Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 21 dicembre 2013

Nuove povertà, una fotografia del malessere

di Federica Martiny - sbilanciamoci -

L'Italia sta tornando ad essere un paese povero, con conseguenze drammatiche rispetto ai problemi di giustizia sociale e con situazioni sempre più spesso emergenziali

Da qualche mese a questa parte sembrerebbe che i mercati finanziari si siano come tranquillizzati, rassegnati a lasciare all'Italia e all'Europa un po' di tregua. Non si sente più parlare di spread e di attacchi speculativi. La City dirige altrove il suo sguardo.
Ma l'uscita dalla crisi sembra sempre più lontana. L'economia reale è ferma, immobile, congelata. Ce lo dice la violenza delle rivendicazioni del movimento dei forconi a Torino e a Genova, ma soprattutto ce lo dicono i dati drammatici sulla disoccupazione: nei primi dieci mesi del 2013 sono state presentate 1.726.898 domande di disoccupazione (fonte Inps), con un aumento del 31,2 per cento rispetto alle domande presentate nel corrispondente periodo del 2012. Sono più di 1 milione i giovani al di sotto dei trent'anni senza lavoro, un dato che in termini percentuali si traduce in uno spaventoso 41,2 per cento, e quel che è peggio, senza una verosimile speranza di trovarlo nel breve periodo. Più in generale il numero complessivo dei disoccupati a ottobre era superiore ai 3 milioni, che corrispondono al 12,5 per cento della popolazione. Soltanto nei primi nove mesi del 2013 sono fallite 8.900 aziende sul nostro territorio, lasciando molte famiglie senza un reddito.
Così, gli sfratti, in Italia, sono aumentati, dal 2008 al 2013, del 70 per cento. E l'elenco potrebbe continuare.
Sono numeri impressionanti ed impietosi, soprattutto perchè in continua crescita: sono la fotografia matematica di un paese in ginocchio.
Ma per capire quello che questi dati ci dicono, bisogna cercare una fotografia umana del malessere del malato Italia. Come quella di un uomo di 77 anni di Fano che non aveva i soldi per pagare il riscaldamento ed è morto di freddo. Da oltre un anno, era stata tagliata la fornitura di gas metano nella sua abitazione, perchè gli 800 euro di pensione di anzianità non bastavano a mantenere una famiglia di 4 persone. È arrivato in ospedale in avanzato stato di ipotermia e in condizioni disperate.
Sembra di essere tornati indietro nel tempo, a quando molte famiglie non avevano la possibilità economica di avere il riscaldamento in casa e a quando l'Italia era un paese povero.
Sembra, sì, una storia lontana, accaduta forse in un qualche remoto angolo di mondo non ancora raggiunto dal benessere. E invece, è proprio qui, in una cittadina italiana come tante che si scopre che si torna a morire di freddo in casa propria.
Da tante parti si leva la voce di economisti che chiedono un deciso cambiamento della rotta in Italia e in Europa per riconvertire le politiche nel senso di un rilancio dell'occupazione, della sostenibilità ecologica e della giustizia sociale (come nell'ultimo rapporto dell'Euromemorandum, presentato in anteprima sabato 14 dicembre al convegno “L'Europa giusta”, organizzato dalla Scuola del sociale in collaborazione con Sbilanciamoci! ed Europén). In tanti chiedono un New Deal europeo ecosostenibile, come fanno i federalisti europei. Ma in pochi ascoltano.
La posta in gioco però è alta, altissima. L'Italia sta tornando ad essere un paese povero, con conseguenze drammatiche rispetto ai problemi di giustizia sociale e con situazioni sempre più spesso emergenziali. Le questioni che sono sul tavolo della politica italiana ed europea vanno ben al di là della crescita del Pil, toccano la dignità delle persone e per questo hanno bisogno di risposte urgenti.

