il governo greco è di natura politica. Anche se questo mese ha superato l'ennesimo voto di fiducia, la sua maggioranza parlamentare continua a diminuire, e ormai è arrivata ad appena quattro voti su 300 seggi.
A differenza del Portogallo, dove di recente la coalizione di governo ha superato un’agonia quasi fatale, in Grecia l’opposizione non è rappresentata da un partito tradizionale che in precedenza ha appoggiato il bailout. Il partito di sinistra Syriza ha intimidito i politici di sinistra di ogni formazione, facendo sì che tutti loro, compresi i sostenitori del Pasok, il partito tradizionale di centrosinistra e membro della coalizione di governo, si ribellassero al programma.
Syriza è considerata dai sondaggi il primo partito greco, mentre il Pasok è in completa agonia, dietro addirittura al partito neonazista Alba dorata. Qualsiasi cedimento nella coalizione di governo potrebbe benissimo significare la fine del programma di bailout così come noi lo conosciamo.

Non vi pago

Ma c’è un cambiamento ancora più grande nella situazione della Grecia, per quanto meno evidente. Il governo sta ricevendo più soldi di quelli che spende, al netto del pagamento degli interessi sul suo debito nazionale. Questo “surplus primario del budget” significa che ogni dollaro extra di tasse spremuto dagli elettori greci va a pagare i creditori.
Anche se i funzionari della troika sono in disaccordo e non chiariscono se questo è il motivo della mancata flessibilità odierna, dal punto di vista storico i governi che ricevono l’aiuto della comunità internazionale diventano di gran lunga meno pronti a collaborare una volta che riescono a pagare interamente le proprie attività di tutti i giorni. In realtà se Atene avesse una propria banca centrale a puntellare il suo settore finanziario ci sarebbero pochi incentivi anche per continuare a ripagare l’Ue e l'Fmi.
Gli incentivi sono cambiati anche per la zona euro. Molti credono che il sostegno e le barriere della zona euro serviranno a scongiurare che la crisi greca contamini il resto della valuta unica. La prossima grossa tranche dei risarcimenti della Grecia scade a maggio e andrà alla Banca centrale europea. Fino ad allora ci sono pochissimi motivi per concedere altri aiuti ad Atene.
All’interno della troika e dei ministeri delle finanze nazionali c'è sempre stato chi pensava che un’uscita della Grecia dalla zona euro fosse inevitabile. Finché Atene e i suoi creditori ufficiali non troveranno altri motivi per un compromesso, le loro paure peggiori potranno trasformarsi in realtà.
Traduzione di Anna Bissanti

Si signori, in Svizzera!!

Referendum salari equi in Svizzera, Ferrero: in Italia cominciamo da tetto a stipendi e pensioni
Referendum salari equi in Svizzera, Ferrero: in Italia cominciamo da tetto a stipendi e pensioni

Pubblicato il 21 nov 2013 - rifondazione -

In Svizzera il prossimo 24 novembre si vota un referendum sui salari equi, per introdurre il principio dell’1:12: vale a dire che nessuno, sia nel pubblico che nel privato, può guadagnare in un mese più di quanto in un anno guadagnano i dipendenti meno pagati nella stessa azienda. «È una lezione di civiltà assoluta – ha commentato Paolo Ferrero -: speriamo che gli svizzeri decidano di adottare questo provvedimento che pone un limite per legge alle disuguaglianze. Cosa ne pensa il Pd? In Italia, purtroppo, un referendum del genere ce lo sogniamo, non si può nemmeno presentare. Noi proponiamo di cominciare a mettere un tetto a 5mila euro alle pensioni d’oro e agli stipendi dei manager pubblici».

Spagna, in arrivo una legge per imbavagliare gli indignados

Fonte: Il Manifesto | Autore: Giuseppe Grosso
                
Il governo conservatore del Partido popular teme il dissenso e porterà in parlamento una proposta di legge studiata per mettere il bavaglio alle proteste, che in Spagna si susseguono sempre più numerose.
Nell'ultimo anno, infatti, non solo indignados, ma anche medici, studenti, professori e lavoratori della pubblica amministrazione sono scesi ripetutamente nelle piazze del paese per dire no alle politiche di austerità che il governo sta applicando in tutti i settori. Una tendenza che, però, potrebbe cambiare drasticamente.
+Se il pacchetto di norme «per la sicurezza cittadina» firmato dal ministro degli Interni Jorge FernándezDíaz dovesse passare (com'è probabile), partecipare a una manifestazione potrebbe, infatti, costare molto caro: da 30mila a 600mila euro, nel caso, ad esempio, di una protesta non autorizzatanei pressi diun edificio istituzionale.
Una misura, questa, disegnata ad hoc, per impedire che si ripetano le manifestazioni che l'anno scorso, in più occasioni, hanno radunato alle porte del parlamento migliaia di cittadini.
Ma i 55 articoli che, se approvati, sostituiranno la normativa socialista del 1992, prevedono dure sanzioni amministrative per quasi ogni tipo di protesta: gli escraches - i presidi pacifici sotto casa dei politici - saranno considerati un'infrazione grave dell'ordine pubblico e potranno essere multati anch'essi fino a 600.000 euro, in quanto, secondo il ministro, «atti minacciosi che si collocano al margine della legge pur non essendo finora classificati come reati».
Inoltre, con il fine implicito di prevenirli, la nuova normativa concede alla polizia la facoltà di istituire zone di sicurezza inaccessibili a mezzi e persone. Una limitazione delle libertà personali che i socialisti del Psoe hanno definito «un calcio in bocca alla democrazia degno di altri regimi».
A un mese dalla denuncia del commissario europeo per i diritti umani Nils Muinieks, che aveva richiamato il governo spagnolo «per l'uso eccessivo della forza durante le manifestazioni cittadine», arriva anche il giro di vite anche sulla diffusione di immagini riguardanti le forze dell'ordine.
La nuova normativa - che stride anche con il recente caso di ottopoliziotti catalani imputati, proprio grazie a un video, per la morte di un ragazzo a Barcellona - prevede multe di svariate migliaia di euro per chi diffonda foto, riprese o dati personali di agenti di polizia con la finalità di violare la loro privacy o di compromettere il loro operato.
Amnesty International, già a gennaio, aveva sollevato perplessità questo punto, recapitando le sue proteste al ministero degli Interni insieme a 60.000 firme per chiedere un'inchiesta sulla repressione della polizia durante l'accerchiamento del parlamento del 25 settembre del 2012.
«Con questa misura- ha dichiarato Ricardo Sixto di Izquierda Unida - il governo vuole dare una veste legale alla condotta violenta delle forze dell'ordine». «Tuttavia - ha proseguito il deputato -non bisogna dimenticare che la volontà di mettere la sordinaalle proteste,si scontra con la costituzione, che garantisce il diritto a manifestare».
Un diritto che, comunque, esce ridimensionato dal testo della proposta di legge, che il governo è già pronto ad attuare: nell'ultima finanziaria il budget del ministero degli Interni è stato aumentatodell'1,3%, in controtendenza rispetto agli altri dicasteri, che hanno subito, in totale, un taglio alle risorse economiche pari al 4,7%.

giovedì 21 novembre 2013

L'Europa in dissolvenza

di Sbilanciamoci!
 