Il colpo di Stato di banche e governi

di Luciano Gallino - sbilanciamoci -

Il tracollo finanziario di questi anni non è dovuto a un incidente del sistema ma è il risultato dell'accumulazione finanziaria perseguita ad ogni costo per reagire alla stagnazione economica di fine secolo. L'introduzione al libro del sociologo Luciano Gallino, "Il colpo di Stato di banche e governi"
La crisi esplosa nel 2007-2008 è stata sovente rappresentata come un fenomeno naturale, improvviso quanto imprevedibile: uno tsunami, un terremoto, una spaventosa eruzione vulcanica. Oppure come un incidente tecnico capitato fortuitamente a un sistema, quello finanziario, che funzionava perfettamente. In realtà la crisi che stiamo attraversando non ha niente di naturale o di accidentale. E stata il risultato di una risposta sbagliata, in sé di ordine finanziario ma fondata su una larga piattaforma legislativa, che la politica ha dato al rallentamento dell'economia reale che era in corso per ragioni strutturali da un lungo periodo. Alle radici della crisi v'è la stagnazione dell'accumulazione del capitale in America e in Europa, una situazione evidente già negli anni Settanta del secolo scorso. Al fine di superare la stagnazione, i governi delle due sponde dell'Atlantico hanno favorito in ogni modo lo sviluppo senza limite delle attività finanziarie, compendiantesi nella produzione di denaro fittizio. Questo singolare processo produttivo ha il suo fondamento nella creazione di denaro dal nulla vuoi tramite il credito, vuoi per mezzo della gigantesca diffusione di titoli totalmente separati dall'economia reale, quali sono i «derivati», a fronte dei quali – diversamente da quanto avveniva alle loro lontane origini – non prende corpo alcuna compravendita di beni o servizi: sono diventati di fatto l'equivalente dei tagliandi di una lotteria. Tuttavia, essendo possibile venderli e trasformarli cosi in moneta, essi rappresentano una nuova forma di denaro che insieme con la creazione illimitata di denaro mediante il credito ha invaso il mondo, rendendo del tutto impossibile stabilire quanto denaro sia in circolazione, tolta la piccola quota – pochi punti percentuali – di monete e banconote stampate e di denaro elettronico creato dalle Banche centrali. Il problema è che il denaro creato dal nulla può sì essere prontamente convertito in beni e servizi reali, ma altrettanto velocemente può scomparire in ogni momento, come avvenne con straordinaria ampiezza tra il febbraio e l'ottobre del 2008.
Fatta eccezione del contante e del denaro creato dalle Banche centrali per le loro finalità istituzionali, quasi tutto il denaro in circolazione viene creato da banche private mediante la concessione di crediti o la confezione di titoli. Nella Ue, le banche private sono arrivate a concedere in totale trilioni di euro di crediti ovvero di prestiti, mentre possedevano nei loro caveau reali o elettronici non più del 4-5 per cento di capitale proprio, o in riserva presso la Bce non più dell'1-2 per cento del totale dei prestiti erogati. Sono in ciò insite due distorsioni del sistema finanziario in essere che si collocano persino al di là della creazione patologica di fiumi di denaro dal nulla che ha concorso a causare la crisi. Su di esse si ritornerà ampiamente nel testo. Basti annotare per ora, in primo luogo, che il potere di creare denaro è uno dei poteri fondamentali di uno Stato. Averlo lasciato da lungo tempo per nove decimi alle banche private, e averne anzi favorito con ogni mezzo l'espansione, è un vizio che sta minando alla base l'economia mondiale. In secondo luogo, le banche creano denaro dal nulla con pochi tocchi sulla tastiera di un Pc, ma poi da coloro che ricevono quel denaro in prestito – famiglie, imprese, lo Stato – pretendono sostanziosi interessi. E nel caso di mancato pagamento degli interessi o delle quote di capitale in scadenza hanno diritto di sequestrare a essi ogni sorta di beni mobili e immobili, per tal via convertendo il nulla in case o terreni o impianti industriali che diventano una loro proprietà. È una (il)logica che sfida l'immaginazione più accesa (1).
In questo modo la politica ha attribuito alla finanza, non da oggi bensì da generazioni, un potere smisurato. Negli anni Cinquanta del Novecento si parlava di «complesso militare-industriale» facendo riferimento agli stretti rapporti economici, politici, ideologici stabilitisi nelle società industriali avanzate tra le forze armate e le maggiori aziende industriali. Fu il presidente Eisenhower, nel suo discorso di congedo (gennaio 1961) a sollecitare gli Stati Uniti e il mondo a guardarsi dal «disastroso aumento di potere» che tale complesso lasciava intravedere (2). Dagli anni Ottanta in poi si dovrebbe invece parlare di «complesso politico-finanziario», in presenza dei rapporti sempre più stretti che si sono sviluppati tra politica e finanza, nella Ue come negli Usa.
Stabilito che la crisi in atto è un fenomeno strutturale, non un incidente di percorso, e che ha alle spalle distorsioni profonde dell'intero sistema finanziario e monetario, per vari aspetti connesse con la stagnazione dell'economia reale, va precisato che le «strutture» non operano da sole. Hanno bisogno di persone che ne interpretano le logiche, le modificano per adattarle ai tempi e le applicano. Sebbene vi siano notevoli differenze tra politica ed economia quanto a possibilità di imputare determinate azioni a certi gruppi o individui, la crisi è stata ed è l'esito di azioni compiute da un numero ristretto di uomini e donne che per lungo tempo, tramite le organizzazioni di cui erano a capo o in cui operavano, hanno perseguito consapevolmente determinate finalità economiche e politiche. Hanno compiuto quelle azioni in parte perché l'ideologia da cui erano guidate non consentiva loro di scorgere alternative; in parte per soddisfare i propri interessi o quelli di terze parti. Azioni compiute con la possibilità di avvalersi di risorse enormi, in campo economico come in quello politico, senza però darsi minimamente pensiero delle conseguenze che le azioni stesse potevano produrre a danno di un numero sterminato di individui. Il sistema che tali soggetti hanno costruito e guidato, il complesso politico-finanziario, era affetto sin dagli inizi da gravi difetti progettuali e aveva già manifestato nei decenni precedenti ripetuti segnali di malfunzionamento. Dinanzi alle sue cause e conseguenze, la crisi esplosa nel 2007 può essere definita come il più grande fenomeno di irresponsabilità sociale di istituzioni politiche ed economiche che si sia mai verificato nella storia (3).
Nel sistema economico i principali attori di tale fenomeno sono stati i dirigenti di vari generi di mega-entità finanziarie. L'elenco di queste è molto lungo. Inizia con Banche centrali quali la Bce, la Fed americana, la Banca d'Inghilterra, e organizzazioni intergovernative come il Fondo monetario internazionale. Poi viene una folla di altri enti, a cominciare dai conglomerati formati da «società che controllano banche» (bank holding companies), enti che nel dominio della finanza svolgono attività di ogni genere concepibile, comprese quelle bancarie. Seguono le «banche universali» sia private come, per dire, Bnp-Paribas o Unicredit, sia pubbliche, quali le Landesbanken (banche regionali) tedesche, le une come le altre impegnate per decenni a trarre maggiori entrate dagli investimenti e dalla speculazione per conto proprio che non dai risparmi che gestiscono; gli investitori istituzionali, quali fondi pensione pubblici e privati, fondi di investimento e compagnie di assicurazione (4).
E ancora, tra gli attori economici i quali, ne fossero consapevoli o no, hanno concorso sia a scatenare la crisi sia a protrarre senza fine la ricerca di soluzioni pur parziali e temporanee, troviamo le società immobiliari lanciatesi sui mercati finanziari; i fondi del mercato monetario; i fondi speculativi (hedge funds); i fondi detti sovrani perché il loro capitale è formato soprattutto da titoli di Stato; le società specializzate nel creare e trattare sul mercato titoli commerciali che hanno alla base crediti ipotecari; le casse di risparmio e quelle di depositi e prestiti, attive in tutti i maggiori Paesi; le società pubbliche o sponsorizzate dallo Stato con il compito di assicurare e riassicurare le ipoteche sulla casa, tipo le americane Fannie Mae (che sta per Federai National Mortgage Association), Ginnie Mae (Government National Mortgage Association) e Freddie Mac (Federal Home Loan Mortgage Corporation). A chiudere, numerose fondazioni che hanno come capitale una grossa quota di azioni bancarie, più quote cospicue di fondi di investimento, un genere che comprende anche le fondazioni su cui si reggono alcune delle maggiori università private del mondo, come Harvard o Stanford.
Nel sistema politico hanno contribuito alla crisi, sin dagli anni Ottanta quando ne elaborarono tramite i Parlamenti le fondamenta legali, un buon numero di componenti dei governi Usa e Ue che si sono succeduti da allora a oggi; nonché membri di organizzazioni intergovernative, tra le quali spicca la Commissione europea. Più alcuni capi di Stato, fra i quali sono stati in primo piano ai loro tempi democratici come Bill Clinton e François Mitterrand. Agli attori suddetti vanno ancora aggiunti i dirigenti dei partiti politici che hanno espresso e sostenuto i governi in questione, nonché i parlamentari che ne hanno seguito le direttive, votando in quasi tutti i Paesi Ue alcune leggi presentate come sicuri rimedi alla crisi, mentre in realtà hanno finito per aggravarla. Basti pensare agli inauditi interventi nel tessuto stesso delle sovranità politica ed economica degli Stati, costituiti dall'inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio o dall'approvazione parlamentare del cosiddetto «patto fiscale», che saranno esaminati in dettaglio in un apposito capitolo.
Se le strutture sono lo scenario e la trama che hanno bisogno di attori economici e politici affinché il dramma si svolga, gli attori medesimi hanno bisogno di aiutanti al fine di meglio individuare, legittimare, alimentare, eseguire passo passo, per anni e decenni, le linee di azione che hanno condotto alla crisi. Si sono prestati a esercitare tale ruolo in modo diretto i traders, gli addetti ai trilioni (in dollari come in euro) di transazioni finanziarie giornaliere le quali, moltiplicando per miliardi i centesimi guadagnati su ogni transazione con l'ausilio dell'high frequency trading, capace di effettuare per via informatica decine di migliaia di operazioni al secondo, recano sostanziosi profitti alle banche; gli esperti della confezione di titoli strutturati, formati ciascuno da migliaia di ipoteche di malcerta origine; i legali che hanno elaborato le vesti giuridiche dei titoli e dei veicoli (società di scopo create dalle banche per far portare fuori bilancio i crediti concessi e poterne cosi concedere altri) che li hanno immessi in commercio. Mentre in ruoli indiretti hanno operato stuoli di consiglieri economici dei capi di governo e dei capi di Stato; gli economisti che hanno inventato, proposto agli enti finanziari, insegnato nelle università e nelle scuole di amministrazione aziendale le teorie del rischio, dei mercati del capitale, delle funzioni del denaro ovvero della moneta meglio idonee a orientare le azioni dei dirigenti finanziari o quantomeno a conferirvi parvenza scientifica. A essi vanno aggiunti gli intellettuali che hanno elaborato il corpus ideologico, formato in gran parte dalle dottrine neoliberali, volto a dimostrare la superiorità non solo tecnica, ma persino morale, dell'agire dell'Homo oeconomicus in tutti i settori della vita sociale.
A causa dei difetti strutturali del sistema finanziario, connessi a quelli del sistema produttivo, a creare e aggravare i quali il personale politico ed economico ha contribuito in modo diretto e indiretto – nel secondo caso per la palese incapacità di affrontare la situazione soprattutto in tema di occupazione –, la crisi iniziata nel 2007 ha devastato l'esistenza di un'immensa quantità di persone nei soli Paesi sviluppati. Quale che sia l'indicatore considerato, coloro alla cui drammatica situazione esso rimanda si contano sempre a milioni. A milioni hanno perso il lavoro e stentano a ritrovarlo: su 36 Paesi sviluppati, a fine 2011 soltanto 6 facevano registrare un tasso di occupazione uguale o più alto a quello del 2007. In tutti gli altri risultava diminuito, e l'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) stima che ben difficilmente esso tornerà ai livelli pre-crisi prima della fine del 2016 e oltre – una previsione che a fine 2013 appariva oramai troppo ottimistica. Sommando i disoccupati che cercano attivamente lavoro a quelli che hanno smesso di cercarlo dopo troppi tentativi andati a vuoto, si tratta di 50 milioni di persone, divisi pressappoco a metà fra Stati Uniti e Unione europea. Appartengono quasi tutte alla classe operaia e alle classi medie. L'Oil ha stimato che nel 2012 il 40 per cento dei disoccupati fosse senza lavoro da oltre un anno. Nella sola Ue a 27, Eurostat stimava che a febbraio 2013 i disoccupati fossero oltre 26 milioni; nel 2000 erano meno di 20. Alla stessa data, in Italia e Portogallo la disoccupazione dei giovani (15-24 anni) sfiorava il 40 per cento, e in Spagna e Grecia superava il 55.
Si aggiunga che il rovescio positivo del tasso di disoccupazione, la quantità di occupazione che ancora rimane, nasconde il peggioramento della qualità di quest'ultima. Infatti quasi tutti i Paesi sviluppati hanno ridotto negli ultimi anni i dispositivi a protezione del lavoro a tempo indeterminato, per cui molti, i giovani e anche i meno giovani, hanno trovato lavoro solo accettando contratti di breve durata e sottopagati, quelli che caratterizzano l'universo dell'occupazione precaria. Da tempo, in Italia, l'8o per cento delle nuove assunzioni avviene ogni anno con tali contratti.
L'elenco dei costi sociali della crisi comprende ovviamente altre voci. I tassi di povertà sono aumentati quasi ovunque. A fine decennio i poveri erano 50 milioni negli Stati Uniti (un sesto della popolazione), e 6-7 milioni in Spagna, in Italia, nel Regno Unito (5). Altri dati sono stati diffusi da Eurostat a fine 2012. Nel 2011 si annoveravano, entro la Ue a 27, 120 milioni di persone, un quarto della popolazione, a rischio di povertà o di esclusione sociale. Eurostat contempla in tale categoria coloro che presentano almeno una di queste condizioni: 1) il reddito disponibile dopo i trasferimenti sociali li colloca sotto la soglia di povertà del loro Paese; 2) sono affetti da severa deprivazione materiale; 3) sono individui tra zero e 59 anni facenti parte di famiglie con una bassissima intensità di lavoro, quelle cioè in cui gli adulti hanno lavorato l'anno prima erogando meno del 20 per cento del loro potenziale di lavoro effettivo totale. Si tratta di 12 milioni di famiglie in cui c'erano uno o più membri che potevano lavorare in media 40 ore la settimana a testa, ma hanno lavorato appena 8 ore.
Occorre altresì sottolineare che, mentre vi sono rilevanti differenze tra i Paesi quanto a rischio di povertà e tasso di deprivazione materiale, la quota di persone facenti parte di famiglie a bassissima intensità di lavoro varia solamente, con l'eccezione di Cipro e Lussemburgo, tra il 7 per cento della Repubblica Ceca e il 14 per cento del Belgio. Poiché coloro che lavorano oltre i sessant'anni sono relativamente pochi, si può quindi stimare che il numero di persone toccate in totale da una bassissima intensità di lavoro si aggiri nel complesso, nella Ue, tra i 40 e i 45 milioni (6). Ad accrescere il tasso di povertà contribuisce pure il numero dei lavoratori poveri – coloro che hanno un lavoro più o meno regolare, ma pagato talmente poco da far ricadere loro e i conviventi al di sotto della soglia di povertà (7). Se si allarga il quadro al di là delle condizioni di lavoro, si scopre che a causa della chiusura delle fabbriche di cui vivevano, della disoccupazione e della precarietà che ne è seguita, della caduta dei consumi, della scomparsa di artigiani e commercianti, intere comunità sono state disastrate.
Negli Stati Uniti, in Spagna, nel Regno Unito, in Irlanda almeno sei milioni di famiglie hanno perso la casa perché non riuscivano più a pagare le rate del mutuo che erano state indotte dalle banche a sottoscrivere benché non avessero le risorse economiche necessarie. Altri milioni di famiglie hanno perso gran parte dei loro risparmi, del valore del fondo pensione, o dell'assicurazione sanitaria, a causa della caduta del corso dei titoli in cui erano stati investiti, oppure del tracollo dell'impresa cui il fondo o l'assicurazione facevano capo. In totale, fra Paesi sviluppati e Paesi emergenti, si stima che il valore di immobili e di titoli che è evaporato soltanto nei primi due o tre anni della crisi si aggiri su 50-60 trilioni di dollari – una cifra prossima al Pil del mondo. Una parte di tali perdite ha coinvolto grandi patrimoni, che però dal 2009 in poi le hanno in genere rapidamente recuperate. Per contro, quelle che riguardavano i risparmi di milioni di famiglie sono rimaste o si sono aggravate.
Ove si ponga mente alla quantità e tipologia delle vittime della crisi, raffrontandole con gli attori che insieme con i loro aiutanti l'hanno provocata e legittimata, diversi aspetti colpiscono. Il primo è che le vittime di oggi sono in gran parte figli e nipoti di membri della classe operaia e della classe media che furono colpiti, soprattutto negli Usa, dalla stagnazione dei salari intervenuta sin dagli anni Settanta. Una condizione alla quale cercarono di sottrarsi, con l'aiuto dei loro governi e delle istituzioni economiche, accrescendo in misura spropositata i loro debiti – una delle maggiori concause dirette della crisi. In altre parole, non solo la crisi quando arriva suona sempre due volte, ma quando ritorna sta ben attenta a suonare sempre alla stessa porta di prima.
In secondo luogo va rilevata la relativa esiguità del numero degli attori e dei loro aiutanti rispetto al numero enorme delle vittime. Gli attori che si possono considerare veri protagonisti della crisi, nell'insieme dei Paesi sviluppati, sono poche decine di migliaia; con gli aiutanti, gli attori di secondo piano e però indispensabili per lo svolgimento del dramma, si arriva forse a qualche centinaio di migliaia. Per contro le vittime assommano, come s'è visto, a parecchie decine se non centinaia di milioni. Si potrebbe dire, parafrasando (e rovesciando) il famoso detto di Churchill, che mai cosi pochi hanno inflitto danni cosi gravi a un numero cosi grande di persone.