Tra il no all'austerity e ai populismi che invocano l'uscita dall'euro, il nodo che resta irrisolto quello dell’efficacia dell’azione per il cambiamento: se le elezioni e le manifestazioni non funzionano, come si può “costringere” il potere economico e politico a cambiare strada?
Le politiche di austerità nate con l’ossessione per l’insolvenza sul debito pubblico, stanno portando l’Europa verso la dissolvenza: un’immagine sempre più sfocata e scomposta, col rischio di una dissoluzione del progetto europeo che non ha più il consenso dei cittadini.1
Nell’ultimo anno il dibattito politico ed elettorale nei paesi europei ha ovunque preso la strada di caratterizzazioni fortemente nazionali, dimenticando la questione comune della direzione che deve prendere l’insieme dell’Europa. In tutti i paesi – Italia compresa - le elezioni tenute nell’ultimo anno hanno portato a governi di grande coalizione. In Germania resta al potere Angela Merkel in coalizione con i socialdemocratici, con una politica di austerità per l’Europa che non è destinata a cambiare. In Olanda c’è ora un governo di coalizione tra liberali e socialdemocratici con la conferma del precedente primo ministro liberale. In Austria si è confermata la grande coalizione. La passata vittoria di François Hollande in Francia non ha mutato in modo significativo gli equilibri in Europa, la sua promessa di insistere sulla crescita anziché sull’austerità è stata dimenticata, e il governo registra una grave perdita di popolarità sul piano interno.
Allo stesso tempo si rafforzano in tutti i paesi le spinte populiste, anti-europee, di estrema destra, con prospettive di successo per forze come l’Ukip inglese, il Front National francese, il partito di destra tedesco anti-euro “Alternativa per la Germania”, l’estrema destra di Austria, Olanda e altri paesi. Si tratta di una deriva pericolosa alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo della primavera 2014. Nei prossimi mesi il rischio è che il dibattito contrapponga da un lato l’Europa dell’austerità – gestita quasi ovunque da governi di grande coalizione - e dall’altro il rifiuto dell’Europa in nome di populismi e nazionalismi.
Questa, tuttavia, non è una scelta obbligata. Esiste un’altra Europa possibile, fondata non sul mercato e la finanza, ma sul lavoro, sui diritti, sull’uguaglianza, sulla sostenibilità, sulla democrazia.
Hanno preso piede, invece, le spinte populiste contro l’Europa che guardano a un illusorio orizzonte nazionale come possibilità di uscita dalla crisi, affidandosi a misure come l’uscita dall’euro, la riduzione della spesa pubblica, un maggior sostegno alle vittime della crisi. Il segno dominante di queste posizioni in Europa è quello di un populismo di destra.2
Anche tra i critici “da sinistra” delle politiche di austerità è presente una posizione analoga che vede, in particolare, nell’uscita dall’euro la soluzione principale dei problemi attuali. È una discussione che occorre affrontare con la consapevolezza dell’insieme dei problemi che colpiscono oggi l’Italia e l’Europa.
È dall’inizio delle “controfinanziarie”, nel 1999, che Sbilanciamoci! critica il modello di integrazione europea fondato sui parametri di Maastricht, denuncia i limiti dell’Unione monetaria, gli effetti negativi per i paesi come l’Italia, chiede di limitare il potere della finanza. Da quando è scoppiata la crisi del 2008, queste critiche e le proposte di cambiamento sono state al centro di decine di rapporti, libri, e-book, “contro-Cernobbio” e iniziative politiche di Sbilanciamoci!, oltre al dibattito quotidiano sul sito www.sbilanciamoci.info, dove sull’Europa sono stati pubblicati centinaia di articoli.
Nella critica dell’Europa della finanza e dell’austerità si tratta di fare i conti con due questioni. La prima riguarda l’evoluzione della politica. L’ipotesi che ci fosse uno spazio per politiche dei governi nazionali e per una strategia dell’Europa capaci di introdurre una discontinuità col neoliberismo e di rovesciare le politiche di austerità non ha trovato conferme. L’esperienza deludente del governo socialista di François Hollande, la continuità con le politiche passate dei governi di grande coalizione in Italia come in Germania e l’insistenza di Bruxelles e Francoforte sulle politiche del passato mostrano l’immobilità della politica e delle élite europee e nazionali. Né le proteste sociali e sindacali, né l’opposizione politica, né qualche successo elettorale delle forze di centro-sinistra sono stati sufficienti a portare a un cambio di rotta, a livello nazionale come in Europa. Il risultato di questo perseverare in politiche sbagliate è l’aggravarsi della crisi, sei anni di depressione in Italia, la frattura crescente tra centro e periferia dell’Europa. Questi problemi sono destinati ad aggravarsi ulteriormente nel 2014, creando situazioni di disagio sociale e declino economico sempre più gravi e sempre meno governabili da una politica immobile.
La prospettiva di una politica di cambiamento, legata al progetto di Europa post-liberista, appare così bloccata dall’immobilità dei governi e delle istituzioni da un lato, e dall’altra dall’esiguità del consenso che nelle recenti elezioni hanno ottenuto le forze di opposizione – da sinistra - ai governi di larghe intese in Europa: in Italia Sinistra Ecologia e Libertà, la Linke e i Verdi in Germania, varie forze di sinistra e verdi in Olanda, Austria e Francia; l’unica eccezione è stata l’affermazione nel 2012 in Grecia di Syriza, arrivato a essere il secondo partito nel parlamento di Atene.
Sul terreno della politica elettorale a pagare non è la richiesta di un’altra Europa, ma l’anti-Europa. Il consenso elettorale, anche nei gruppi sociali più colpiti dalla crisi, va sempre più a forze populiste – in Italia il Movimento Cinque Stelle, ma anche forze del centro-destra. Questo riflette l’insoddisfazione per l’inadeguatezza della politica europea, ma anche la ricerca di risposte semplici a problemi complessi. Si cerca una “protezione” – da cui sono esclusi immigrati e gruppi sociali marginali - di fronte al peggioramento delle condizioni sociali, si immaginano autorità visibili e “vicine”, al posto di poteri lontani e incontrollabili.
Le proposte che ne risultano tendono a essere semplicistiche e illusorie. L’esempio più ovvio è buona parte del dibattito sull’uscita dall’euro e sul ritorno a monete nazionali come una soluzione automatica alla crisi. Si pensa a un ritorno a un passato immaginario dove i paesi hanno solide basi produttive, in cui la competitività può essere sostenuta attraverso la svalutazione della moneta, in cui i capitali restano comunque all’interno del paese, in cui non c’è rischio di attacchi speculativi, in cui tutto questo aumenta i gradi di libertà per le politiche economiche nazionali. Si trascura quanto sarebbe complicato il ritorno alle monete nazionali e quanta cooperazione europea sarebbe richiesta per realizzarlo.
La realtà, oggi, è che i capitali sono pienamente liberi di muoversi – ci sono 150 miliardi di euro di capitali italiani in Svizzera. La reintroduzione di monete nazionali offrirebbe una nuova facile preda alla speculazione, con il rischio di crisi valutarie che potrebbero avere effetti peggiori dell’attuale pressione sul debito, come ha mostrato la crisi asiatica del 1997-98. Con un quarto della capacità produttiva industriale perduta, l’Italia difficilmente potrebbe tradurre la svalutazione in forte crescita dell’export, mentre la dipendenza dall’estero non solo per le materie prime, ma anche per tutti i prodotti ad alta tecnologia significa che la svalutazione della moneta si tradurrebbe in un aumento dei prezzi che ridurrebbe ulteriormente i salari reali. Il rischio di una spirale fatta di svalutazione, inflazione, fuga di capitali, deficit estero e caduta della produzione potrebbe lasciare il paese in condizioni peggiori di quelle attuali. Anziché aumentare i gradi di libertà delle politiche, c’è il rischio che il ritorno a monete nazionali spinga la politica economica dei paesi in crisi a mettere al primo posto la stabilizzazione del cambio – com’è avvenuto con la crisi della lira nel 1992 – sacrificando ogni altro obiettivo.
Un obiettivo prioritario è quindi quello di “legare le mani” alla finanza e porre limiti alla mobilità dei capitali. Misure di questo tipo sono state introdotte dalla stessa Europa a Cipro dopo la crisi finanziaria del paese: il paese è rimasto nell’area euro, continua a usare la moneta comune, ma i capitali non possono uscire dal paese e servono a rifinanziare le banche e l’economia.
Per contrastare la finanza, le proposte sono ben note: una tassa sulle transazioni finanziarie ben più dura di quella introdotta finora che ridimensioni il settore, divieto delle attività finanziarie più rischiose e dannose per l’economia reale, limiti alle vendite allo scoperto, divisione tra banche commerciali e banche d’affari, vincoli più efficaci sull’operato delle banche, una ristrutturazione del settore bancario con un ruolo chiave di una banca d’investimento pubblica che indirizzi le operazioni verso l’economia reale anziché verso la finanza, la tassazione dei patrimoni finanziari e aliquote più alte per la tassazione delle rendite finanziarie.
Concentrare su questo obiettivo le richieste di cambiamento offrirebbe forse migliori spazi per una politica diversa. E la costruzione di ampie alleanze sociali e politiche per realizzare alcune di queste misure potrebbe essere più realizzabile. Con una finanza ridimensionata diventerebbe più agevole una riforma radicale dell’Unione monetaria e della Banca centrale europea e una rottura con le politiche di austerità, che sono gli altri due obiettivi fondamentali per realizzare un cambio di rotta.
Ma di fronte alla crisi europea, in effetti, il nodo irrisolto resta quello dell’efficacia dell’azione per il cambiamento: se le elezioni e le manifestazioni non funzionano, come si può “costringere” il potere economico e politico a cambiare strada per uscire dalla crisi?
La minaccia di uscita dall’euro ha qui l’immagine di un’”arma assoluta” capace di far saltare il sistema che ci ha portato alla depressione. Ma chi dovrebbe impugnarla? Gli attuali governi di larghe intese? Uno schieramento populista capace di vincere le elezioni? Gli stessi poteri forti dell’Europa che si liberebbero così dei disastrati paesi della periferia? Sono scenari che appaiono illusori quanto gli effetti risolutivi che a tale mossa vengono attribuiti.
Certo, se la crisi si aggravasse ulteriormente, potrebbero diventare inevitabili anche misure estreme, come l’uscita dall’euro e l’insolvenza sul debito pubblico. Ma il costo economico e sociale di misure di questo tipo in condizioni di emergenza sarebbe pesantissimo, innanzi tutto per le classi popolari.
Per realizzare un cambiamento di rotta, più concreta sembra la strada di costruire – senza scorciatoie - un’alleanza tra la “vittime” della crisi. Sul piano sociale, tra lavoratori di tutti i tipi – dipendenti e autonomi, precari e stabili, nativi e immigrati, giovani e vecchi, ricostruendo identità collettive e solidarietà sociali a scala europea. Sul piano economico, tra il lavoro e le imprese, contro il potere della finanza. Sul piano nazionale, tra i paesi della periferia messi ai margini dell’Europa. Un “vertice della periferia” in cui si incontrino movimenti sociali, associazioni, sindacati, forze politiche e, perché no, governi di Italia, Grecia, Spagna, Portogallo sarebbe un passo importante per dare visibilità e voce all’altra Europa che vogliamo, quella che può fermare l’Europa della finanza e dell’austerità, ma anche le pulsioni verso un ritorno di nazionalismi.

(1) Secondo il sondaggio di Demos, il centro di ricerca di Ilvo Diamanti, nel settembre 2012 la quota di italiani che dichiarano di avere moltissima o molta fiducia nell’Europa è al 36%, contro il 49% del 2010, prima che la speculazione colpisse l’Italia, e il 57% del 2000, prima dell’euro. Metà dei rispondenti tuttavia dichiarano che l’Italia starebbe peggio se fosse fuori dall’Europa e dall’euro (http://www.demos.it/a00759.php?ref=NRCT-43137808-2).
(2) In Italia l’affermazione del Movimento Cinque Stelle riflette questi stessi contenuti, con un posizionamento politico più confuso ed eterogeneo, la cui deriva nazionalista e conservatrice tuttavia è apparsa evidente con l’opposizione di Beppe Grillo alla cancellazione del reato di clandestinità previsto dalla Legge Bossi-Fini all’indomani della tragedia di Lampedusa nell’ottobre 2013. Si veda anche Roberta Carlini, Euro, l’uscita è a destra, (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Euro-l-uscita-e-destra-20724).
Il testo pubblicato costituisce un estratto della parte europea all'interno della Controfinanziaria.

La nostra Controfinanziaria

di Sbilanciamoci!
 