È vero che si potrebbe accrescere la stima del numero dei responsabili notando che i dirigenti economici responsabili della crisi agivano, in realtà, non solo per conto proprio ma pure per conto di milioni di proprietari di grandi patrimoni, una intera classe sociale che ha affidato loro il compito di moltiplicare i suoi capitali. Peraltro pare opportuno stabilire una distinzione tra chi ha manovrato direttamente le leve della macchina che ha portato alla crisi, e chi su tale macchina si è limitato a caricare i propri capitali. Sono due livelli di responsabilità, correlati ma non assimilabili se si vogliono analizzare le origini prossime della crisi. Per questo motivo il testo che segue intende compiere un esame soprattutto delle azioni compiute dal primo gruppo, gli attori della finanza, senza ovviamente ignorare l'importanza del secondo gruppo, la classe sociale più benestante del pianeta. Formata da circa 29 milioni di adulti, lo 0,6 per cento della popolazione del mondo, che detiene oltre il 39 per cento della ricchezza globale, quasi 88 trilioni (cioè ottantottomila miliardi) di dollari. E la sola classe cui la crisi abbia recato vantaggi cospicui.
Un terzo aspetto che colpisce è il fatto che a sei anni dallo scoppio della crisi (agosto 2007), erano pochissimi i responsabili economici e politici di essa che fossero stati chiamati a rispondere dei danni che hanno concorso a provocare. È vero che a seguito dei tracolli di grandi gruppi industriali susseguitisi tra il 2000 e il 2003 – dalla Enron alla WorldCom alla Parmalat – un periodo da considerare di fatto come il prologo della crisi attuale, è stato riconosciuto colpevole e condannato a pene severe un certo numero di dirigenti. Per contro, dal 2007 a oggi nemmeno un singolo procedimento istruttorio o accusatorio paragonabile a quelli del periodo anzidetto è stato avviato in America o in Europa. Con una sola eccezione: nel 2011 il titolare di un fondo speculativo, Bernie Madoff, si è visto infliggere da un tribunale federale statunitense centocinquant'anni di carcere. Ma va subito rilevato che in questo caso, come in quelli menzionati sopra, si trattava di autentici truffatori, dirigenti e finanzieri che avevano falsificato all'ingrosso i bilanci e ingannato in modo macroscopico gli investitori. Non a questi ci si vuole qui riferire, bensì alle decine di migliaia di dirigenti e operatori i quali hanno condotto l'economia al disastro globale che sappiamo, sfruttando le leggi predisposte appositamente per loro dai politici. Al riguardo il presidente Obama è stato chiaro. Ha detto infatti, sia pure in una conversazione informale: «La condotta dei grandi gruppi finanziari va considerata riprovevole sotto il profilo etico, ma dal punto di vista legale non si può imputare loro nulla».
Il fatto è che, da un lato, le leggi che hanno permesso di disastrare l'economia sono state concepite e fatte approvare dai governanti in carica a quel momento, spesso in accordo preventivo con i dirigenti del mondo finanziario e industriale; dall'altro, l'espansione forsennata e rapidissima della finanza dagli anni Ottanta in poi ha aperto nuovi territori che per il diritto penale, secondo i giuristi che da qualche tempo hanno iniziato a occuparsene, sono tuttora terra incognita. Il risultato è quello che si diceva: i dirigenti di gruppi finanziari nei cui bilanci si sono aperte voragini a causa delle loro manovre sono giunti a esprimere al più un tot di dispiacere – per la verità lo hanno fatto solo in qualche caso – in merito ai danni arrecati a risparmiatori e contribuenti. Al massimo è avvenuto che le loro società abbiano sborsato ciascuna centinaia di milioni alla Fed o alla Banca d'Inghilterra al fine di evitare che una causa civile – avviata, ad esempio, da risparmiatori danneggiati dai cosiddetti titoli tossici – si trasformasse in una causa penale. Però di tasca loro, in genere, i massimi dirigenti non ci hanno rimesso un dollaro o un euro. Persino nei casi in cui sono stati forzati alle dimissioni, se ne sono andati recando intatti con sé i loro compensi e risparmi miliardari. In sintesi, nessun responsabile della crisi è stato riconosciuto come tale, né sottoposto a una qualsiasi sanzione che non fossero le critiche di una quota marginale dei media. Dal 2010 in poi, è intervenuto nei Paesi dell'Unione europea un altro paradosso: i milioni di vittime della crisi si sono visti richiedere perentoriamente dai loro governi di pagare i danni che essa ha provocato, dai quali proprio loro sono stati colpiti su larga scala. Il paradosso è una catena che comprende diversi anelli. I principali sono cosi formati e disposti:
  1. Le maggiori banche europee, in stretto rapporto con quelle americane, hanno accumulato debiti colossali prima e durante la crisi, in specie per via della finanza ombra e del denaro che esse medesime hanno privatamente creato dal nulla o ampiamente utilizzato allo scopo di continuare a concedere montagne di crediti senza avere in bilancio i relativi fondi. In diversi Paesi Ue il totale di codesti debiti privati è pari o addirittura grandemente superiore al rispettivo debito pubblico.
  2. I bilanci pubblici, compreso in parte quello della Bce, hanno sofferto prima di un forte calo delle entrate a causa dei vantaggi fiscali concessi dai governi ai contribuenti più ricchi e alle imprese nell'ultimo decennio del secolo scorso e nel primo decennio del nuovo; poi, dopo il 2007 e dal lato delle uscite, sono stati prosciugati a causa delle somme spese o impegnate anzitutto per salvare le banche (oltre 4 trilioni di euro a livello Ue nel periodo 2008-11, di cui almeno 2 realmente utilizzati), nonché a causa dell'accresciuto volume dei sussidi di disoccupazione e similari, dovuto principalmente agli effetti della crisi.
  3. Le banche hanno convinto i governi e i politici che li sostengono che se anche solo alcune di esse avessero dovuto fallire, e neppure delle maggiori, ne sarebbe seguito un disastro per l'intera economia e società europee.
  4. In vista del suddetto pericolo, accresciuto dal fatto che dopo le spese e gli stanziamenti a loro garanzia nei bilanci statali non esistono più risorse sufficienti per salvare una seconda volta le banche, la Commissione europea, la Bce e il Fondo monetario internazionale hanno dato manforte ai governi nel diffondere una rappresentazione della crisi dei bilanci pubblici come se fosse dovuta all'eccessiva generosità dello stato sociale nei decenni precedenti.
  5. In presenza dei vuoti scavati nei bilanci, i governi hanno pertanto deciso di avviare una severa politica di austerità volta a ridurre soprattutto le spese, a cominciare dalla voce principale formata dai capitoli pensioni-sanità-istruzione, che sono i pilastri del cosiddetto modello sociale europeo.
  6. Le politiche di austerità si sono concretizzate sia in riforme nazionali, sul genere della riforma delle pensioni introdotta in Italia dal governo Monti nel giro di pochi giorni nell'autunno 2011, sia in severi diktat forgiati a Bruxelles. Tra questi spiccano vari documenti su cui si ritornerà (al cap. vii): il Memorandum di intesa imposto alla Grecia; il precitato «patto fiscale» (per la precisione «Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance») firmato dai capi di governo Ue nel marzo 2012 e approvato a larga maggioranza dal Parlamento italiano, senza minimamente discuterne la micidiale portata, il 20 luglio dello stesso anno; infine l'istituzione del Meccanismo europeo di stabilità.
  7. In appena tre anni, 2010-12, le politiche di austerità, congegnate e presentate come se fossero sicuri antidoti alla crisi, in realtà l'hanno aggravata e prolungata. La stagnazione dell'economia si è trasformata in una severa recessione. Il caso italiano è indicativo al riguardo, ma lo stesso si constata in altri Paesi europei e financo in Germania.
  8. Come conseguenza dell'aggravamento della crisi, il numero delle vittime di questa, in specie quello dei senza lavoro e delle legioni di precari, è ulteriormente cresciuto.
  9. Nessuno potrebbe seriamente credere nel 2013, a sei anni di distanza dal suo inizio, che una fine reale e definitiva della crisi sia prossima.
Se ci si chiede come una simile paradossale concatenazione di decisioni e di eventi sia stata possibile, vien fatto di pensare sulle prime a una colossale serie di errori commessa dai governi Ue. In effetti bisogna essere piuttosto ottusi in tema di politiche economiche per credere di poter rimediare alla crisi ponendo in essere, nel pieno corso di questa, robusti interventi dagli effetti recessivi affatto certi. Ciò nonostante, sebbene l'ottusità economica di parecchi governanti Ue sia fuor di dubbio, sarebbe far torto ai loro stuoli di consiglieri e funzionari supporre che non siano riusciti a far comprendere a ministri e presidenti del Consiglio e capi di Stato che l'austerità, nella situazione data, era una ricetta suicida dal punto di vista economico, se non anche da quello politico.
In realtà i governanti europei sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando recessioni di lunga durata. Ma il compito che è stato affidato loro dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non è certo quello di risanare l'economia. E piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso verso l'alto in corso da oltre trent'anni. Essa è stata messa in pericolo dal fallimento delle politiche economiche fondate sull'espansione senza limiti del debito e della creazione di denaro privato a opera delle banche, diventato palese con l'esplosione della crisi finanziaria nel 2007. I cittadini della Ue, al pari di quelli Usa, hanno già sopportato pesanti oneri prima per il processo di espropriazione cui sono stati sottoposti, in seguito per le conseguenze dirette della crisi. I loro governi debbono aver pensato che difficilmente avrebbero sopportato senza opposizione alcuna altri costi sociali e personali, sotto forma di smantellamento dei sistemi di protezione sociale e di peggioramento delle condizioni di lavoro di cui hanno goduto per almeno due generazioni. Però questo è l'ultimo territorio da conquistare per poter proseguire nel drenaggio delle risorse dal basso in alto. Esso è formato dalle migliaia di miliardi spesi ogni anno per i suddetti sistemi – gran parte dei quali, a cominciare dalle pensioni, rappresenta salario differito, non elargizioni da parte dello Stato.
I governi Ue hanno quindi posto in opera, al fine di ottenere che la classe da essi rappresentata possa proseguire senza troppi ostacoli la distribuzione dal basso in alto, due strategie che si sono rivelate negli anni post-2010 assai efficaci. La prima è consistita, come ricordato sopra, nel camuffare la crisi come se questa volta non avesse origini nel sistema bancario, bensì fosse dovuta al debito eccessivo degli Stati, provocato a loro dire dall'eccessiva spesa sociale. In secondo luogo, nella previsione che tale schema interpretativo non fosse sufficiente per tenere mogi i cittadini, hanno imboccato la strada dell'autoritarismo emergenziale. Cosi come in caso di guerra non si tengono elezioni per stabilire chi e come debba razionare i viveri, di fronte all'emergenza denominata «debito eccessivo dei bilanci pubblici» le misure da intraprendere per sopravvivere sono concepite da ristretti organi centrali: a partire dal Consiglio europeo, formato dai capi di Stato o di governo degli Stati membri. Ai suoi lavori collaborano la Commissione europea (il cui presidente fa parte del Consiglio) e la Bce. Inoltre godono dell'apporto esterno del Fondo monetario internazionale (Fmi). Le misure da prendere sono poi messe a punto dalla Troika costituita da Commissione, Bce e Fmi e inviate ai rispettivi Parlamenti per l'approvazione. Cosi è avvenuto per molti documenti: il memorandum inviato alla Grecia; il pacchetto di misure – mirate espressamente a smantellare lo stato sociale – chiamato Euro Plus; il cosiddetto «patto fiscale» ovvero Trattato sulla stabilità ecc.; la creazione del Meccanismo europeo di stabilità. Essendo l'approvazione «chiesta dall'Europa», i Parlamenti obbediscono, come è costretto a fare un organo politico in situazione di emergenza. Sono i governi a comandare.
Mediante codesto processo che è guidato a livello Ue da poche dozzine di persone, la democrazia nell'Unione appare in corso di rapido svuotamento. Persino il Trattato della Ue, nel quale il concreto esercizio della democrazia riceve assai meno attenzione del libero mercato e della concorrenza, appare aggirato sotto il profilo legale e costituzionale dai dispositivi autoritari messi in atto di recente dai governi e dalla Troika. Alle centinaia di milioni di cittadini della Ue, ciò che quel ristretto gruppo decide è presentato come alternativlos, cioè privo di qualsiasi alternativa: pena, minacciano i governi, il crollo dell'euro, dei bilanci sovrani, dell'intera economia europea. Posti dinanzi a simili minacce, che i media ripropongono ogni giorno a tamburo battente, i cittadini degli Stati cardine della Ue hanno finora subito si può dire a capo chino gli interventi dell'autoritarismo emergenziale dei loro governi e della Troika di Bruxelles, sebbene esso stia assumendo sempre più il profilo di un colpo di Stato a rate (ne tratta ampiamente il cap. vii).
Quando si espongono le considerazioni di cui sopra si arriva sempre alla domanda sul che fare. E inutile nascondersi che per coloro i quali pensano che potrebbe esistere un altro mondo al di là del totalitarismo neoliberale, la situazione è pressoché disperata. Il fatto è che codesta ideologia ha stravinto, a cominciare dall'ambito della cultura, delle idee, dell'informazione. Istruttivo a questo proposito è il caso del Powell Memorandum. Lewis F. Powell, un avvocato poi giudice della Corte suprema americana, nel 1971 inviò un memorandum confidenziale al presidente del Comitato Educazione della Camera di commercio Usa per contrastare quello che definiva l'attacco al sistema della libera impresa. Oggi sarebbe deliziato nel vedere come le sue proposte siano state applicate con successo, oltre che negli Usa, in tutta la Ue.
Il Powell Memorandum, reso pubblico soltanto vari anni dopo, proponeva anzitutto di intervenire sulle università, in specie sulle facoltà di scienze sociali, dato che scienziati, politici, economisti, sociologi e molti storici erano orientati nell'insieme in senso liberal, «anche là dove non siano presenti dei sinistrorsi». Da esse si doveva pretendere un tempo uguale per i conferenzieri; i libri di testo dovevano essere assoggettati a revisione e critica da parte di eminenti studiosi che «credono nel sistema»; lo squilibrio esistente fra dimensioni e peso delle facoltà doveva essere corretto. Indicazioni analoghe forniva il memorandum per quanto riguarda la televisione, la radio, la stampa, le riviste scientifiche, la pubblicità. Il testo proponeva persino di intervenire sulle edicole, perché queste esponevano ogni sorta di libri e riviste «inneggianti a tutto, dalla rivoluzione al libero amore, mentre non si trova quasi nessun libro o rivista attraente e ben scritto che stia "dalla nostra parte"» (9).
Nel volgere di alcuni decenni le dettagliate proposte del Powell Memorandum sono state messe in pratica negli Usa e in Europa, facendo registrare uno straordinario successo. I pensatoi o think tanks neoliberali sono passati da poche decine ad alcune centinaia. Le modeste somme in dollari o euro investite in campagne di lobbying per ottenere dai Parlamenti leggi favorevoli al mercato, alla libera impresa, alla privatizzazione di tutti i beni comuni sono diventati miliardi l'anno. Nella stessa misura sono aumentati i contributi versati ai candidati idonei al momento delle elezioni. Nelle università americane ed europee si sono salvate le facoltà di economia, previa una colonizzazione pressoché totale da parte dei «ragazzi di Chicago», gli ultraliberali discendenti di Milton Friedman. Invece tutte le facoltà di scienze sociali, e più in generale di scienze umane, sono state ridotte ai margini. Lo mostrano le classifiche concepite per selezionare quelle che dovrebbero essere le migliori università del mondo. L'eccellenza nei suddetti campi, quale possono vantare, per dire, la Sorbona o la Normale di Pisa, garantiscono in tali classifiche una posizione collocantesi fra il centesimo e il trecentesimo posto (10).
Quanto alla Tv e a ciò che espongono le edicole, il predominio dell'informazione neoliberale non potrebbe essere più evidente. La fabbrica dell'egemonia, gramscianamente parlando, del consenso che non ha bisogno (quasi mai) di ricorrere alla violenza, gira a pieno regime. Senza di essa il colpo effettuato da banche e Stati europei contro lo stato sociale e il lavoro non sarebbe stato possibile. Anche se in una prospettiva propriamente politica a un certo punto si dovrà pur arrivare a riforme profonde del sistema finanziario, del Trattato Ue, delle politiche economiche, appoggiate da adeguate forze elettorali, è forse dallo smontaggio di tale fabbrica che bisognerebbe cominciare.
(1) Su codesta illogica (Unlogik) cfr. H.R. Haeseler e F. Hörmnan, Banken (überwachung) am Pranger. Inkompetenz, Betrug oder Systemische Krise?, in «Jahrbuch für Controlling und Rechnungswesen», 2010, n. 29, pp. 6 sgg.
(2) Cfr. L. Gallino, Complesso militare-industriale, in Dizionario di Sociologia, Utet Libreria, Torino 20043.
(3) Su teoria e pratica di fenomeni del genere rinvio a Id., L'impresa irresponsabile, Einaudi, Torino 2005.
(4) Per definizioni e approfondimenti vedi L. Gallino, Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia, Einaudi, Torino 2009.
(5) Economic Policy Institute, «Issue Brief», 24 luglio 2012, n. 339, p. 3.
(6) Eurostat, In 2011, 24 per cent of the population were at risk of poverty or social exclusion, in «newsrelease», n. 171, 3 dicembre 2012, passim.
(7) E considerato soglia della povertà relativa un reddito personale netto pari o inferiore al 60 per cento del reddito mediano pro capite.
(8) L. F. Powell, Confidential Memorandum. Attack on American Free Enterprise System, inviato il 23 agosto 1971 a E. B. Sydnor jr, Chairman of Education Committee, US Chamber of Commerce, p. 8. Cito dalla riproduzione autentica del testo dattilografato ricostruito da Thwink.org (www.thwink.org/sustain/articles/017_PowellMemo/index.htm). Il numero delle pagine è stato ridotto da 37 a 20, pur mantenendo intatti testo e note dell'originale.
(9) Ibid., p. 14.
(10) Si veda la classifica, molto apprezzata dagli esperti, diffusa nell'estate 2012 dall'Università di Shanghai.
© 2013 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Il testo pubblicato costituisce l'introduzione al libro di Luciano Gallino, "Il colpo di Stato di banche e governi. L'attacco alla democrazia in Europa" (2013, Einaudi, pp. 352, 19,00 euro)

mercoledì 18 dicembre 2013

Dalle piazze dei forconi ad una strategia per il cambiamento – Nanni Salio

 

dicembre 12, 2013
nanni salio
    La grande crisi sistemica globale che ci coinvolge tutti quanti, in forme diverse, su scala mondiale, continua ad avanzare inesorabilmente producendo decine di migliaia di rivolte un po’ ovunque (Grecia, Spagna, primavere arabe, India, Cina, Brasile, Occupy negli USA, ecc.) e quella dei “forconi” è solo l’ultimo degli esempi, che colpisce in questi giorni l’Italia.
Questa crisi globale è prodotta dall’incompatibilità del modello di economia capitalista neoliberista con gli equilibri ecologici del pianeta sul quale viviamo e dalla sua incapacità e impossibilità di rispondere ai bisogni fondamentali di una popolazione mondiale che ha raggiunto i sette miliardi di persone. I poteri “senza volto” che dominano l’economia mondiale stanno imponendo lo smantellamento dello stato sociale in Europa che, bene o male, ha garantito una relativa pace negli ultimi cinquant’anni, senza minimamente curarsi delle conseguenze, pronti a fronteggiare ogni eventuale rivolta con la repressione più dura.
Sono temi dibattuti da anni, nella quasi totale indifferenza e ignoranza di gran parte dei politici, non solo quelli nostrani, e dell’elite economica e finanziaria, dai banksters (i gangsters del sistema bancario internazionale) ai dirigenti industriali, sino alla compiacenza persino più grave di ampi settori del mondo accademico (un nuovo “tradimento dei chierici”). E’ la “lotta di classe”, rivendicata da Warren Buffett, fatta dall’elite mondiale dello 0,1% contro il resto del mondo. Per il momento credono di stare vincendo, ma hanno la vista corta e il rischio è quello di una deflagrazione generale incontrollata senza vincitori, dove tutti saremo perdenti.
E’ in questo contesto, del tutto dimenticato, che si colloca la protesta che in questi giorni scuote l’Italia, in un momento di grave delegittimazione del sistema politico, di destra e di sinistra, che si è piegato supinamente alla filosofia imperante, sinora, del neoliberismo, applicando ricette economiche che stanno producendo guasti via via crescenti. E’ quello che Luciano Gallino, tra molti altri, denuncia nel suo ultimo libro come “Il colpo di stato di banche e governi” (Einaudi, Torino 2013). I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri si impoveriscono ulteriormente.
Ciononosante, non solo i nostri politici, ma economisti e imprenditori si limitano a riproporre il mantra della “crescita”, senza rendersi conto che per crescere occorre avere quantità anch’esse crescenti di flussi di energia, che non sono più disponibili a basso prezzo: “è il picco del petrolio, bellezza!” Abbiamo ampiamente sfondato i limiti di sostenibilità degli equilibri ecologici e continuiamo a sentirci ripetere che occorre continuare a crescere.
Ma le proteste in corso, a partire dal “MoViMento 5S” sino ai “forconi” si limitano prevalentemente a individuare nella sola classe politica la responsabilità di questa complessa e difficile situazione di crisi, definita una “casta”, senza sottolineare la ben più grave responsabilità di banchieri, speculatori, amministratori delegati delle multinazionali. Questa è la vera “casta”, l’oligarchia senza volto che cerca di imporre il proprio dominio assoluto. E’ il complesso militare industriale denunciato da Eisenhower sin dagli anni 1960, che nel frattempo si è esteso diventando “complesso militare-industriale-scientifico-corporativo-mediatico”. A tale proposito, basti pensare che, come non si stancano di ripetere gli ottimi rapporti annuali della campagna “sbilanciamoci” (www.sbilanciamoci.org), basterebbe rinunciare agli F35, al MUOS e alle inutili e dannose “grandi opere”, a cominciare dal Tav in Val di Susa, per trovare le risorse necessarie per rispondere immediatamente al malcontento e all’impoverimento dilaganti.
L’analisi potrebbe continuare a lungo, non solo da parte degli addetti ai lavori, ma promuovendo migliaia di dialoghi decentrati su come liberarci dalla schiavitù del debito rinegoziandolo a livello internazionale, su come completare un progetto di federazione europea, sulla politica della moneta unica, su un modello di economia autenticamente sostenibile e così via.
Ma non si è fatto nulla di tutto ciò e ampi settori della popolazione hanno subito le conseguenze devastanti della cosiddetta austerità (a senso unico e in direzione sbagliata, dall’alto verso il basso), sino a quando la situazione è diventata esplosiva con proteste e ribellioni, spesso senza un chiaro programma e facilmente strumentalizzabili.
Tuttavia, un altro percorso è stato avviato ben prima da coloro che non si limitano a protestare, ma stanno concretamente progettando la “transizione”. Non ci sono bacchette magiche che immediatamente risolvano tutti i problemi, ma sono in corso una miriade di iniziative costruttive dal basso, forse poco appariscenti, sebbene concrete ed efficaci, diffuse un po’ ovunque in Italia e altrove.
E’ una silenziosa “rivoluzione nonviolenta” che richiede impegno, continuità, pazienza, e si richiama alla lunga tradizione critica che da Gandhi passa attraverso Joseph Kumarappa (l’economista gandhiano), Ernst Fritz Schumacher, Ivan Illich e altri ancora, sino a giungere ai movimenti della “semplicità volontaria”, della decrescita, delle “città in transizione”. L’insieme di queste esperienze è un significativo esempio di “programma costruttivo”, simile a quello di cui parlava Gandhi.
Per renderlo più visibile e incidere maggiormente sulla realtà politica, in tempi che consentano di rispondere alle pressanti esigenze di coloro che si sentono esclusi e danneggiati, oltre alle azioni di solidarietà immediata, occorre lavorare per costruire un “movimento dei movimenti” capace di aggregare e dare voce e speranza agli esclusi, con un progetto e una visione d’insieme che unisca le molteplici associazioni, iniziative ed esperienze già esistenti. E’ una gigantesca opera di educazione alla trasformazione nonviolenta dei conflitti, che si propone concretamente di rendere le manifestazioni e le lotte di base più efficaci impiegando in modo creativo le molteplici tecniche di lotta nonviolenta con una visione strategica e non solo tattica dell’azione nonviolenta.
Nel nostro piccolo laboratorio del Centro Sereno Regis abbiamo da tempo avviato questo percorso e lo abbiamo chiamato “conflitti metropolitani”. Ma per renderlo più visibile, incisivo, dilagante è necessario ampliare la collaborazione con tutti e tutte coloro che già operano in una prospettiva di transizione verso una società nonviolenta. Le porte del Centro Sereno Regis sono aperte: un “bene comune” da valorizzare per promuovere un’azione nonviolenta concreta, creativa, costruttiva, duratura.

martedì 17 dicembre 2013

Perché La Repubblica è Si Tav?