Con una patrimoniale, una tassazione sui capitali scudati e un'imposta maggiore sulle transazioni finanziarie, sarebbe possibile fare una sperimentazione sul reddito minimo garantito e avviare un piano del lavoro e di investimenti in istruzione e ricerca. Una manovra da 26 miliardi all'insegna della giustizia sociale. Cambiare è possibile, basta volerlo
A settembre 2013 la disoccupazione in Italia ha superato il 12%, quella giovanile il 40%. Dopo anni di recessione, le indicazioni che arrivano dal governo sembrano a senso unico: dobbiamo continuare a stringere la cinghia e accettare i piani di austerità e i vincoli macroeconomici imposti dalla Troika e dall'Ue. Il mantra ripetuto quotidianamente è che non ci sono alternative: è l'Europa che ce lo chiede. Come se l'Europa non fossimo anche noi. Come se l'Italia non potesse e dovesse giocare al contrario un ruolo da protagonista per chiedere una radicale inversione di rotta nelle politiche economiche, fiscali e monetarie dell'Unione Europea. Dopo due anni di austerità, non solo il paese è in ginocchio da un punto di vista sociale e produttivo, ma anche il rapporto debito/Pil continua a peggiorare. Dal 120% del 2011 abbiamo sforato il 130%, e in termini assoluti la soglia dei 2.000 miliardi di euro. L'andamento è lo stesso per tutti i paesi, e in particolare quelli del Sud Europa, costretti negli ultimi anni a passare dalle forche caudine dell'austerità. Misure non solo devastanti dal punto di vista sociale, ma nocive anche da quello macroeconomico. A segnalarlo è lo stesso Fmi che nelle parole dei media è arrivato a fare un “clamoroso mea culpa”: aggiustamenti fiscali, ovvero tagli alla spesa pubblica, nella maggior parte dei paesi provocano una caduta del Pil più veloce della riduzione del debito.
Ancora a monte, il discorso sulla riduzione del rapporto debito/Pil avrebbe un qualche senso se l'attuale situazione europea e italiana in particolare fosse legata a un “eccesso” di welfare e a uno Stato spendaccione e non, invece, all'onda lunga della crisi esplosa con la bolla dei subprime negli Usa nel 2008 e a un'Europa schiacciata su una visione mercantilista e subalterna alle dottrine neoliberiste. Un'Europa dei mercati, della moneta unica e della libera circolazione dei capitali senza un'Europa sociale, fiscale e dei diritti.
Quella della Troika è una risposta sbagliata a una diagnosi ancora più sbagliata. Non è vero che c'è un eccesso di welfare. Non è vero che la crisi è colpa delle finanze pubbliche. Non è vero che i Paesi del Sud Europa hanno le maggiori responsabilità. Non è vero che il rapporto debito/Pil è il parametro di riferimento da tenere sotto controllo. Non è vero che i piani di austerità funzionano per diminuire tale rapporto. L'austerità è il problema, non la soluzione. Eppure da parte dei burocrati europei, a metà 2013, nessun ripensamento, nessuna alternativa. Si continua ad applicare una teoria economica fallimentare con un'ostinazione che rasenta il fanatismo.
L'obiettivo di fondo diventa allora rispettare parametri del tutto arbitrari, ma che sembrano scritti nella pietra. Dati tali obiettivi, le variabili su cui giocare sono il welfare, i servizi essenziali, i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. Un dogma a senso unico che plasma le politiche economiche e ancora prima il linguaggio e l'immaginario collettivo. Gli impegni europei non si possono rimettere in alcun modo in discussione, ma per le spese sociali il ritornello è che “non ci sono i soldi”. Un'espressione che lascia intendere come tali spese siano da considerare un “lusso”, da finanziare unicamente se le risorse sono sufficienti, in caso contrario da sacrificare sull'altare dei diktat dei mercati finanziari.
Occorre chiarire da subito che tali obiettivi sono semplicemente irrealizzabili, a maggior ragione in questa fase di crisi, senza portare a un collasso del tessuto produttivo e sociale del nostro paese. Deve essere il gigantesco casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi a sottoporsi a rigide misure di austerità, non cittadini, lavoratrici e lavoratori che hanno già pagato, diverse volte, per una crisi nella quale non hanno alcuna responsabilità.
Ma ammesso e non concesso che si vogliano accettare i vincoli e le imposizioni della Troika, non è comunque vero che “non ci sono i soldi”. Con la legge di stabilità il governo propone al Parlamento e al paese delle scelte ben precise su come allocare le risorse pubbliche, ovvero i soldi delle nostre tasse. Scelte che hanno impatti di enorme rilevanza sulle nostre vite.
Dal 2001 la campagna Sbilanciamoci! mostra che delle decisioni radicalmente differenti sarebbero possibili, sia dal lato delle entrate, sia da quello delle uscite. Un sistema fiscale improntato a una reale progressività, come previsto dalla nostra Costituzione ma sempre più spesso smentito dai fatti. Maggiori spese destinate ai diritti, la pace, l'ambiente.
È quello che vogliamo mostrare anche quest'anno, con il presente rapporto e le decine di proposte che, numeri alla mano, mostrano un differente indirizzo di politica economica.
La nostra manovra è di 26 miliardi di euro, un importo decisamente consistente rispetto a quello previsto dal governo. Perché siamo convinti che nell'attuale situazione non è possibile limitarsi a piccoli interventi di facciata. Occorre operare una redistribuzione della ricchezza nel nostro paese. Occorre prendere i soldi dove ci sono, e impiegarli dove sono necessari.
Non è solo una questione di maggiore giustizia sociale: ridurre le inaccettabili diseguaglianze di reddito e ricchezza in Italia è un passaggio fondamentale per rilanciare la domanda e per uscire dall'attuale depressione economica. Non per ripartire inseguendo la crescita illimitata dei consumi, ma per uno sviluppo qualitativo, per un piano di investimenti di lungo periodo per una riconversione dell'economia in direzione di una reale sostenibilità economica e sociale.
Per andare in questa direzione, proponiamo quindi una patrimoniale, una tassazione sui capitali scudati, di migliorare la tassa sulle transazioni finanziarie, di bloccare le grandi opere, di tagliare le spese militari, i finanziamenti alla scuola e alla sanità private e ai Centri di identificazione ed espulsione. E proponiamo di usare tali risorse per una sperimentazione sul reddito minimo garantito, per avviare un piano del lavoro, per gli investimenti nell'istruzione, nella ricerca, nella cultura, nelle politiche di assistenza e di inclusione sociale, nella tutela dell'ambiente e dei beni comuni, nella mobilità sostenibile, nel rilancio dell'edilizia popolare pubblica e nel sostegno alle forme di altraeconomia, dalla finanza etica ai Distretti di economia solidale.
La nostra è una manovra che assume come priorità la lotta alle diseguaglianze. Una manovra che va in direzione diametralmente opposta a quella del governo, che garantisce enormi sconti sulle multe che devono pagare i gestori di slot-machine e propone una “valorizzazione” del patrimonio pubblico per fare quadrare i conti. In un emendamento il Pdl – è bene ricordarlo, un partito al governo – chiede di vendere le spiagge. Il premier Letta ha annunciato un piano di privatizzazioni da 20 miliardi in tre anni. Dopo i disastri delle passate privatizzazioni (pensiamo a Alitalia, Ilva, Telecom solo per fare alcuni esempi) invece di pensare a un piano industriale e di rilancio dell'occupazione, si continua con la stessa ideologia. Svendendo le ultime partecipazioni ai mercati finanziari per fare cassa. Proseguendo sulla stessa strada di disuguaglianze, della finanziarizzazione e del declino del sistema produttivo che ha caratterizzato gli ultimi anni. Per questo abbiamo deciso, anche nel rapporto di quest'anno, di mostrare che un percorso diverso sarebbe possibile.
La nostra manovra di 26 miliardi di euro si chiude con un saldo praticamente nullo. Non prendiamo per buone le ricette che ci arrivano da questa Europa, a partire dall'assurdità di cambiare la nostra Costituzione per inserirvi il pareggio di bilancio. Al contrario. Chiediamo un impegno forte dell'Italia, per chiedere all'Europa un radicale ribaltamento delle priorità. Nello stesso momento questo cambiamento di rotta può e deve partire dalle politiche nazionali. “È l'Europa che ce lo chiede” è una foglia di fico sempre più improbabile e improponibile. Altre scelte sarebbero possibili da subito anche qui in Italia, se ci fosse la volontà di attuarle e di intraprendere una differente politica economica. Per un'Italia capace di futuro.
Il testo pubblicato costituisce l'introduzione delXV Rapporto annuale di Sbilanciamoci!, “Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente”.

Chi vuole la fine dell'Europa?


    
Non siamo per "nessuna Europa", ma per "un'altra Europa". E qui è la differenza da tenere alta, come uno scudo contro gli schizzi di stupidità [Giulietto Chiesa]

 
di Giulietto Chiesa. - megachip -

A maggio 2014 si vota per un nuovo Parlamento Europeo. Difendere questa Europa è impossibile. È divenuta una struttura autoritaria, che conserva solo un cerimoniale democratico. Maggiordomi, camerieri, camarlenghi, servitori di camera, affaristi, campanari, prostituti, talvolta semplici illusi che vengono guidati per mano da lobby potenti e astute. Che fungono a copertura per poteri che nessuno ha mai eletto e che non desiderano neppure di essere eletti: non ne hanno bisogno per comandare.

Dunque questa Unione Europea è da combattere con tutte le forze di cui disponiamo. Senza alcun dubbio: questa è un'Europa contro i popoli. Un'Europa delle banche e dei mercati. Un'Europa che prepara guerra e si nutre di ingiustizie.

Ma noi non siamo per "nessuna Europa", siamo per "un'altra Europa". E qui è la differenza da tenere alta, come uno scudo che ci impedisca di essere insozzati dagli schizzi di stupidità, nei prossimi mesi. Perché è ormai pieno di partiti e movimenti, in tutti i paesi europei, che puntano direttamente e semplicemente a cancellare l'Europa. In nome non dei popoli, ma di un nazionalismo di ritorno, virulento, ottuso come sempre lo sono i nazionalismi, xenofobo, separatista, bellicoso.

Noi non intendiamo confonderci con questa robaccia di scarto. Ma saremmo ingenui se la sottovalutassimo. Perché cresce come la gramigna, come la spazzatura e i rifiuti che sono ormai troppi. Ed è spazzatura che già cerca di organizzarsi in sistema anch'essa. Da nord a sud cresce dappertutto.

È la risposta reazionaria alla reazione finanziaria che ci governa. Dal partito dei Finnici, al Fronte Nazionale di Marine Le Pen (già in testa ai sondaggi); dal Partito (razzista) della Libertà dell'olandese Geert Wilders, ai Democratici Svedesi, al Vlaams Belang; dallo Jobbik ungherese all'Alba Dorata greca. Per arrivare ai più rispettabili (si fa per dire) Independence Party britannico, e alla Alternative Für Deutschland. L'elenco è più lungo. Ve la figurate un'Europa fatta di staterelli più o meno grandi, che chiudono le frontiere interne, che cominciano a disputarsi territori contesi, che deportano gl'immigrati, che segregano le minoranze etniche e linguistiche al loro interno. Saremmo in un inferno, altro che Erasmus!

Tutti questi partiti e movimenti - l'avrete notato - si muovono con la bandiera innestata dell'uscita dall'Europa e, naturalmente, dall'euro. Ora, tutti sappiamo che l'euro è diventato una tagliola, un cappio scorsoio che c'impicca. Ma che sia l'euro la causa di tutto questo non lo credo. La crisi del debito non è nata con l'euro e uscire dall'euro non ci salverà. Ma l'offensiva contro l'euro è la scorciatoia demagogica più semplice. Tanto semplice che, in Italia, chi la sceglie si troverà a fianco della Lega e di Berlusconi, o dei suoi epigoni. Compagnia sgradevole.

Noi in quella compagnia, insieme ai vari Paragone di turno, che, venendo dalla Lega, si portano dietro tutto il suo liquame, e che adesso cavalcano il ronzino più comodo per darla a bere al gonzo, in quella compagnia non vogliamo andare.

Forse (ma non credo) resteremo in minoranza. Ma - in questo caso - meglio soli che male accompagnati. Io voglio un'Europa democratica e solidale, e giusta e pacifica. E forte abbastanza per contare nell'arena mondiale. La voglio libera da ogni alleanza militare. Nessuno dei nemici giurati dell'Europa e dell'euro dice queste cose. E questa è la ragione principale che mi fa diffidare di loro. Di tutti, siano essi di destra o di sinistra.

Grandi recessioni a confronto: produzione industriale

 

Spesso si paragona l'ultima recessione a quella del 1929. In realtà hanno avuto una dinamica diversa
 
Si è spesso paragonata l'ultima Grande Recessione alla famosa Grande Depressione del 1929. In realtà le due crisi hanno avuto una dinamica assai differente, con una caduta del prodotto più pronunciata nel 1929 seguita però da una ripresa più robusta. A sei anni dall'inizio delle due crisi, per molti paesi il recupero nel prodotto è però simile. L'ultima crisi si sta purtroppo protraendo con una dinamica di crescita nella fase di ripresa molto insoddisfacente.
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Trattato Ue-Usa: Le aziende dettano legge


Mentre riprendono i negoziati per l’accordo transatlantico di libero scambio, l’Europa è preoccupata dall’introduzione dell’arbitrato, una pratica che aggira le procedure legali e potrebbe minare la sovranità statale e le leggi a tutela dei consumatori.
Immaginate se a dover prendere le decisioni su svariati milioni di entrate fiscali non fossero i politici o i giudici, ma tre avvocati che lavorano a porte chiuse e sull’operato dei quali non è previsto alcun tipo di vigilanza ufficiale.
L’anno scorso, senza che intervenisse un solo magistrato, all’Ecuador è stato imposto di pagare 1,3 miliardi di euro a una società petrolifera statunitense. Cose del genere accadono decine di volte ogni anno e sono rese possibili dai trattati di investimento tra i paesi, secondo cui in caso di contenzioso le aziende coinvolte possono ricorrere all’arbitrato senza un regolare processo giudiziario.
L’Unione europea sta pensando di adottare questa forma di arbitrato sovranazionale per il trattato di libero scambio con gli Stati Uniti. I negoziati al riguardo sono ripresi l’11 novembre, dopo uno primo round svoltosi a giugno. Si sta dunque discutendo di centinaia di questioni che ostacolano i commerci. Ma in questo momento Bruxelles è preoccupata in modo particolare dall’arbitrato.
“Stiamo buttando via la nostra sovranità”, dice Monique Goyens, direttore dell’organizzazione dei consumatori europei Beuc. “È inaccettabile che le aziende possano essere in grado di esercitare questo tipo di potere a porte chiuse”, dichiara l’europarlamentare laburista britannico David Martin. “Dobbiamo chiederci se è proprio quello di cui abbiamo bisogno”, gli fa eco la sua collega liberale Marietje Schaake (del partito olandese D66, membro del raggruppamento europeo Alde).
Una fonte Ue di alto grado a conoscenza delle trattative in corso ha confermato che l’arbitrato è in agenda, ma aggiunge che “al riguardo non è stato ancora deciso nulla”. La Commissione europea si preoccupa per le voci che circolano: il fiasco dell’Acta, il trattato internazionale che doveva combattere la pirateria online, è ancora molto vivo nei ricordi di tutti. L’anno scorso il Parlamento europeo lo respinse dopo la protesta dei cittadini preoccupati per le leggi sulla pirateria.
Il concetto di risoluzione delle controversie tra investitori e stati (Investor-state dispute settlement, Isds), la denominazione data a questo tipo di arbitrato, non è del tutto nuovo: all’epoca fu messo a punto per gli investimenti in paesi a rischio, quasi una sorta di assicurazione nei confronti di rivoluzioni ed espropri.
I Paesi Bassi sono un protagonista di primo piano in questo sistema, in quanto hanno un bel po’ di trattati bilaterali sugli investimenti (98). Qualsiasi paese al mondo può appellarsi a tali trattati, e per farlo è sufficiente che appenda su un edificio di quel paese una targhetta d’ottone con il nome di una sua azienda. Tra il 1993 e il 2012 ci sono stati oltre 500 casi di arbitrato tra aziende e stati, la maggior parte negli ultimi dieci anni. Soltanto nel 2012 se ne sono avuti 60 nuovi.
Le critiche però sono in aumento, perché le multe salgono di volta in volta. Secondo la politologa Cecilia Olivet – che lavora per l’Istituto transnazionale, un think tank di sinistra che ha studiato questo meccanismo – l’arbitrato è diventato un modo per esercitare pressioni sugli stati che desiderano irrigidire le proprie leggi, perché abbandonino l’idea o sborsino un risarcimento.
L’anno scorso, quando la Germania ha deciso di chiudere le proprie centrali nucleari in seguito al disastro di Fukishima, ha ricevuto l’ordine di versare 700 milioni di euro a una società energetica svedese, la Vattenfall, che aveva firmato un trattato bilaterale di investimenti. L’Australia deve rispondere a un tribunale per gli arbitrati della sua decisione di varare una legge più restrittiva sull’uso del tabacco.
“Questo meccanismo è intimidatorio e può ostacolare la difesa dei consumatori”, dice Goyens di Beuc. Secondo lui i regolamenti riguardanti l’ambiente e la salute pubblica spesso si basano su visioni progressiste, su nuove prove scientifiche. Le aziende dovrebbero essere risarcite per questo? Il mese scorso Beuc ha chiesto che l’arbitrato fosse stralciato dai negoziati in corso tra Ue e Usa.

Garanzie per gli investitori

Un numero sempre crescente di paesi nel resto del mondo si sta ribellando a questo meccanismo: il mese scorso il Sudafrica ha cancellato tre trattati di investimento che aveva sottoscritto con Paesi Bassi, Germania e Svizzera. L’Australia intende revocarne alcuni.
Perché dunque l’Europa discute di ciò? “Senza le garanzie fornite da questo meccanismo non si troveranno investitori”, dice un portavoce della Commissione europea. “Questo meccanismo ha dimostrato di essere efficace. Dopo tutto, non si tolgono i semafori soltanto perché si verificano meno incidenti”.
In un recente memorandum la Commissione ha ammesso che occorre stare in guardia da possibili illeciti: gli avvocati lavorano sia per gli stati sia per le aziende. E oltretutto questo è un mondo di specialisti, nei quali tutti conoscono tutti. Bruxelles chiede quindi un “codice di comportamento di più vasta portata”.
Gli avvocati devono rivelare proattivamente qualsiasi rischio di un conflitto di interessi. Le udienze devono essere a porte aperte. Ma Olivet dubita che tutto ciò possa essere sufficiente. “Un codice di comportamento è utile soltanto se è vincolante, se prevede multe e sanzioni. Oltretutto, resta ancora da capire se gli Usa lo accetterebbero”.
L’europarlamentare Marietje Schaake non è contraria all’arbitrato, ma in questo caso dubita della sua efficacia: gli Usa e l’Ue non sono repubbliche delle banane, hanno i migliori sistemi legali al mondo e già senza l’arbitrato sono gli uni per l’altra i migliori partner commerciali possibili.
La risposta dell’organizzazione degli imprenditori Vno-Ncw è che a Bruxelles resta poco da scegliere. Più avanti, sempre questo mese, avranno inizio i negoziati per un accordo commerciale con la Cina, paese nel quale gli investimenti sono meno sicuri. Eliminare di proposito il meccanismo dell’arbitrato in un trattato e non nell’altro potrebbe essere considerato dai cinesi un vero affronto.
Traduzione di Anna Bissanti

mercoledì 20 novembre 2013

L`8 dicembre non finisce la storia

Alfredo Reichlin - L'Unità                          

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Il modo come si sta svolgendo il congresso del Partito democratico suscita in me seri interrogativi. Si conferma - a mio parere - l`errore di un vecchio disegno di «americanizzazione» del partito.
 Il Pd stia attento, l`8 dicembre non finisce la storia 
Cioè un modello di partito «pigliatutto», elettorale, senza identità culturale e senza storia. Tutto ci dice che questo modello non funziona e quanto sia profonda la svolta anche etica che è necessaria. È la ragione per cui Gianni Cuperlo mi sembra il segretario più adatto. Gli episodi (pochi?) di «truppe cammellate» portate a votare per falsare i risultati ci dicono quanto questa svolta sia urgente. Non mi piace la falsa indignazione di certi «indignati». Quale ipocrisia. Certo, pesano gli errori che abbiamo fatto noi, ma mi viene voglia di dire: non era questo che volevate? A cosa tende la martellante campagna contro questo «vecchiume» che sarebbe il partito organizzato, basato su una comunità sia pure aperta ma che sta insieme per ragioni politiche e ideali? È grave questo disprezzo verso i famosi «apparati», i quali semplicemente non esistono. Esistono invece, ancora (ma per quanto?) migliaia di militanti che tengono in vita i circoli e anche lo scheletro minimo del partito insieme a pochi funzionari e segretarie pagati poco e con mesi di ritardo. Esiste (anche nel mio circolo) un gruppo di volontari i quali cercano spesso i soldi per pagare la luce.