- contropiano -
Inizia oggi un piccolo viaggio a puntate a bassa velocità dentro interessanti meandri societari per analizzare se i quotidiani/media che scrivono di TAV Torino-Lione in salsa SI TAV siano neutri oppure no rispetto alla eventuale realizzazione della Torino-Lione.
Quando la linea editoriale pluriennale di un mezzo di comunicazione è favorevole al progetto di un’opera pubblica può essere per tante ragioni, il frutto del caso, la posizione personale di un determinato caporedattore locale, l’adesione ad un progetto politico oppure – spesso è così –uno specifico interesse economico della società editrice.
L’articolo 21 della Risoluzione del Consiglio d’Europa 1003 del 1° luglio 1993 definisce incompatibili con il corretto giornalismo investigativo campagne giornalistiche realizzate sulla base di prese di posizioni “al servizio di interessi particolari”, ma questo articolo evidentemente è rimasto sulla carta: è un dato di fatto che gli interessi particolari riescano a farsi strada eccome nel mondo della c.d. informazione o la determinino, basta pensare a Mediaset, utilizzata massivamente per le campagne personali e particolarissime dell’azionista di maggioranza.
Per una piena comprensione delle scelte editoriali e per valutare l’affidabilità o meno del messaggio divulgato, è quindi indispensabile conoscere chi controlla ogni determinato media.
Individuati i proprietari, cioè gli azionisti, bisognerà poi cercare i loro settori di attività e chiedersi, ad esempio nel caso delle opere pubbliche, se abbiano o potranno avere in futuro un interesse economico all’espansione delle infrastrutture. Se non ci sarà alcun tipo di collegamento, si potrà dire serenamente che la linea editoriale favorevole sia stata determinata dall’adesione ad un progetto o pensiero politico o da altri fattori incidentali/economicamente neutri.
Al contrario, se si scoprirà un potenziale o concreto beneficio per i proprietari del media, esempio dalla realizzazione e poi messa in esercizio di linee ferroviarie ad alta velocità, allora non si potrà dire che quel media sia neutro ed equidistante dalle posizioni sul campo pro o contro, nè il suo messaggio affidabile quanto quello di un altro media disinteressato.
Partiamo allora per questo viaggio alla ricerca di eventuali conflitti di interesse con La Repubblica, quotidiano di carta stampata e internet, che da anni, in particolare con la redazione di Repubblica Torino, sostiene una campagna contemporaneamente SI TAV e contro-NO TAV.
La Repubblica è il titolo di un quotidiano/prodotto editoriale del Gruppo Espresso S.p.A.
L’azionista di riferimento del Gruppo Espresso è CIR S.p.A., con il 53,8%.
Vediamo chi sono i suoi principali azionisti.
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Il fondo spagnolo Bestinver Gestion S.A. detiene il 13,2% di CIR all’agosto 2013 (era l’11,4% al maggio 2013 http://www.cirgroup.it/investitori/principali-azionisti.html), ed è quindi il secondo azionista dell’intero gruppo.
Bestinver Gestion S.A. detiene poi direttamente l’1,9% di Gruppo Espresso al novembre 2013 (era il 2,2% al 18.4.2013)
(http://www.gruppoespresso.it/index.php?id=38)
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A questo punto vi chiederete perché insistere tanto su Bestinver, e la risposta è che Bestinver Gestion S.A. è controllato al 100% dal gruppo spagnolo Acciona, che fa molte cose tra cui costruire linee ferroviarie ad Alta Velocità e fornire corrente elettrica a linee ferroviarie (http://www.acciona.es/lineas-de-negocio/proyectos-emblematicos/linea-de-alta-velocidad)
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Ricapitolando: Acciona, società spagnola che costruisce, gestisce e mantiene linee ferroviarie ad AV, attraverso Bestinver controlla il 13% del principale azionista di L’Espresso S.p.A. e La Repubblica, ed è un azionista diretto dei due media.
Ma non solo.
CIR S.p.A. è anche l’azionista di maggioranza di Sorgenia S.p.A., una società italiana che si definisce il ‘secondo fornitore elettrico delle aziende italiane’ ed il primo ‘operatore privato nel mercato italiano dell’energia elettrica e del gas naturale’ e come tutti sanno, i treni ad AV vanno a corrente elettrica acquistata da fornitori, e così nel 2013 Acciona (azionista di CIR S.p.A. e quindi di Sorgenia S.p.A.) si è aggiudicata un appalto da 200 milioni di € dal governo spagnolo per alimentare le reti ferroviarie spagnole tradizionali e AV.
Torniamo allo scopo dell’inchiesta.
Si può dire che queste aziende (CIR S.p.A.-Acciona S.A.) siano disinteressate allo sviluppo delle linee AV ferroviarie?
Si può dire che siano disinteressate allo sviluppo delle linee AV ferroviarie in Italia? Considerate che Acciona S.A. con il suo gruppo non opera solo in Spagna, ma per fare un esempio, si era candidata a costruire il TAV in California e negli Emirati Arabi Uniti).
Si può ipotizzare che preferiscano un’espansione dei chilometri di cantieri da costruire ed un aumento della domanda di corrente elettrica?
Si può ipotizzare, estremizzando, che in Italia preferiscano il SI TAV anziché il NO TAV?
Certo, senza conoscere quello che capita nei consigli di amministrazione delle due società non è possibile stabilire o escludere un automatismo ‘potenziali interessi-linea editoriale SI TAV’, né è detto che i redattori locali di La Repubblica Torino che seguono le vicende TAV come il geniale Meo Ponte, conoscano i retroscena e la distribuzione di quote societarie della società per cui lavorano.
Ma si può dire con sicurezza che la linea editoriale complessiva, che da anni fa opinione e pressione su lettori e politici, è nettamente in salsa SI TAV, e che sulla carta ci sono elementi che la possono spiegare. E questo, in conclusione, è un elemento su cui bisogna ragionare quando si leggono gli articoli di La Repubblica Torino…o quando si cercano, senza trovarle, inchieste e notizie scomode.
Alla prossima puntata.

Come uscire dall'incubo della stagnazione

di Vincenzo Comito

Affidarsi a interventi legati alla sfera finanziaria o puntare sull'economia reale? Proposte e idee a confronto per uscire dalla grande crisi

Nelle settimane scorse abbiamo pubblicato un articolo (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Le-ragioni-finanziarie-della-crisi-dell-euro-21240) che riportava, tra l’altro, le valutazioni di alcuni economisti su quella che sembra delinearsi come un’epoca apparentemente lunga di sostanziale stagnazione dell’economia occidentale.
Tutto è partito da un recente discorso al Fondo monetario internazionale di Larry Summers, già segretario al Tesoro con Clinton. Summers sottolineava come l’economia dei paesi ricchi già prima della crisi si sviluppasse solo moderatamente e soltanto grazie a grandi stimoli monetari e alla crescita di una bolla immobiliare e di una del debito, pubblico e privato; egli constatava poi come ci si trovi oggi in una situazione di depressione di lungo termine (“secular stagnation”) che potrebbe durare a lungo e costituire ormai la normalità delle cose.
Tra i fattori che possono aver portato a questo risultato l’economista, rifacendosi anche ad Hansen – che, analizzando la crisi degli anni Trenta, citava tra le ragioni possibili il rallentamento del fattore demografico e di quello tecnologico –, sottolinea in particolare come l’abbassamento dei tassi di natalità porti con sé un rallentamento nei consumi e negli investimenti.
Il discorso di Summers è stato subito ripreso da due commentatori economici di peso, Paul Krugman, tra l’altro editorialista del New York Times e Martin Wolf, forse la voce più autorevole del Financial Times. I due studiosi hanno sostanzialmente approvato le analisi dell’economista americano, peraltro noto a suo tempo come uno dei “colpevoli” della crisi del sub-prime.
Le ragioni della stagnazione
Anche Stephen King (King, 2013) ha una visione molto negativa della situazione. Egli sottolinea come alla radice delle difficoltà stia il fatto che le retribuzioni sono depresse, mentre i tassi di interesse presentano la prospettiva di restare molto bassi a lungo; intanto il livello di indebitamento dei governi è elevato, mentre le imprese preferiscono conservare le liquidità nelle casseforti piuttosto che investirle; nonostante poi che le banche centrali tengano continuamente in funzione le macchine da stampa dei biglietti, l’inflazione si mantiene sorprendentemente a livelli molto bassi e semmai aleggia il pericolo della deflazione.
La situazione per l’autore appare molto diversa da quella del “periodo d’oro” dell’economia occidentale, quello dei decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, che presentava molte leve della crescita. Si poteva in effetti registrare la fine del protezionismo, presente in forze invece tra le due guerre, e la grande apertura delle frontiere, un rilevante aumento dell’offerta di forza lavoro, con l’ingresso sul mercato della manodopera femminile e, almeno negli Stati Uniti, dei baby-boomer, la forte crescita del livello medio di istruzione, in particolare di quella universitaria, l’espansione dell’indebitamento delle famiglie. Tutti questi fattori favorivano in maniera rilevante lo sviluppo.
Per Mariana Mazzuccato (Mazzuccato, 2013) gli indicatori della debolezza dell’economia reale sono oggi dovunque. Le grandi imprese non mancano certo di fondi; ma le prime 5.000 società dell’elenco di Fortune hanno speso 3 trilioni di dollari nell’acquisto di azioni proprie nell’ultimo decennio, mentre molte imprese leader in settori ad alta intensità scientifica e tecnologica hanno impiegato nello stesso periodo più fondi in operazioni di riacquisto di azioni proprie che in ricerca e sviluppo. La stagnazione di tipo secolare è nella sostanza, per la Mazzuccato, il risultato della mancanza di investimenti produttivi volti al futuro.
Non manca chi, correttamente a nostro avviso, sottolinea tra i colpevoli di questa situazione la crescente diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza (Rossi, 2013).
Jeoffrey Sachs (Rogoff, 2013) ha sostenuto che in particolare l’economia americana deve confrontarsi con una pletora di difficoltà strutturali ad uno sviluppo sostenibile, quali l’offshoring, lo sbilancio sul mercato del lavoro delle competenze richieste e invece di quelle disponibili, l’ invecchiamento delle infrastrutture.
Cosa si può fare
Naturalmente tra quelli che pensano che la tesi della stagnazione sia corretta si sta sviluppando il dibattito su cosa si possa fare per cambiare la situazione. Lo stesso Summers e M. Wolf, ipotizzando che le difficoltà dipendano sostanzialmente da una carenza di domanda, suggeriscono di aumentare gli investimenti privati e anche quelli pubblici, vista anche la grande disponibilità di liquidità presente nei mercati finanziari, disponibilità che aspetta con impazienza di trovare degli sbocchi adeguati.
Anche la Mazzuccato, così come il nuovo governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, sottolineano, parallelamente, la necessità di passare da un modello di sviluppo basato sui consumi, a loro volta spinti da un alto livello di indebitamento, ad uno basato sugli investimenti produttivi (Mazzuccato, 2013).
Per altro verso, la stessa Mazzucato ricorda che, in una situazione in cui la finanza si concentra sulle attività speculative di breve periodo, la politica dovrebbe avviare la riforma del settore e, parallelamente, la definanziarizzazione dell’economia reale, in modo da indirizzare le risorse verso gli impieghi produttivi.
Anche l’Economist (The Economist, 2013) si dichiara d’accordo sulla necessità di spingere sugli investimenti, in particolare su quelli pubblici, sottolineando come in molti paesi le infrastrutture siano in uno stato pessimo.
Heather Stewart sull’Observer (Stewart, 2013) cerca di presentare una lista delle proposte avanzate da diverse parti. La giornalista ne individua cinque.
Intanto la stessa Stewart ricorda la necessità di portare avanti misure di quantitative easing da parte delle banche centrali, come del resto per l’eurozona suggeriva W. Munchau e come ricordato nel nostro precedente articolo.
Ma la Mazzuccato ci ricorda peraltro che le risorse derivanti dai programmi di quantitative easing sono finite per la gran parte nelle casseforti delle banche invece di essere utilizzate per finanziare i programmi delle imprese.
Ann Pettifor, come ricordato dalla Stewart, suggerisce, nell’ambito di tale quadro concettuale, che sarebbe opportuno che le banche centrali finanziassero direttamente progetti relativi al rinnovamento delle infrastrutture e alla crescita dell’economia verde, coinvolgendo eventualmente nel processo anche i risparmiatori privati.
Viene poi il rimedio noto come elicopter money, che, nella sostanza, è una variante spinta del quantitative easing e che consiste nel fare correre al massimo le presse e a stampare denaro da distribuire in qualche modo al pubblico e/o da fornire in qualche modo alle casse dello stato.
Un economista statunitense, Adam Posen, suggerisce poi, tra l’altro, la creazione nei vari paesi di un’istituzione apposita che faccia prestiti alle piccole e medie imprese vendendo sul mercato delle obbligazioni mirate.
I ben noti e contestati economisti statunitensi Carmen Reinardt e Ken Rogoff suggeriscono invece la necessità di una ristrutturazione del debito pubblico dei paesi in maggiore difficoltà, secondo schemi già utilizzati negli scorsi decenni per i paesi sottosviluppati (Rogoff, 2013).
C’è infine un metodo più blando di ristrutturazione finanziaria, suggerisce la Stewart, che è quello di tenere i tassi di interesse sui depositi a livelli molto bassi e ad obbligare le banche e i fondi pensione a tenere nel loro portafoglio rilevanti quote di obbligazioni pubbliche; questo metodo di repressione finanziaria, come è meglio noto, permetterebbe ai governi di continuare a farsi prestare del denaro alla fine a spese dei risparmiatori.
Il salario minimo
Nel dibattito sul cosa fare si possono inserire alcuni sviluppi recenti in tema di salario minimo orario. Certo misure di questo tipo possono dare solo un contributo moderato alla soluzione del problema, ma esse dovrebbero certamente essere benvenute.
È noto come in Germania gli accordi tra la Merkel e l’Spd per la formazione del nuovo governo prevedano l’introduzione del salario minimo orario pari a 8,5 euro, valore che non appare disprezzabile e che corrisponde, al cambio odierno, intorno agli 11,5 dollari. Tale misura dovrebbe contribuire ad aumentare la remunerazione di molti milioni di lavoratori del paese e bisogna poi considerare anche l’effetto di riflesso che esso potrà avere su di una platea più ampia di lavoratori.
Intanto negli Stati Uniti, dove il salario minimo orario nazionale è oggi e da diversi anni di soli 7,5 dollari, si discute in queste settimane se elevarlo, secondo le proposte di Obama, almeno sino a 10,0. Ma la decisione a livello nazionale è bloccata, come al solito, dai repubblicani, mentre diversi economisti neoliberisti manifestano il dubbio che tale aumento possa essere dannoso all’economia. Nel frattempo, peraltro, molti stati hanno approvato una soglia di remunerazione più alta.
Conclusioni
Sembrano molti gli economisti che si sono dichiarati sostanzialmente d’accordo con l’analisi di Summers.
Per quanto riguarda i possibili rimedi alla situazione, si invocano interventi che hanno a che fare più strettamente con la sfera finanziaria (allargamento delle politiche di quantitative easing, miglior controllo ed indirizzo della finanza, ristrutturazione del debito pubblico di diversi paesi, ecc.) ed altri che toccano più direttamente la sfera dell’economia reale (in particolare puntando su maggiori investimenti privati ed anche, se non soprattutto, pubblici).
Ma sulla strada della gran parte degli interventi invocati c’è di mezzo la politica; le misure elencate verrebbero ad urtare contro la forte e decisiva opposizione della Merkel in Europa e dei repubblicani negli Stati Uniti.
Cosa fare allora? Non vorremmo che prevalesse l’attuale ricetta britannica, che consiste apparentemente nel gonfiare di nuovo le bolle immobiliare, della finanza e del debito, con qualche risultato sul breve termine, come sembra, ma con prospettive piuttosto note a distanza ragionevole.


Testi citati nell’articolo
-King S., There is no easy escape from secular stagnation, www.ft.com, 25 novembre 2013
-Mazzuccato M., Serious innovation requires serious state support, www.ft.com, 4 dicembre 2013
-Rogoff K., What’s really behind sluggish economic growth?, www.theguardian.com, 4 dicembre 2013
-Rossi D., Companies must reinvest their cash hoard, www.ft.com, 27 novembre 2013
-Stewart H., Unthinkable? Five radical ways to stop the economic slump, www.theguardian.com, 24 novembre 2013
-The Economist, More bricks, fewer bubbles, 7 dicembre 2013

Le alternative per un'altra Europa

di EuroMemorandum

Dalla politica fiscale e monetaria alla governance delle istituzioni europee, passando per l'accordo di libero scambio che Ue e Stati Uniti si preparano a firmare. La sintesi del Rapporto 2014 di Euromemorandum, presentato in anteprima sabato 14 nel corso del convegno "L'Europa Giusta"

L'Unione Europea è in condizioni di uscire dalla recessione, ma alcune parti d'Europa sono ancora in depressione; la disoccupazione è particolarmente elevata nei paesi periferici della zona euro e non dovrebbe ridursi sensibilmente nel prossimo futuro. Le pesanti politiche di austerità hanno generato una profonda polarizzazione sociale in Europa e hanno indotto un processo di ristrutturazione industriale in cui si è rafforzata la posizione della Germania e degli altri paesi del Nord, mentre si è indebolita la posizione produttiva dell’Europa meridionale. La crisi ha determinato anche una significativa trasformazione della distribuzione del reddito. Nella maggior parte dei paesi esterna al “core” dell'area dell'euro i salari reali sono diminuiti, in maniera più intensa nella periferia dell'area dell'euro e in gran parte dell'Europa orientale. Allo stesso tempo, la gerarchia tra gli stati membri si è attenuata con la posizione della Germania e degli altri Stati del Nord che si è rafforzata, mentre la posizione degli Stati del Sud si è indebolita e in ampi settori la politica economica di Bruxelles è quella che vale in realtà. Le attività della Commissione europea sono sempre caratterizzate da un grave deficit democratico e da una mancanza di trasparenza. Decisioni chiave sono prese in riunioni a porte chiuse senza dover rispondere ai parlamenti nazionali o al Parlamento europeo, dove potenti lobbies possono esercitare notevole influenza. In un certo numero di paesi i partiti di destra – in alcuni paesi raggruppamenti neo-fascisti – sono stati in grado di capitalizzare la diffusa disaffezione nei confronti dell'Unione europea e delle politiche che Bruxelles impone agli Stati membri.
Politica fiscale e monetaria
La recessione economica nell'UE è in via di soluzione ma la produzione è ancora al di sotto dei livelli del 2008 e la situazione è nettamente caratterizzata in molti paesi da elevata disoccupazione e da riduzione dei salari reali. La fase acuta della crisi finanziaria è stata superata, ma il sistema finanziario resta molto fragile e le banche hanno nel 2013 ancora ridotto i prestiti. Le politiche fiscali fortemente restrittive imposte a molti Stati membri ha reso ancora più difficile soddisfare i rigorosi obiettivi di contenimento del deficit. Mentre la BCE ha stabilizzato le banche con circa 1.000 mld di euro con prestiti triennali in incondizionati, continua ad essere vietato il credito ai governi. Dato la rigida adesione dell'UE ai principi neoclassici, sono i salari che devono sostenere l’intero peso dell’aggiustamento. I salari reali stanno registrando una contrazione in alcuni paesi, e ciò sta sostenendo le pressioni deflazionistiche che stanno dilagando in gran parte dell'Europa. Piuttosto che ricorrere a maggiore austerità, la politica del governo dovrebbe concentrarsi su iniziative di sostegno dell'occupazione per promuovere la crescita di posti di lavoro socialmente e ambientalmente desiderabili. L'impatto regressivo dei tagli alla spesa pubblica dovrebbe essere evitato e andrebbe rafforzata l’istruzione pubblica e la sanità. Andrebbero finanziari maggiori livelli di spesa invertendo la tendenza degli ultimi 20 anni di continui tagli delle imposte. Il bilancio europeo deve tendere al 5% del PIL dell'UE in modo da avere un impatto significativo sulla produzione e sull'occupazione. Il finanziamento dei disavanzi pubblici andrebbe mutualizzato attraverso l'emissione di obbligazioni in euro emesse dall’insieme dei paesi in modo che la speculazione non possa concentrarsi sui paesi più deboli. L’attuale situazione del debito pubblico in diversi Stati membri non è sostenibile; il debito non può essere completamente rimborsato per cui andrebbe sottoposto ad un audit per determinare quali debiti sono legittimi e quali dovrebbero essere annullati. La pressante compressione dei salari andrebbe sostituita da una più diffusa contrattazione collettiva. Un aumento regolato dei salari può contribuire al superamento della debolezza della domanda interna in Europa oltre a garantire una maggiore giustizia sociale. Al fine di combattere la disoccupazione e creare condizioni in cui la vita delle persone non siano dominati dal lavoro salariato, la settimana lavorativa normale andrebbe riportata verso le 30 ore senza perdita di retribuzione.
Politica finanziaria e bancaria
Cinque anni dopo il fallimento di Lehman Brothers, la crisi finanziaria e bancaria dell’UE non è ancora risolta. Nella maggior parte dei paesi dell'Unione, il sistema bancario si presenta ancora fragile, nonostante l'enorme quantità di liquidità fornita dalla BCE. La situazione del settore bancario è molto critica in alcuni paesi come la Spagna. A metà del 2012, la Commissione ha proposto la Banking Union (BU) come un nuovo progetto europeo per risolvere la crisi. A dispetto della sua struttura ambiziosa, la BU non cambia il paradigma dominante del settore bancario in Europa. Le riforme proposte dal rapporto Liikanen sul sistema bancaria rafforzano il ruolo delle banche universali nella UE, invece di spingere per una rigida separazione tra retail banking e investment banking. Le riforme sollevano anche interrogativi sulla democrazia e la governance nell'Unione europea in quanto aumentano il ruolo della BCE, che diviene il meccanismo unico di vigilanza sulle banche. Nonostante la BCE sia in parte responsabile per la profonda crisi del debito sovrano nella zona euro, in quanto si rifiuta di prestare direttamente ai governi sul mercato primario. La lentezza e la debolezza delle riforme finanziarie è stata aggravata dalla forte influenza che la lobby finanziaria è riuscita a contrastare una regolamentazione efficace. Le istituzioni europee dovrebbero perseguire con chiarezza l’obiettivo di ridurre il peso della finanza nell'economia. Le attività speculative dovrebbero essere vietate. Le banche commerciali devono essere isolate dai mercati finanziari e dovrebbero concentrarsi sul proprio core business: il credito al settore non finanziario. La direttiva sulla Financial Transactions Tax proposta dalla Commissione deve essere rapidamente attuata. La BCE dovrebbe essere sottoposta ad un effettivo controllo democratico e dare priorità agli obiettivi sociali ed ecologici.
La governance nell'Ue
L'entrata in vigore del Trattato di stabilizzazione, coordinamento e governance e la direttiva 'Two Pack' segnalano che la politica economica nei paesi della zona euro è ora assoggettata al pieno controllo centrale. Anche se i poteri dei parlamenti degli stati membri sulla politica economica sono stati radicalmente ridotti, non vi è alcun corrispondente aumento dei poteri del Parlamento europeo. La moltiplicazione dei rozzi vincoli aritmetici sulla spesa pubblica e sull'indebitamento è probabile che sia tanto poco funzionale in futuro quanto analoghe esercitazioni lo sono state quasi sempre in passato. Queste regole semplicistiche esprimono una sfiducia per le democrazia e una sovrastima della capacità dei processi di mercato di stabilizzare la vita economica. La retorica della competitività utilizzata dai leader europei per giustificare sia l’impostazione restrittiva della politica economica, sia la incalzante pressione sugli Stati membri più deboli ha anche la funzione di limitare il controllo democratico sull'economia. Le restrizioni legali in materia di politica economica sono ormai così pesanti che efficaci politiche alternative impongono sia l'abrogazione delle nuove misure di governance che il loro esplicito assoggettamento alle altre priorità, l'occupazione, la sostenibilità ecologica e la giustizia sociale.
L’imposizione fiscale
La rilevanza economica e politica dell’imposizione fiscale è diventata sempre più evidente da quando la crisi in Europa ha inciso con più forza sulle finanze della maggior parte degli Stati membri e quindi la vita dei loro cittadini. I gruppi di difesa globali e regionali che si occupano di questioni di giustizia in materia di fiscalità e di questioni fiscali, hanno un seguito crescente all'interno delle società civili europee, rafforzate dalla denuncia di una diffusa evasione fiscale da parte delle multinazionali e dei ricchi. In risposta sia alla crescente indignazione dei cittadini europei per l’evasione su scala industriale degli obblighi fiscali e per l'emorragia delle entrate pubbliche a causa della recessione e della stagnazione, i governi europei hanno dato maggiore enfasi al contrasto dell'evasione fiscale e dalla “concorrenza fiscale sleale”. La Commissione europea, con il forte incoraggiamento del Parlamento europeo, ha approvato una serie di riforme fiscali volte ad accrescere la trasparenza delle relazioni fiscali transfrontaliere. Queste riforme comprendono lo scambio di informazioni secondo la Direttiva europea sul Risparmio fiscale, l'istituzione di una base imponibile consolidata comune e, all'interno dell'area dell'euro, una imposta sulle transazioni finanziarie. Mentre tali iniziative sono le benvenute nel confuso panorama dei sistemi fiscali europei, esse saranno insufficienti a porre termine alle politiche fiscali ‘beggar – thy – neighbor’ (scaricare le difficoltà sui vicini) che sono proseguite durante la crisi attuale e che certamente non contribuiranno ad una inversione di tendenza nella crescita delle disuguaglianze di reddito e della povertà in Europa. Solo una radicale armonizzazione delle imposte dirette basata sulla loro progressività che interessi tutti gli Stati membri, la rimozione dei regimi di fiscalità “piatta” nell’Europa centrale e orientale e la convergenza delle aliquote fiscali a livello europeo potranno garantire la sopravvivenza di una cultura della solidarietà sociale nella regione.
Occupazione e politica sociale
La crisi finanziaria ed economica ha avuto un impatto sociale profondamente regressivo per molte persone in Europa per l’alto tasso di disoccupazione, la povertà e per molti giovani la perdita di un futuro. Secondo gli ultimi dati, nell’UE un quarto della popolazione europea è in condizioni di povertà e un ottavo della sua forza lavoro è disoccupata. I livelli di disoccupazione giovanile sono particolarmente inquietanti: per l'intera UE è uno su quattro, mentre nei paesi colpiti dalla crisi del sud come Grecia, Spagna e Italia si sale a uno su due o uno su tre. L'elevata disoccupazione e la povertà hanno indebolito la posizione negoziale della forza lavoro nei confronti dei datori di lavoro e questo si è riflesso in condizioni di lavoro più precarie: uno su cinque contratti nell'Unione europea sono a tempo determinato e i lavori a orario ridotto e a part-time involontario sono aumentati dall'inizio della crisi. La risposta UE non è riuscita a fornire le risorse per attenuare l'impatto della povertà e della disoccupazione giovanile. Le sue stesse istituzioni, quale la DG per l’occupazione, gli affari sociali e l'inclusione, non sono state in grado di monitorare e sostenere gli Stati membri che si vivono una sempre più profonda crisi economica e sociale. Le istituzioni dell'UE dovrebbero, come misura immediata, valutare l'impatto sociale causato dai tagli alla spesa che essa ha imposto agli Stati membri. Essa dovrebbe quindi fornire un sostegno nei settori chiave, in particolare per l'assistenza sanitaria, e assicurare il necessario supporto per bambini e giovani che stanno subendo il peso della disoccupazione e della povertà. Per proteggere la popolazione attiva dalla crescente ondata di condizioni di lavoro precarie, i sussidi dei programmi di assicurazione sociale dovrebbero essere estesi con urgenza a tutti i lavoratori, indipendentemente dal loro tipo di contratto. L'UE dovrebbe inoltre avviare iniziative legislative per adeguare la legislazione del lavoro europea in linea con un mercato del lavoro in rapida evoluzione.
La politica industriale
L'urgenza di una politica industriale in Europa comincia ad essere riconosciuta dalla Commissione Europea. Ma le sue proposte restano confinati al quadro ristretto della politica di concorrenza orientata esclusivamente agli obiettivi di performance a breve termine del mercato. Si rende necessaria una alternativa capace di collegare l'obiettivo di performance industriale a lungo termine con l’interesse per una trasformazione socio-ecologica. Questo dovrebbe coinvolgere sei grandi dimensioni: (1) a livello europeo, un piano di investimenti pubblici per la ricostruzione socio-ecologica al fine di stimolare la domanda europea, (2) una inversione di tendenza rispetto alla grave perdita di capacità industriale in Europa, (3) l'urgente riorientamento verso nuove attività ambientalmente sostenibili, a conoscenza intensiva, ad elevata competenza e salario, (4) il rovesciamento della politica di intense privatizzazioni degli ultimi decenni e un intervento pubblico a sostegno di nuove attività a livello comunitario, nazionale, regionale e locale; (5) l'impostazione di un diverso tipo di “sicurezza” in termini di disarmo, di maggiore coesione e di minori squilibri all'interno dell'UE e dei singoli paesi, e (6) la creazione di un nuovo importante strumento di politica per la trasformazione ecologica dell'Europa. Le attività specifiche che potrebbero essere coinvolte da questa nuova politica industriale comprendono: (a) la tutela dell'ambiente e delle energie rinnovabili, (b) la produzione e la diffusione delle conoscenze, le applicazioni delle TIC e le attività di web-based, (c) i servizi alla salute, al benessere e alle attività di cura, (d) il sostegno alle iniziative per dare soluzioni socialmente ed ecologicamente sostenibili alle questioni alimentari, mobilità, edilizia, energia, acqua e rifiuti.
Il partenariato Ue-Usa nel commercio e negli investimenti transatlantici
Negli ultimi anni l'Unione europea ha negoziato numerosi accordi commerciali bilaterali. Questo è stato superato dall’annuncio nei primi mesi del 2013 che l'UE e gli USA avevano deciso di avviare negoziati per un accordo commerciale bilaterale, il cosiddetto Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP). L'accordo proposto non è destinato solo a ridurre le tariffe tra i due maggiori blocchi commerciali dell'economia mondiale, ma il suo scopo primario è quello di smantellare e/o armonizzare le normative in settori quali l'agricoltura, la sicurezza alimentare, gli standard tecnici dei prodotti, i servizi finanziari, la protezione dei diritti di proprietà intellettuale e gli appalti pubblici. Questione centrale sarà anche la liberalizzazione e la protezione degli investimenti. La Commissione europea, sulla base di studi prodotti, sostiene che l'accordo promuoverà la crescita e l'occupazione nell'Unione europea. Gli effetti economici del TTIP sono, tuttavia, insignificanti. I guadagni in termini di reddito sono stimati a meno dell'1% del PIL dell'UE e saranno realizzati gradualmente nel corso di un decennio. L’aumento dei costi in termini di disoccupazione e dell’adattamento alla liberalizzazione del commercio sono sottovalutati o trascurati del tutto. La deregolamentazione prevista dall’accordo commerciale minaccia la salute pubblica, i diritti del lavoro e la tutela dei consumatori. La soluzione proposta per regolare le controversia investitore-Stato privilegia i diritti degli investitori a scapito dell’autonomia della politica pubblica. Il TTIP non è altro che un attacco frontale al processo decisionale democratico nell'UE. Sono urgenti delle necessarie e profonde revisioni nell’agenda dei negoziati. Al momento, è molto dubbio se l'accordo commerciale produrrà dei benefici netti, economici e sociali, per i cittadini europei. Una valutazione dell'impatto globale attraverso dettagliati studi sulle molte questioni critiche e una rottura radicale con la mancanza di trasparenza che le caratterizza sono i primi passi essenziali per il necessario dibattito democratico sul TTIP.