Così stanno le cose. Stanno nel senso che si è creato uno squilibrio enorme tra la povertà del partito come comunità politica volontaria, e la potenza del potere economico. Penso a quei «quasi partiti» che sono diventati in Italia i 3-4 grandi complessi editoriali (giornali e tv). Sono questi oggi i veri partiti personali, proprietà di pochi notissimi miliardari. In questi partiti non si fanno «primarie», ma si pretende di scegliere il segretario del Pd. Conosco la risposta: è la libertà di stampa, bellezza. Lo so. C`è però un problema di democrazia. La democrazia. Dopotutto è questa la partita che si gioca al congresso del Pd. Rispettiamo tutti i sondaggi ma penso che prima o poi verrà fuori il bisogno di una democrazia più avanzata, più aperta e più partecipata. Più capace di portare a compimento la rivoluzione democratica italiana avviata tanti anni fa dall`antifascismo e definita negli articoli della Carta costituzionale e poi messa in causa dai fatti e dalle persone che sappiamo. Mi sembra questo, caro Fioroni, il patto fondativo del partito che non a caso chiamammo democratico. Un partito, non un comitato elettorale nel quale gli epigoni del socialismo e quelli del riformismo cattolico si univano non per diventare più moderati ma per realizzare i propri ideali andando oltre i vecchi confini delle vecchie ideologie. Questo voleva essere il Pd, un partito nuovo che rappresentava anche la sinistra democratica e occupava il suo spazio. Le parole valgono quello che valgono ma se la parola «sinistra» fa paura, io allora la rilancio perché mi sembra che diventi sempre più attuale. State attenti amici a non sbagliare.

La storia non finirà l`otto dicembre. La sinistra italiana non è un reperto del Novecento, non è un prodotto scaduto perché fuori del tempo. Qui è il vostro sbaglio. Quale tempo? Certo, lo vediamo, questo è anche il tempo del populismo e della democrazia ridotta a sondaggio. Ma è pure il tempo di quelle sfide nuove ed enormi che stanno cambiando il destino degli europei. Quale idea di sé e del suo ruolo ha una sinistra moderna? Questo mi sembra il problema che le cose stanno riproponendo sia in Italia che in Europa. È chiarissimo: la destra non riesce più a difendere il progetto europeo, e sta mettendo in pericolo perfino l`euro. Occorre una svolta. Non solo una immagine. Del resto l`attacco così violento che è in atto (li guardate i talk show televisivi?) volto a delegittimare il Pd e a giustificare Grillo come si spiega se non col fatto che l`Italia è giunta a un punto che rende inevitabile prima o poi una svolta? Berlusconi è giunto al termine della sua corsa e ciò apre nuove prospettive. D`altra parte il governo delle «larghe intese» non è eterno. In che direzione andrà il cambiamento? La presenza di una forza pur così malconcia come la nostra, e tuttavia diversa e relativamente autonoma rispetto ai poteri dominanti, presenta un rischio. Per loro. Per noi invece è una grande occasione. Però bisognerebbe coglierla. Ecco perchè io dico che l`8 dicembre non è la fine della storia. Il gioco è più lungo. L`importante è che la sinistra acquisti una più forte coscienza di sé nel mondo di oggi. Sarebbe positivo per tutti i democratici che si crei un insieme di forze politiche e culturali decise ad uscire dalla confusione e dall`incertezza di questi anni. Una forza convinta della necessità che all`interno delle regole di un partito plurale come il Pd una nuova sinistra moderna abbia una sua voce forte. È interesse di tutti riempire il vuoto lasciato dal fallimento disastroso del pensiero conservatore e neo-liberista. In caso contrario penserà a riempire questo vuoto una torbida ondata di protesta e di populismo. Vogliamo tornare a vincere? Certo, ma per vincere bisogna fare i conti con la realtà.

E allora siamo semplici. Allora non bastano le chiacchiere, bisogna partire dalla catastrofe del capitalismo finanziario e dalle sofferenze inaudite che ciò sta imponendo agli uomini e alle donne in carne ed ossa. Voi pensate che sia vetero comunismo partire dalla tragedia che sta vivendo la nuova generazione, messa ai margini, esclusa dal mondo del lavoro? Di che parliamo? Certo, anche di Renzi, come di Cuperlo e con molto rispetto. Ma sapendo che la sinistra è in crisi non perché è vecchia rispetto a Twitter ma perché non osa partire da qui, dal popolo, dalle sofferenze umane, dalle ingiustizie sociali. La sinistra conta poco non solo perché non è alla moda ma perché non si riorganizza per mettere in campo una nuova soggettività, una chiara distanza tra «noi» e «loro». Parlo della potenza soverchiante di una oligarchia finanziaria che si arricchisce stampando anche moneta fasulla. Il mondo inondato di debiti e una gigantesca rendita finanziaria che si mangia la ricchezza reale e costringe la povera gente a stringere la cinta per finanziare i lussi inauditi di una oligarchia. Non può più durare.

Rileggo queste mie parole e mi spavento. Sono diventato un estremista? Eppure io non voglio tutto o niente. Capisco tutte le tattiche e i compromessi necessari. Sento però acutamente il bisogno di risvegliare la mia e le nostre coscienze. Penso che senza una più alta coscienza delle cose e delle sfide nuove non si va da nessuna parte. Il tema di fondo è ormai chiaro. Se non si afferma un partito europeo che affronti la questione di come cambiare la politica che sta portando al declino il vecchio Continente, l`Italia non avrà futuro. È da ciechi non vedere che questo dovrebbe essere il centro del congresso del Pd.

L`«americanizzazione» del Pd è sbagliata Non ci serve un partito elettorale senza identità.
 La sinistra conta poco perché non mette in campo una chiara distanza tra «noi» e «loro».

martedì 19 novembre 2013

Il governo dell’uomo indebitato

di Marco Bascetta  - sinistrainrete -

È dall’inizio della crisi e poi con sempre crescente insistenza che in Europa si sente parlare di «virtù». Ne parlano i governi, ne parlano gli organismi dell’Unione, ne scrivono quotidianamente gli editorialisti della grande stampa. Di espressioni come «paesi virtuosi», «politiche virtuose», «bilanci virtuosi», «comportamenti virtuosi» siamo letteralmente subissati. Il ritorno alla virtù è la promessa che i governi «responsabili» rivolgono ai mercati , alla Bce, alle agenzie di rating, a Berlino e a Bruxelles e, paradossalmente, anche alle proprie cittadinanze per le quali la vita virtuosa si traduce perlopiù in una vita grama fatta di bassi salari e disoccupazione, di smantellamento dello stato sociale e consumi declinanti, di un divario sempre più abissale tra i primi e gli ultimi, di una desolante mancanza di prospettive. Del resto, il connubio tra povertà e virtù è un tema classico della predicazione d’ogni tempo.

Vizi come virtù


C’è davvero da rimpiangere, nel dilagare di queste retoriche del sacrificio virtuoso, quella narrazione delle origini (suggestivamente riassunta ne La favola delle api di Bernard de Mandeville,1704) che faceva onestamente discendere il rigoglio dell’industria e dei mercati dai vizi e dall’avidità che mettevano – e tutt’ora mettono – in movimento la macchina economica. La parola d’ordine della virtù potrebbe fungere da leitmotiv del Governo dell’uomo indebitato, come recita il titolo che Maurizio Lazzarato ha scelto per il suo secondo lavoro dedicato alla centralità del rapporto creditore/debitore nel mondo contemporaneo (Deriveapprodi, Roma 2013). Il debito non è, infatti, un puro e semplice rapporto economico, nemmeno una obbligazione giuridica, ma una vera e propria forma di governo che combina la coercizione esogena con l’interiorizzazione di una colpa, di una dipendenza, di uno stato di assoggettamento, determinando la condizione presente e ipotecando quella futura. E che segna un passaggio decisivo nell’appropriazione capitalistica dalla centralità del profitto, che ha dominato i due decenni della ricostruzione postbellica e del boom, a quella della rendita e dell’imposizione fiscale. La prevalenza di queste due forme e la loro interrelazione mettono fine alla favola liberale dello «stato minimo» come condizione principale della libertà e della dinamicità di impresa e della conseguente emancipazione degli individui da antiche condizioni di servitù. Rivelando, al contrario, il ruolo decisivo dello stato nel garantire le condizioni dell’accumulazione e la continuità della rendita finanziaria. Mostrandoci come la logica deterritorializzata del capitale non possa darsi senza riterritorializzazione statatale. Cosicché è addirittura uno «stato massimo» quello che ci troviamo di fronte nel governo della crisi, nonché una mutazione sostanziale della «governamentalità».

Diversamente da quella natura flessibile e adattabile al mutare delle circostanze, plastica e interlocutoria che le aveva attribuito Michel Foucault, essa assume oggi i tratti «dell’imposizione, del divieto, della norma, della direzione, del comando, dell’ordine e della normalizzazione». In poche parole, «la governamentalità diventa, in maniera irreversibile, autoritaria».

Questo processo che possiamo agevolmente osservare nelle minuziose regolamentazioni imposte dagli organismi dell’Unione europea, nel proliferare degli strumenti di valutazione e controllo in ambito nazionale e sovranazionale, nei vincoli sempre più stretti imposti dai trattati e dalle direttive comunitarie, ma anche nell’azione crescentemente invasiva che i governi nazionali esercitano sulle condizioni di vita e sulle residue libertà delle rispettive cittadinanze, ci suggeriscono due conclusioni. La prima è quanto sia patetico invocare la protezione dello stato-nazione (peraltro estinto da un pezzo), o dello stato sociale che gli è succeduto, contro i meccanismi di valorizzazione del capitale globale e i suoi tentacoli finanziari. La seconda è chiederci se non dobbiamo abbandonare del tutto il concetto di governance, se, insomma, nelle nuove condizioni di accentramento, parlare in generale di «governamentalità» abbia ancora un senso.

In realtà, anche nella sua versione autoritaria, la «governamentalità» ci dà ancora conto dell’articolazione del comando su più livelli e della fittissima rete di regole che presiede al funzionamento del mercato. Inoltre la tirannia del debito non poggia solo sull’interiorizzazione di una colpa, sull’organizzazione della propria vita in termini di restituzione infinita di ciò che si è ricevuto (dal sistema del credito bancario, secondo la versione liberista, dal sistema sociale, secondo l’economia eterodossa di Aglietta e Orléan), ma anche sul fatto che il rapporto creditore/debitore attraversa e lacera lo stesso soggetto. Il risparmiatore e il salariato si fronteggiano e si combattono all’interno della medesima persona.

La pervasività del sistema finanziario ci ricorda minacciosamente di essere anche beneficiari di ciò di cui siamo vittime, ci avverte che se l’imposta non salverà le banche dal fallimento saranno prima di tutto i nostri soldi ad andarci di mezzo. Va da sé che il «risparmiatore», salariato o pensionato che sia, è saldamente conficcato in un sistema di regole su cui non esercita alcun controllo. La governance ideologica e materiale di questa condizione si è però rivelata capace, almeno fino ad ora, di mantenere, soprattutto il declinante ceto medio, in uno stato di attonita rassegnazione e di sufficiente fedeltà elettorale ai partiti della «virtù» solvente e alle loro «grandi intese».