Traduzione della sintesi del Rapporto 2014 di Euromemorandum a cura di sbilanciamoci.info
Qui il rapporto integrale:

REVELLI: “COME IN GERMANIA NEGLI ANNI ’30. LA SINISTRA SI È DATA ALLA FUGA E HA LASCIATO LE STRADE ALL’ESTREMA DESTRA”

Luca De Carolis - giacomosalerno -

  Palazzo Chigi - conferenza stampa al termine dell'incontro del presidente del Consiglio Romano Prodi con la Commissione Povertˆ
Professore, è davvero così preoccupato?
In questi giorni mi è venuta in mente una considerazione sull’ascesa del nazismo: ‘Hitler ha vinto perché dall’altra parte non c’era più nulla’.
Trasposto nella realtà italiana?
I partiti non sanno più parlare a chi sta male, non capiscono i cittadini. E questa è una colpa soprattutto della sinistra, da tempo fuggita dalla società. Ma tutta la politica è in una profondissima crisi.
Partiamo dall’inizio: chi e perché sta riempiendo le piazze?
A Torino e nel Nord-Est, gli epicentri del fenomeno, il grosso è composto dal cosiddetto popolo della partite Iva e dai microimprenditori artigiani. Protestano perché non ce la fanno più a mantenere il proprio stile di vita o ad andare avanti: non hanno più credito dalle banche e combattono con le cartelle di Equitalia. Ma sono nelle strade anche perché hanno perso i punti di riferimento politici, in primis Berlusconi e la Lega.
L’ex premier è ancora forte nei sondaggi.
Ma non è più un modello, almeno per le frange più deboli.
Il segretario della Cgil, Susanna Camusso, sostiene: “Non si capisce cosa vogliano certe piazze”.
È una frase imbarazzante, che conferma come ormai siano saltati anche gli organi di mediazione sociale, a cominciare proprio dai sindacati. Come è possibile che la Camusso non abbia il polso della situazione? Ma questo vale in larga parte anche per Confcommercio, Confartigianato e associazioni varie.
La protesta, soprattutto al Sud, è spesso partita dai Forconi. Che ne pensa?
Il loro simbolo rappresenta un ritorno del pre-moderno in un’epoca di iper modernità. Un fatto che spesso si accompagna alla povertà di ritorno.
È un movimento di destra?
Le mappe e le categorie politiche sono inadeguate per definire quanto sta accadendo. Siamo di fronte a un’effervescenza confusa, inedita per l’Italia, in cui c’è dentro un po’ di tutto. Era una situazione prevedibile: bastava ascoltare e osservare certi segnali. Non è stato fatto.
Il governo cosa dovrebbe fare?
Dovrebbe finalmente prendere atto che ormai ci sono 9 milioni e mezzo di italiani in uno stato di povertà relativa, e porre questo problema in cima alla sua agenda, assieme a quello dell’indebitamento diffuso. E invece Letta annuncia l’abolizione del finanziamento ai partiti, e i giornali fanno finta di crederci.
Lei parlava dell’inadeguatezza della sinistra. Ma Renzi?
Farà finta di estrarre qualche coniglio dal cilindro.
Grillo?
Tra quelli che protestano l’avranno votato in diversi. Ma appena entrato in Parlamento, il suo movimento è stato assimilato dalla politica.
Ora cosa può succedere?
Gli scenari possibili sono diversi. Può darsi che la situazione si calmi per qualche mese, magari con il ritorno alle urne. O che invece si inasprisca, portando verso una guerra sociale. Per esempio, con il ceto medio democratico contro i nuovi poveri fascistoidi.
L’estrema destra è salita sul carro della protesta, soprattutto a Roma.
È preoccupante dirlo, ma i movimenti di quell’area sono gli unici che sanno come parlare al Paese che insorge, che conoscono il codice giusto. Tentano di infilarsi in questo spazio. E questo potrebbe avere effetti a medio termine.
Teme per la stabilità democratica?
Dico che è meglio che tutto questo stia venendo fuori: se fosse rimasto a covare sotto la cenere sarebbe stato peggio. Sul futuro, vedremo.

domenica 15 dicembre 2013

OLTRE - V3DAY: Dario Fo e il valore della cultura

 
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L' intervento di Dario Fo, premio nobel per la letteratura, a OLTRE V3DAY di Genova