Debito politico


Il governo dell’uomo indebitato è nel senso più pieno e proprio un governo politico. Il suo strumento principale è l’imposta e, naturalmente, l’apparato coercitivo necessario a riscuoterla. Scrive Lazzarato: «Decidendo chi deve pagare (i non responsabili della crisi) e dove deve confluire il denaro raccolto (ai creditori e alle banche responsabili della crisi) l’imposta garantisce la riproduzione in tutto e per tutto politica di un’ ‘economia’ e dei suoi rapporti di potere». Il suo scopo non è il risanamento dei bilanci ma appunto la riproduzione perenne di questa asimmetria. Gli zelanti predicatori della «virtù» si sforzano invece di sostenere in ogni modo che tutti siamo responsabili della crisi, avendo preteso di «vivere al di sopra dei nostri mezzi». Tradotto significa che, attraverso il conflitto, i soggetti sociali avevano dirottato a favore del miglioramento delle proprie condizioni di vita risorse sottratte alla valorizzazione capitalistica (con sommo disappunto dei mercati), e che ora il governo della crisi ad essa intende ricondurle con ogni mezzo necessario.

Attraverso una vera e propria guerra di classe dall’alto, condotta da quell’unica classe che si è «ricomposta intorno alla finanza, intorno al potere della moneta di credito o al denaro come capitale». Per spiegare la quale ritorna più utile Carl Schmitt e l’accento posto sulla priorità della decisione politica che non i tanti analisti dell’economia di mercato impegnati nell’improbo compito di restaurarne la presunta razionalità.

Di fronte al blocco della valorizzazione del capitale, alla paralisi degli automatismi economici innescata dalla crisi, il neoliberismo rimette in campo la sua «politicità» in forma di stato «massimo», di ipertrofia della regolamentazione giuridica, di governo autoritario e di imposizione fiscale, e cioè di quel meccanismo di cattura della ricchezza che il conflitto sociale era riuscito (molto parzialmente) a disperdere nei diversi strati della società industriale. Il fisco, deposta ogni funzione redistributiva, spende tutto il suo impegno in un’opera di concentrazione della ricchezza a favore della rendita finanziaria. Al cui centro sta appunto il rapporto inesauribile tra creditori e debitori.

Marx ci aveva insegnato che nel capitalismo i rapporti tra persone si davano come rapporti tra cose. Ora quei rapporti tra cose tornano a darsi come rapporti tra persone che tirano in ballo onore, credibilità, virtù, eticità. Sensi di colpa e senso del dovere. Responsabilità individuali e collettive, che non hanno mai avuto modo di esercitarsi nella realtà e che però non mancano di presentare il conto. Il governo dell’uomo indebitato illumina il rapporto politico che istituisce quello economico mettendone a nudo l’arbitrarietà. Ma è questa una caratteristica che mal si concilia con gli aspetti «macchinici», assiomatici, semiotici che Lazzarato (seguendo Deleuze e Guattari) attribuisce al sistema capitalistico, e secondo i quali i rapporti sociali (o i rapporti tra persone) si darebbero nella forma di rapporti numerici, di «enunciati operativi», di flussi di segni incardinati nella struttura stessa del sistema, che assoggettano e condizionano senza via di scampo gli agenti economici e sociali.


Per via di sottrazione


Il concetto di una assiomatica «politicamente stabilita» resta comunque problematico poiché tra l’automatismo e la forza, tra la decisione e la procedura ordinaria permane un campo di tensione. E la crisi non fa che accentuarne l’intensità. Che poi la decisione politica si inscriva nell’orizzonte della valorizzazione del capitale e della sua necessità di colonizzare sempre nuove sfere può essere certamente pensato come un processo circolare, che non sembra presentare però le caratteristiche operative di una «macchina».

La risposta al governo del debito, che per sua natura tende a riprodursi all’infinito poiché racchiude e incorpora l’asimmetria tra dominanti e dominati essendone la condizione necessaria, non può essere che un processo di riappropriazione, una mobilitazione che investe i rapporti di potere e contrappone blocchi di interessi confliggenti.

Ma a questo aspetto più classico della «mobilitazione», senza il quale nessuna rottura sarebbe possibile, Lazzarato affianca un momento di «smobilitazione», di inoperosità o sottrazione, di rifiuto dei ruoli e delle identità, senza il quale non si darebbe alcuna apertura del possibile (o dei possibili) e i contendenti continuerebbero a rispecchiarsi gli uni negli altri, disputandosi una posta consueta. Questo secondo aspetto, e la mutazione antropologica che gli sarebbe propria, permangono tuttavia in quella dimensione di estrema indeterminatezza che, così come nell’ esperienza dell’«uomo indebitato», combina fattori politico-economici e fattori esistenziali. Se questo rappresenti una debolezza o possa trasformarsi in una forza solo le lotte a venire potrano rivelarcelo.

Certo è che nel rapporto tra creditore e debitore la sottrazione è un fattore decisivo, e la sua natura «politica» del tutto evidente.

Cacasotto a Cinque Stelle

di Davide Grasso - sinistrainrete -

Di fronte ad atti criminali quali le guerre cui l’Italia partecipa e ha partecipato, l’opposizione nel nostro paese c’è stata ora più ora meno, e non sempre ha saputo essere all’altezza nella critica all’intervento militare. Spesso il pacifismo ha rivelato caratteristiche ipocrite, se non addirittura razziste: popoli bambini, quelli delle regioni colpite dai bombardamenti, che avrebbero dovuto essere “diversamente educati” alla democrazia dalle istituzioni occidentali (o dai pacifisti stessi, se non altro tramite sprezzanti condanne delle loro forme di resistenza). L’ostilità alla guerra, inoltre, non è stata giustificata, sovente, politicamente e moralmente, come sarebbe giusto, ma giuridicamente (mancata sanzione dell’ONU, art. 11 della costituzione italiana), lasciando aperta la porta all’idea che l’azione dell’esercito, se portata avanti con tutti i crismi del diritto nazionale e internazionale, sarebbe stata legittima. In questo quadro l’unica vera forma di opposizione mondiale alla guerra permanente di Bush e soci/successori sono state e sono le resistenze delle popolazioni occupate che, partendo dall’esigenza materiale e concreta di resistere all’espropriazione economica, umana e politica di cui sono oggetto, agiscono con tutti i mezzi che hanno a disposizione.

In oltre dieci anni, in quei paesi (senza che i nostri media si siano degnati di raccontarlo con un minimo di onestà, neanche quando le guerre facevano notizia) si sono svolte manifestazioni di dissenso all’occupazione militare dei territori in mille forme, per lo più pacifiche (preghiere, cortei, astensione dal voto, sabotaggi) ma anche violente (guerriglia, azioni armate). Il rifiuto dell’occupazione militare del proprio paese, la cui giustezza dovrebbe essere evidente a chiunque non professi una visione del mondo dove esistono naturali gerarchie tra popolazioni e aree del pianeta, ha assunto la forma del silenzio o delle grida, della poesia o della pittura, della diserzione e dell’infiltrazione, dei mitra e dell’esplosivo. Uno tra tanti episodi è stato, dieci anni fa, l’attacco contro un presidio militare italiano a Nassiriya, nel sud dell’Iraq, in cui – nell’esplosione di un’autocisterna imbottita di esplosivo, lanciata a tutta velocità contro la base – morirono 17 tra soldati italiani e carabinieri. Un atto legittimo, giacché una forza occupante non può pretendere di essere trattata con sentimenti di amicizia dalla popolazione sottomessa. Può sperarlo, nel suo ovvio interesse, ma non pretenderlo; e dato che con le armi l’occupante si è imposto, è del tutto normale che con le armi sia combattuto.

Nella celebrazione propagandistica dell’anniversario dell’attentato, le istituzioni italiane, che vollero contribuire all’occupazione degli USA in Iraq (e forniscono ancora uomini e mezzi all’occupazione dell’Afghanistan), hanno pianto i 17 morti, che sono da sempre nei loro discorsi i “martiri” e gli “eroi” di Nassiryya, vittime di un cieco e assurdo atto di violenza. Noi chiedemmo allora, e chiediamo ora: sono eroi, persone che imbracciano le armi contro popolazioni lontane, per il mero tornaconto economico personale? (Gli stipendi dei soldati impegnati all’estero sono d’oro, ed in questi giorni fa scandalo anche l’oro di cui sono fatte le loro pensioni, e i percorsi privilegiati per ottenerle). Come anche soltanto si possa pensarlo, è un mistero. Al contrario, ci sembrano persone che fanno una scelta orribile e spregevole. Che poi siano gli stati, le cui coalizioni militari hanno aggredito paesi stranieri con bombardamenti a tappeto, uso di armi non convenzionali, omicidi, stupri e torture in serie (uno su tutti: il “massacro dei ponti” del 6 aprile 2004 a Nassiryya, in cui i soldati italiani uccisero donne e bambini per puro divertimento), a recitare la parte degli esecratori della violenza, è semplicemente ridicolo.

Il piagnisteo di queste ore è stato reso ancora più patetico da un episodio, ossia l’intervento della deputata del M5S Emanuela Corda che, in parlamento, ha sostenuto che la pietà umana e il ricordo non andrebbero tributate soltanto ai 17 caduti italiani, ma anche all’attentatore, Abu al-Kacem abu Leile, che morì nell’esplosione da lui stesso provocata. Un intervento politicamente dubbio, giacché qui non è in gioco il sentimento umanitario indifferenziato, in base al quale, naturalmente, l’auspicio sarebbe che morti non ce ne fossero mai, da nessuna parte; qui si è trattato di un conflitto di tipo partigiano, dove un esercito che ha occupato un territorio è stato oggetto di atti di resistenza (i “partigiani” non sono necessariamente italiani, né necessariamente laici o comunisti: consultare il dizionario per credere). Appare scorretto rimuovere il contesto politico dell’episodio, e fare appello a una pietas indifferenziata che, più che umanità, cela ponziopilatismo morale o la semplice ritrosia ad analizzare il problema. L’interesse dell’intervento, nondimeno, era rappresentato dalla contraddizione che esso introduceva nel dibattito parlamentare e nell’atteggiamento delle istituzioni italiane di fronte all’episodio.

La reazione politica e giornalistica, senza sorprese, è stata feroce: la deputata è diventata una belva perversa, assetata di sangue italiano, pronta ad arruolarsi in una milizia islamica di tagliatori di teste. Nulla di strano: in un paese in cui tutta l’informazione nazionale, dal Giornale al Manifesto, ha sempre condannato, dall’invasione del 2003 in poi, le azioni di resistenza della guerriglia irachena, nulla c’è da stupirsi. Tanto più che l’Italia ha fatto la guerra in Iraq per interessi precisi, ed ora i pozzi petroliferi della zona di Nassiryya sono sfruttati dall’ENI; è questo che, dietro la facciata di non sanno neanche loro che cosa, i politici e i giornalisti italiani sanno di dover difendere (e nascondere). Quello che potrebbe sembrare strano, invece, è che, dopo soltanto 24 ore, Emanuela Corda non soltanto si sia scusata, abbia fatto ammenda pubblica e dichiarato al parlamento che non intendeva affatto giustificare l’orrendo atto dell’attentatore, ma abbia anche affermato che quest’ultimo era un plagiato e un ignorante, e che lei è contraria ad ogni forma di fondamentalismo e fanatismo di tipo religioso.

Poche idee, bisogna dirlo, e confuse. La religione non fu né lo scopo né la causa di quell’attentato. La questione non è mai stata, per questo marocchino e per il suo gruppo di supporto, imporre ai 17 soldati italiani la fede islamica; questo, si badi, non è anzi mai stato il motivo ispiratore delle azioni di guerriglia contro i soldati occidentali. Abu al-Kacem voleva uccidere i soldati italiani, in quanto nemici di guerra, non convertirli. Le motivazioni che hanno motivato la diffusa e prolungata resistenza irachena possono essere o meno condivise, ma sono palesi, e riconosciute in tutto il mondo; non nei paesi che hanno portato avanti l’occupazione militare, ma tant’è: in essi c’è, sul tema, un’evidente limitazione della libertà di espressione. Le fedi religiose – quella musulmana in questo caso – possono certo essere sprone all’azione e alla dedizione politica in contesti come questo, e ciò è tutto tranne che un mistero (soprattutto ai nostri tempi) ma questo non ne fa la causa, semmai lo sfondo o il contorno ideologico di atti che hanno una giustificazione politica del tutto indipendente.

Siamo noi i primi a ritenere di aver probabilmente poco a che spartire, culturalmente e politicamente, con i tanti militanti che hanno combattuto le occupazioni militari dell’Afghanistan o dell’Iraq; e dove portiamo avanti le nostre lotte, ci impegniamo in molti modi affinché le linee politiche che ispirano i movimenti contro le guerre siano di tutt’altro tenore. Questo, però, passa in secondo piano quando si tratta di comprendere gli eventi e prendere posizione sullo scenario globale; al di là delle lingue, dei costumi e dei credi religiosi che possono svilupparsi nei differenti contesti, crediamo sia giusto considerare gli oppressi di tutto il mondo, a partire dalle loro condizioni, una cosa sola. Si tratta di rivendicare la necessità, per tutti e ovunque nel mondo, di vivere liberi almeno dall’interferenza militare di paesi stranieri che, oltre ad essere per definizione violenta, è sempre interessata. Di questo, però, con Emanuela Corda, sarebbe inutile discutere: lei ha fatto ammenda con a fianco il deputato Cinque Stelle che siede in commissione difesa, che la controllava, a mo’ di patriottico gufo, parola per parola. Non si è minimamente chiesta, lei, se quello che diceva avesse un senso, se fosse giusto o sbagliato, e se dare dell’ignorante a qualcuno che non aveva mai conosciuto, ossia l’attentatore Abu al-Kacem (per il quale soltanto il giorno prima aveva invocato la pietas dovuta ai morti), fosse giusto o corretto.

Ha agito come le hanno imposto, come fanno sempre i membri dei partiti che siedono in parlamento, anche quando si dicono più “indipendenti” degli altri; e buonanotte pietas, buonanotte Iraq, buonanotte Nassiryya. Si è infilata in questioni troppo complesse per lei e i suoi pari, evidentemente, ed è già contenta di averla scampata, di non doversi dimettere da quel consesso di paraculi in cui siede, dove la condanna della resistenza ai crimini di guerra dell’Italia è un dogma, un’ovvietà, una verità assoluta da sempre, dai tempi di Giolitti a quelli di Letta. Un giorno ha avuto un’idea, il giorno dopo le hanno ricordato che non può averla, e lei ha preso il microfono per dire: scusate, che stupida, me ne ero dimenticata. Perché perdere tempo a parlare di tutto questo? Perchè anche questa deputata, questa "cittadina", ci insegna qualcosa; se non altro a vedere quanto Abu al-Kacem appaia come un gigante, di fronte a lei. Avrà avuto idee sbagliate, sarà stato antipatico forse, sarà stato magari un grandissimo stronzo: noi questo non possiamo saperlo. È partito dal suo paese, però, ed ha aiutato delle persone, di un altro paese, a colpire chi aveva occupato la loro città con la forza. Purtroppo è morto, facendo questo, e avremmo preferito fosse rimasto vivo; anche perché ha saputo lasciare, come tanti altri resistenti alle guerre, un dignitoso esempio di coerenza. Una parola, naturalmente, del tutto ignota ai parlamentari italiani.

Più di 16 mila persone per la commemorazione dello sgombero del Politecnico di Atene

- infoaut- 


994660_619625a8c-5e734Domenica pomeriggio (17 novembre) ad Atene sono scese in piazza più di 16 mila persone per ricordare la rivolta del 1973 degli studenti del Politecnico contro la dittatura dei colonnelli. Il governo ha schierato 7 mila agenti, creando uno scenario surreale nella città, la quale era blindata ad ogni angolo e sorvolata dagli elicotteri della polizia. Interessante come il partito socialista, presente negli anni alla testa del corteo, quest'anno abbia preferito seguire un altro percorso per evitare le contestazioni che sarebbero stati più che vivaci: il PASOK è uno dei principali responsabili della crisi greca e durante le ultime elezioni ha ottenuto un misero 13,2% in confronto all'iniziale 44%. Un corteo lunghissimo, aperto dalla bandiera del Politecnico sottratta 40 anni fa alla furia dei carri armati, ha sfilato per le vie avendo come meta l'ambasciata statunitense. La composizione del corteo è stata molto eterogenea: mamme con bambini, una massiccia componente studentesca, le persone imprigionate ed esiliate dalla dittatura e sindacati.
Pur essendo una commemorazione, lo sguardo era rivolto più al presente che al passato: la situazione attuale della Grecia si discosta di poco da quella degli anni '60-70. Cinquant'anni fa la Grecia era governata da un regime dittatoriale fascista, apertamente sostenuto dal governo di Washington. Oggi, nonostante le promesse ottimistiche di ripresa da parte del governo, la popolazione greca vive una quotidianità inammissibile fatta di sole misure d'austerity, resa tale dai diktat della Troika. L'Unione europea, insieme alla BCE e al FMI, non vengono affatto individuati come dei salvatori, ma al contrario come coloro che hanno messo il paese in ginocchio. Il paragone agli Stati Uniti che 40 anni fa hanno appoggiato la dittatura in nome della stabilità della NATO viene spontaneo e colpisce ancora di più l'attualità della rivendicazione gridata nel 1973 “pane, educazione, libertà”, visto che all'inizio di quest'anno accademico 8 università hanno chiuso i battenti. Il corteo ha scandito cori come “UE, BCE, FMI fuori” “Fascismo mai più!” lungo tutto il percorso. Le forze dell'ordine hanno completamente blindato la zona dell'ambasciata americana, rendendone impossibile il raggiungimento. Come se ciò non bastasse, a conclusione del corteo la polizia ha caricato e arrestato persone nel quartiere di Exarchia. Secondo testimoni oculari, un agente ha gridato " Sangue, onore, Alba dorata!” Dunque cosa è cambiato dopo 40 anni?
I cortei si sono svolti anche in altre città come Salonicco, Patrasso, in quest'ultima città i manifestanti hanno lanciato pietre contro i locali di Alba Dorata. Ovviamente la polizia, schierata a difesa del covo dei fascisti, ha immediatamente lanciato gas lacrimogeni per allontanare la folla.

lunedì 18 novembre 2013

IX Congresso – Oltre la palude degli equilibrismi, per restituire senso e forza al partito dei comunisti

    
IX Congresso – Oltre la palude degli equilibrismi, per restituire senso e forza al partito dei comunisti