"Sono felice di essere qua! Ma tanto felice! Io vorrei svolgere davanti a voi un discorso sulla cultura e sul suo valore in una società civile.
I grandi... esperti mondiali di economia fino dall’inizio della crisi internazionale che stiamo vivendo hanno denunciato con grande vigore che quell’immane catastrofe che ci ha scaraventati in ginocchio è il risultato di una vera e propria truffa combinati a attraverso l’utilizzo dei cosiddetti derivati e dei titoli spazzatura. A dimostrazione di quello scempio abbiamo visto qualche anno fa dall’America un servizio in cui venivano rappresentati migliaia di impiegati con le loro pratiche infilate in cartoni che se ne uscivano licenziati in tronco dagli istituti di crediti americani caduti in rovina. L’onda malefica è giunta poi fino a noi, presentata in altri termini ma con le stesse truffalderie. Tutti i nostri governanti che si sono succeduti in questi ultimi anni ci hanno parlato subito con il cuore spezzato dal dolore dei sacrifici che tutti, ripeto, tutti gli italiani equanimamente, come diceva il professore Monti, ricchi e poveri, abbienti e straccioni, avrebbero dovuto sopportare, per salvarci dal baratro in cui stava cadendo tutta la nazione.
E qui è arrivata la più grande, ripeto, la più grande, frode finanziaria a dire poco spietata! Chi ha pagato e continua a pagare queste debito togliendosi dalla propria tasca fino all’ultimo denaro? Soltanto gli operai! I piccoli risparmiatori, gli impiegati in bilico, le donne, i giovani, i pensionati! Una rapina sui diseredati per salvare chi?! La nazione?! No! Le banche e le multinazionali! Gli speculatori, i furbi, sono rimasti indenni, anzi ne hanno avuto vantaggio, molti tengono il loro capitale nascosto qua e là nei paradisi fiscali. Ormai è chiaro, il Paradiso è solo per i potenti e i manigoldi.
Tra qualche giorno lo dirà anche il nostro beneamato Papa Francesco, e noi stupiti per tanta spudoratezza del potere economico che si fa? Si resta con la bocca spalancata emettendo ogni tanto qualche gemito classico dei fottuti da sempre?! No per Dio! Oltretutto non è sempre andata così! C’è stato un tempo di cui di fronte alle angherie e rapine si reagiva eccome, a iniziare dall’epoca antica in cui si sono fondati i comuni, circa mille anni fa, allora fare il politico non era una professione per gli scaltri, ma un diritto e un dovere per ognuno. I responsabili delle libere repubbliche in Italia davano molta importanza alla conoscenza, quindi alle biblioteche, università e accademie. Le sovvenzioni per sostenere la cultura erano elargite in abbondanza perfino più tardi all’epoca delle signorie, con i principi e i duchi, il Vitale bisogno d’arte di sapere era così profondamente entrato nello spirito di ognuno da non poterne fare a meno! Così che oggi in Italia, grazie a quell’antico amore per la bellezza e il sapere, custodisce un enorme patrimonio culturale.
Godiamo di una straordinaria quantità di capolavori, monumenti, biblioteche, che però facciamo fatica a gestire e mantenere attive, anzi le lasciamo andare in rovina, ogni giorno frana qualche cosa, ma come è che i dirigenti, salvo ultimamente il nostro Caimano preferito, non franano mai?! Anzi vengono scaricati sì, ma con buone uscite da nababbi. A me capita spesso di recarmi all’estero per allestire spettacoli e recitare, e incontro molti giovani italiani costretti a emigrare in università d’altri Paesi per poter arricchire le proprie conoscenze, quei giovani devono sopportare grandi sacrifici, spesso impararsi da zero una lingua e soprattutto accettare lavori pesanti e male retribuiti, come le pulizie notturne negli uffici, i camerieri, i facchini, pure di riuscire a pagarsi gli studi. Oltretutto una volta terminato il proprio percorso formativo in grande numero questi laureati trovano facilmente lavoro in aziende straniere e quindi non conviene loro tornare in Italia! Così ecco che, come se non bastasse, perdiamo un numero incredibile di talenti, che avrebbero significato un bene inestimabile per il nostro paese e economia, ma come mai siamo arrivati a questo livello?! È semplice, i responsabili culturali dei vari governi che ci sono stati alla guida dell’Italia sempre meno hanno ritenuto importante investire nel sapere e nell’arte. Infatti quando un governo deve nominare un ministro alla cultura, chi scelgono? Sempre degli incapaci!
E soprattutto personaggi di scarto, che non si saprebbe dove piazzare? Dove lo sistemiamo questo imbecille calvo? Alla cultura naturalmente, ce lo tiriamo via di mezzo. A riprova di questo c’è stato un nostro ministro dell’economia, un certo… Tremonti, che con prosopopea ha dichiarato "con la cultura non si mangia!" Una imbecillità a dire poco galattica! Di contro proprio in queste ultime settimane il governo Francese, ripeto, il governo Francese, ha dato notizia,ha detto l’ambito in cui l’economia si ritrova in maggiore vantaggio in quella nazione non è più l’industria automobilistica, giacché essa è stata di gran lunga sorpassata dalla gestione dei beni culturali. Questo succede quando una nazione è cosciente dello straordinario potenziale che sta nel sapere, e noi come possiamo essere così disinformati e inetti?! Da dove viene questo… tracollo?! Fate caso, in questi ultimi anni abbiamo assistito e partecipato a un numero enorme di elezioni regionali, comunali, provinciali, ebbene, in nessuno di quelle campagne si è avuta mai l’occasione di incappare in un solo politico di professione che trattasse con serietà nel suo discorso la questione dell’informazione, del conoscere e della scuola, mai! Come dicono oggi tutti gli oratori che trattano di politica si parla esclusivamente alla pancia degli elettori, non al cervello, la pancia, il pensiero è un optional di poco conto.
Oltretutto oggi andando all’estero ci rendiamo conto che la nostra reputazione presso tutti i paesi d’Europa e d’America si è spaventosamente abbassata. Gli stranieri, come scoprono che siamo italiani, fanno battute ironiche sulla nostra situazione finanziaria e soprattutto politica, sulla nostra credibilità morale, sghignazzano sui nostri governanti e manca poco che ci si senta trattare a nostra vostra da cialtroni senza dignità e coraggio civile!
Purtroppo noi davanti a quel disprezzo non sappiamo come reagire, ma che cosa è successo? Che cosa è successo?! È chiaro, abbiamo seppellito la nostra memoria! E con lei il tempo della dignità e dell’orgoglio. I foresti, come noi li chiamavamo secoli fa, si guardavano bene allora di disprezzarci, giacché in ogni stagione venivano volentieri, scendevano da noi, sia per fare affari che per conoscere le nostre città, da tutti elogiate per le architetture dallo stile inimitabile, i giardini, lo stato delle acque, con canali e fiumi, navigabili per chilometri e chilometri, in quel tempo frotte di giovani dall’estero venivano nelle nostre università di enorme prestigio, per apprendere scienza, filosofia e arte, noi eravamo maestri in ogni disciplina! La cosiddetta meccanica era salita nei nostri cantieri al livelli straordinari, si costruiva impiegando macchinari ideati da noi, sia nell’edilizia che nella marineria, celebri erano i nostri navigatori, meglio capitani di Navi, scopritori di terre, che ancora oggi portano i loro nomi, gli arsenali di Venezia e di Genova erano in grado di costruire una intera flotta di navi in pochi mesi, usando la tecnica dell’assemblaggio dell’imbarcazione direttamente sul luogo dove si tagliavano gli alberi, cioè sulle montagne, dove si montavano gli scavi e li si faceva giungere al mare attraverso fiumi e canali.
Purtroppo eravamo anche tra i migliori fabbricanti di ordigni da guerra, vedi cannoni e Spingarde, ma il nostro livello più alto veniva raggiunto dell’arte di costruire Chiuse, per regolare lo scorrere delle acque, e strumenti musicali, che andavano dagli organi i venti canne alle chitarre a 5 corde e alle viole.
Ultimamente in Cina, in Cina, hanno trovato un liuto costruito nel 300 in Italia. Egualmente eravamo capaci di impiegare a meraviglia quegli strumenti, si componevano melodie liriche da cantare, si mettevano in scena opere buffe, tragiche, con numerosi interpreti, sia cantori che musici, anche gli stranieri che si ispiravano alle nostre opere, usavano cantare nel nostro idioma, in italiano! Ma anche i teatri dove esibirsi erano costruiti da nostri architetti, spazi dove l’acustica era perfetta, e reggeva a canti e contrappunti eseguiti da un coro di 50 voci insieme! Così ancora oggi andando intorno per paesi come la Russia, Irlanda, Svezia, Finlandia, non facciamo che scoprire teatri e palazzi costruiti da maestri italiani, tanto che la Regina Elisabetta, la prima, al tempo di Shakespeare, gridò seccata, "basta con questi italiani, che ci troviamo tra i piedi ogni due minuti, sembra che abbiano inventato tutto loro!" E in verità stavamo proprio esagerando!
Inventavamo poesie d’amore e satire esilaranti e eravamo grandi pittori, nella sola Firenze, ripeto nella sola Firenze, si trovavano a fare dipinti nelle loro botteghe artisti in tale numero e di tale grandezza quanti non se ne trovavano nell’intera Francia, dicono che i mercanti delle Fiandre, che scendevano in Italia a vendere i propri tessuti preferissero non tornarsene con il denaro, ma con dipinti, su tela, arrotolati come tubi, le monete doro erano più pesanti della Tela e soprattutto quei rotoli tenuti sotto le ascelle non destavano le attenzioni dei briganti, che non si intendevano d’arte! Proprio come oggi i nostri amministratori!
Ma come si può? Ah, ma come si può risalire al tempo di questa nostra età dell’oro e della dignità? Come è successo che all’istante sia andato a scatafascio?! Chi ci ha trascinato in questa voragine? Forse la malasorte o i migliori di noi se ne sono andati in altri continenti? C’è stata una metamorfosi genetica del nostro DNA così che da maestri che eravamo ci siamo trasformati in cialtroni? O è piuttosto l’ignobile cinismo con cui abbiamo, o meglio hanno, accettato i nostri governanti di convivere con la peggiore criminalità organizzata di tutto il pianeta? La mafia, la camorra, la ‘ndrangheta? Assistendo spesso indifferenti al sacrificio di magistrati e rappresentanti delle forze dell’ordine che cadevano a opera di quei criminali nel tentativo di debellarli.
E il ricatto organizzato da certi apparati industriali? Che pure di ottenere vantaggi spostano in altri paesi come pedine di una tombola delle morte le imprese nate da noi grazie al finanziamento statale, cioè dei contribuenti, ancora da noi?! E sono le altre industrie, vedi l’Ilva, l’Ilva di Taranto, che lucrano sulla disperazione degli operai, che devono scegliere se crepare di fame, da licenziati, o avvelenati dall’inquinamento degli scarichi industriali?
Ma dico non ci sono leggi che lo impediscono e tribunali che mandino in galera i padroni di questa macchina da stragi? Sì che ci sono! Ma nello stesso tempo ci sono anche i politici, che accettano denaro sottobanco per convincere i lavoratori a tornare nella gabbia finale della mattanza. Ecco, finalmente abbiamo trovato il fulcro del problema, i politici! E la politica!
Dove si eleggono, come rappresentanti del proprio degli inquisiti per frode fiscale, truffa, connivenza con la mafia e ci si scanna per salvare un criminale pregiudicato, dove leggi come quella contro il conflitto di interessi sono bloccate da venti anni e state tranquilli, anche con l’attuale governo non verranno messe neanche in programma! E intanto le leggi vergogna restano intoccabili! Dove gli evasori riescono in grande numero a sottrarre al fisco miliardi di Euro senza incorrere in alcuna sanzione e poi ci si meraviglia, scoprendo che il più grande partito in Italia, che raggiunga il 40 e più per cento dei consensi è quello in cui l’elettore rifiutano di votare.
E a questo punto voglio chiudere ricordando un breve lazzo che ripeteva sempre Franca, a proposito... A proposito di Franca come mi piacerebbe che fosse qui a ascoltarci questa sera… "Francaaaaa".. ecco la favola raccontata da Franca: "In una farsa antica Arlecchino si trovava sulla Luna e di lassù guardava la terra e puntando verso l’Italia si chiedeva ma come si può salvare quella massa di incoscienti che si stanno distruggendo da soli? E Brighella gli rispondeva, ma l’unica sarebbe ribaltolarli tutti…". Che cosa vuole dire ribaltarli? Bisogna decidersi a rovesciare tutta la baracca! E sia chiaro, non basta tentare di aggiustarla mettendo una toppa qua, una vita di là, una mano di colla e ritrovare fiducia nelle istituzioni! No… a questo punto la fiducia è morta! Con la speranza e l’ottimismo! Voi ce la avete massacrata! Bisogna tirare il sipario e dietro cambiare scena completamente, per fare pulizia in un salone dove i topi e gli scarafaggi la fanno da padrone non basta chiamare una truppa di gatti che li sbranino, quel genere di topi, onorevoli, sono in grado di corrompere anche i gatti! L’unica soluzione è buttare fuori tutti quelli che hanno preso possesso di tutto il palazzo e poi annaffiarli con pompe per l’incendio e quelli che non ci riesce di ripulire si buttano tutti! Senza pietà. Sempre ricordando che noi siamo democratici, ma non moderati, per Dio!" Dario Fo

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