Pubblicato il 16 nov 2013 - rifondeazione -

Il congresso che abbiamo voluto e pensato tutti all’indomani dell’ultima debacle elettorale, dell’ultima sconfitta della linea politica del partito, ha sprecato la sua straordinarietà dentro un percorso di avvicinamento consumato in piena coerenza con la composizione stessa della Commissione che lo ha indetto. Seminari lontani dalla base del partito (nei luoghi e nelle parole), congressi dei segretari di circolo raggruppati per grandi “zone”, dove le differenti “grida d’allarme” dei compagni sono rimasti semplici documenti mai circolati ed i cui i resoconti giornalistici stanno sul sito alla stregua di report di cronaca da giornaletto di provincia. Quel che è più grave, poi, è che le istanze emerse in quel congresso siano state in larga parte disattese nel primo documento. E con esse, sono state ignorate dalla maggior parte dei gruppi dirigenti ad ogni livello, le richieste continue della base del partito per una discussione seria sulla linea nella preparazione a questo importante confronto.
Questa è la base di preparazione al IX congresso del PRC: un percorso dentro una palude dove lo smarrimento è stato, particolarmente in questi mesi, la causa dell’emorragia di militanti, dello sbriciolamento di intere federazioni nel nulla politico, del dubbio e dello sconforto che spezza la pur forte passione politica e l’attivismo di tanti. E lo si vede dal numero dei partecipanti: una enorme fetta di compagni al di fuori del nostro dibattito, alla finestra, nell’attesa di “un suono o di una luce”. Questo congresso è già una sconfitta per la dirigenza uscente per l’enorme riduzione di partecipazione indotta dall’immobilismo politico della segreteria nazionale.
In questo disastro, una reazione s’è comunque manifestata. Una reazione forte, importante, nuova, che fa bene all’intero partito. L’inquietudine della base ha generato reazioni, confronti trasversali fuori dalle logiche correntizie, utilizzando la rete delle esperienze e conoscenze politiche anche trasversali ai gruppi dirigenti (rete di cui questo partito può e deve andare fiero, in quanto specchio reale dell’organizzazione). Una rete che ha, pur nei limiti organizzativi e di tempo, dato voce al malcontento ed al bisogno di confronto, reso concreta la voglia di riscatto.
Il resto della storia recente di questo congresso lo conosciamo già, raccontata dal compagno Mordenti in altro articolo. Una chiusura pressocchè totale a questa voce, costretta dunque a presentarsi, nei metodi, alla stregua di una qualunque “corrente”, certi di incastrarla, agli occhi dei compagni, in una presunta contraddittorietà tra presupposti e metodi.
Nonostante il tentativo di uniformare, zittire, ridurre il dibattito a resa dei conti tra vertici, la voce di questi compagni c’è. Si chiama “Per la rifondazione di un Partito Comunista”, la voce portata da centinaia di compagni della base del partito, uniti per la classe, per organizzare il conflitto sociale che cova nel popolo, per costruire l’esperienza e la figura di un collettivo politico intellettuale che sappia dare voce e forza ad un agire politico senza ambiguità. Una voce che ci tiri fuori dall’inutile gioco delle rappresentanze fini a se stesse, completamente slegate dalle realtà di lotta concreta delle strade; gioco iniziato col bertinottismo di seconda maniera, continuato nell’esperienza ministeriale castrante di un Ferrero costretto ad essere rinchiuso nella roccaforte di patti intenibili mentre il popolo di sinistra manifestava la sua inquietudine. Una voce che ci tiri fuori dall’immobilismo governativo per cui, al governo in Puglia con un programma politico pericolosamente rivolto (e si è visto..) al centrismo di potere (per non dire alla vera e propria destra), non ci è stato nemmeno consentito dai quadri dirigenti di poter dare l’avvio ad un referendum popolare su una legge per la casa, pronta e lasciata nel cassetto per mesi e mesi. Perché gli equilibri vanno rispettati. Gli stessi equilibri che assegnano e distribuiscono con le logiche pattizie gli incarichi politici e quelli di rappresentanza. Gli stessi equilibri che hanno trasformato il partito a tutti i livelli in una struttura di fedeli alla linea del vertice, un partito di fedeli, non di capaci.
Una voce che sappia dire basta alle ambiguità, nonostante un’analisi, pressocche condivisa da tutti i documenti, che ci dice che non è possibile avere come esclusivo fine del percorso politico la ricerca di una seppur marginale rappresentanza istituzionale, se questa costituisce cesura tra il partito e il popolo. La realtà ci dice che oggi, rispetto al disegno del centrosinistra, interno alle logiche capitaliste di dominio finanziario e sociale sugli stati e sui popoli, la risposta è sempre il “no” e sempre il “contro”. Una voce che chiede che al partito venga restituito il ruolo politico delle decisioni sul lavoro e non subirlo dalle innumerevoli e diversificate rappresentanze sindacali dentro le quali siamo presenti.
I compagni hanno bisogno di essere ascoltati, coinvolti, non è più tempo di verticismi, neppure dentro il partito, non solo nel confronto con gli altri soggetti. La voce stessa del popolo di sinistra ha questa esigenza ed ha anche il bisogno di sentirsi unificata dentro un grande progetto, mai ambiguo, costi quel che costi, e non miseramente interpellata in maniera “consultiva” nei momenti topici.
I compagni hanno bisogno di sapere che non è possibile costruire un progetto con soggetti che, nonostante il proprio ruolo politico amministrativo, si prostrano al telefono con i secondi dei padroni che ammazzano le persone, distruggono le città ed i territori e, non per ultimo, giocano miserabilmente col lavoro e con i lavoratori sfuggendo qualsiasi responsabilità.
I compagni hanno bisogno di fiducia, di sentirsi tutelati, di sapere che combattere per quello in cui si crede possa avere lo scopo di “cambiare lo stato di cose presenti”, hanno bisogno di essere valorizzati, non castrati dentro la fabbrica delle fedeltà, dove gli incarichi si distribuiscono in base alle lottizzazioni tra correnti.
Se è vero, come è vero, che le idee camminano sulle gambe delle persone e che le idee e le persone sono intimamente collegate, va da sè che cambiare le idee implica cambiare le persone. Non si tratta di un aut/aut, ma di una conseguenza necessaria. Non si tratta di indiviuare capri espiatori, di effettuare purghe, nè tantomeno di sostituire vecchi padroni con nuovi. Il rinnovamento della classe dirigente non è soltanto questione di uomini, ma anche e soprattutto di metodo. Vincolo di mandato e turnazione sono regole basilari per un partito che sappia praticare dentro di sè le sane regole della democrazia che aspira a trasferire nelle istituzioni.
Le idee di questo Partito sono estremamente confuse, come quelle per cui a un documento si integrino emendamenti su emendamenti spesso discordanti e in contraddizione totale tra di loro, oppure come quelle che affermano che il partito è morto, ma si presentano ugualmente alle supposte esequie. Siamo totalmente estranei ad un’analisi della sconfittta elettorale sconfortante, quando si imputa al solo PdCI la sciagurata scelta di cercare un’alleanza col PD. Il fallimento politico della Federazione della Sinistra è solo una parte, pure esigua, del fallimento di Rifondazione Comunista in questi anni. Non possiamo essere daccordo con chi ci ripropone tutto quello che ha paralizzato il partito, l’eterogenità di un gruppo dirigente che va dalla ricerca di un accordo con SEL e il centrosinistra fino alla rassegnazione di chi considera PRC un partito ormai morto e dunque investe il proprio impegno dentro altri contenitori come R@ssa.
Il terzo documento richiama l’esigenza di un partito che sappia porsi come interlocutore politico credibile coi movimenti, con i luoghi del conflitto. Tutt’altro che la caricaturale riproposizione di modelli sovietici, come firmatari del primo documento raccontano di noi. Di certo qualcosa di molto diverso dall’immagine triste di un partito che timidamente occupa le ultime file delle sale di assemblee di altri soggetti, umilmente col cappello in mano, alla ricerca di posti in lista.
Per questo il nostro documento è la risposta, la speranza di rimettere in piedi un percorso interrotto e mai terminato, una strada vera, ma differente, verso la costruzione di una grande alleanza di opposizione, di un fronte di lotta anticapitalista che abbia come scopo quello di ridare dignità, voce e potere alle escluse ed agli esclusi, al fine di combattere concretamente il potere finanziario che li rende vittime e non cittadini.
Michelangelo Dragone,
Mariella Calisi,
Alberto Sportelli,
Nicola Signorile,
Michele Adduci,
Giuseppe Balducci
e tutti i compagni del terzo documento della federazione di Bari

Dove va la Cina

    
Dove va la Cina

Pubblicato il 18 nov 2013 -rifondazione -

di Nicola Melloni – liberazione.it
Il Terzo Plenum del XVIII Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese è stato ampiamente ripreso dai giornali. Si è parlato di una svolta storica, di una definitiva apertura al mercato, della fine definitiva della contraddizione del capitalismo di stato in Cina. In realtà la situazione, come sempre a Pechino, è assai più complessa.
Fedeli alla massima di Deng – non importa che il gatto sia nero o bianco, l’importante è che acchiappi i topi – la leadership cinese basa le sue strategie su uno schietto pragmatismo, analizzando la realtà e i problemi dell’economia cinese e proponendo soluzioni adeguate. I trent’anni di riforme sono state proprio l’esempio di questa politica. Dopo aver abbandonato una economia di piano con chiari segni di sfinimento, si sono introdotti diversi elementi di economia di mercato. Ma non ci si è mai affidati all’ideologia e si sono sempre respinti gli interessati suggerimenti occidentali che spingevano per una liberalizzazione rapida, sul modello dell’Est Europa. Si è visto poi chi avesse ragione.
La Cina ha battuto tutti i record di crescita, è diventata la seconda economia mondiale e ha portato centinaia di milioni di lavoratori fuori dalla povertà. Allo stesso tempo, però, ha creato nuove contraddizioni. Intanto una crescita basata sullo sfruttamento selvaggio della forza lavoro e quindi sull’accesso ai mercati internazionali. In sintesi, salari bassi per esportare invece che per aumentare la domanda interna in un ciclo virtuoso di investimenti, consumo, crescita. Ora questo modello sta mostrando segni di logoramento: da una parte i mercati occidentali non tirano più come una volta, a causa della crisi; dall’altra, la sperequazione sociale sta portando ad un aumento del costo della vita nelle città, alle conseguenti tensioni sociali ed ad un aumento progressivo del costo del lavoro. Nel frattempo l’industrializzazione si è completata, gli investimenti in beni capitali non possono reggere una continua accelerazione dato il progressivo esaurimento delle opportunità di profitto, il gap tecnologico con l’Occidente si è drasticamente ridotto.
Ed allora, per la prima volta in questi tre decenni di riforme, si parla di muovere l’economia verso il mercato interno, rafforzando il potere d’acquisto dei cittadini cinesi e fornendo un solido stato sociale per stabilizzare la domanda e ridurre le tensioni sociali. In un paese che invecchia velocemente, è allora normale attendersi maggiori servizi per gli anziani e un cambiamento nella politica del figlio unico che ha avuto grande successo nello stabilizzare la popolazione cinese ma ne ha favorito anche il veloce invecchiamento. Insieme a questo, una parziale rimodulazione dell’economia verso i servizi, che garantirebbe possibilità occupazionali e di reddito anche in presenza di una crescita meno forte che nei decenni precedenti.
Infine, il mercato. In questi decenni la Cina si è aperta all’economia di mercato ma ha sempre cercato di regolarla. Investimenti esteri consentiti ma solo in partnership con compagnie cinesi, servizi finanziari regolati, ruolo chiave delle industrie di stato che hanno accesso al credito a prezzi calmierati, dominando alcuni segmenti economici chiave. Da una parte questo ha portato ad alcune inefficienze – diverse compagnie pubbliche producono perdite e sopravvivono solo grazie all’aiuto di Stato – ma ha permesso al Partito di tenere le redini dell’economia. Allo stesso tempo, però, la commistione endemica tra pubblico e privato ha portato ad un forte debito delle amministrazioni locali e ha foraggiato una corruzione indecente. La dirigenza cinese sembra ora orientata a lasciare ancora più spazio al mercato. Lo farà però molto gradualmente, timorosa come sempre di shock sistemici che possano distruggere il fragile equilibrio economico e sociale del Paese.
E’ difficile credere che Pechino si lanci in un liberismo sfrenato. Cercherà di dare più spazio al mercato, mediandolo però con i tanto attesi servizi sociali, e vorrà mantenere un ferreo controllo sulle linee guida dell’economia. Perché una cosa è molto chiara ai leader cinesi: il monopolio politico del Partito Comunista è possibile solo in una società ordinata. Dopotutto, il controllo della struttura economica è essenziale per la stabilità della sovrastruttura politica.

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