Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 1 febbraio 2014

Governabilità o democrazia

Fonte: il manifesto | Autore: Marco Bascetta                    
 Postdemocrazia. Cosa c’è dietro l’ingegneria istituzionale della governabilità ad ogni costo
Le regole della cac­cia alla volpe inte­res­sano per­lo­più i signori che la pra­ti­cano. E, suo mal­grado, la volpe. Dif­fi­cile imma­gi­nare che un intero popolo vi si possa appas­sio­nare.
Altret­tanto lecito è dubi­tare che gli ita­liani fre­mano per i dispo­si­tivi e le norme di quella nuova legge elet­to­rale che i media pon­gono ripe­tu­ta­mente e quo­ti­dia­na­mente al ver­tice delle loro più impel­lenti aspi­ra­zioni.
Assai più pro­ba­bile è che desi­de­rino pre­sto un qual­si­vo­glia risul­tato per non sen­tirne par­lare più e pas­sare ad altro.
Del resto, già il latino mac­che­ro­nico cor­ren­te­mente impie­gato nel desi­gnare le diverse leggi elet­to­rali è indice dell’atmosfera pro­vin­ciale e comi­ca­mente litur­gica in cui tutto il dibat­tito si svolge per par­to­rire, alla fine, qual­cosa di assai simile al già noto. Lad­dove in que­stione sono assai meno le forme della demo­cra­zia che non la distri­bu­zione delle risorse di potere tra forze poli­ti­che in disa­strosa crisi di senso e di rappresentanza.
Le argo­men­ta­zioni che i mag­giori costi­tu­zio­na­li­sti ita­liani hanno oppo­sto al pro­getto di legge con­cor­dato da Renzi e Ber­lu­sconi non potreb­bero essere più sen­sate. Ma si tratta di un eser­ci­zio di razio­na­lità politico-giuridica che dif­fi­cil­mente potrà inci­dere su una sto­ria già ampia­mente scritta, non solo in Ita­lia e non da ieri. Con­verrà allora risa­lire alle spalle dell’ingegneria nor­ma­tiva che infe­sta le prime pagine per col­lo­care lo stato coma­toso in cui versa la demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva nel con­te­sto, sem­pre più deci­sa­mente post­de­mo­cra­tico, che gli è proprio.
La parola chiave da cui si deve par­tire è «gover­na­bi­lità». Non risale alla notte dei tempi, ma agli anni ’80, per poi cele­brare il suo trionfo con il pas­sag­gio dal pro­por­zio­nale al mag­gio­ri­ta­rio nel 1993. Lungi dal rap­pre­sen­tare un con­cetto tecnico-giuridico il prin­ci­pio della «gover­na­bi­lità» è di natura stret­ta­mente e squi­si­ta­mente poli­tica ed è anche piut­to­sto sem­plice: con­si­ste nel met­tere i gover­nanti al riparo dai gover­nati, almeno per il tempo che inter­corre tra una sca­denza elet­to­rale e l’altra. Ed è tal­mente per­va­sivo, in que­sta sua sem­pli­cità, da potersi appli­care a uno stato nazio­nale, a una fab­brica, a una uni­ver­sità, a un sin­da­cato (lo sa bene il segre­ta­rio della Fiom Mau­ri­zio Lan­dini nel con­durre la sua bat­ta­glia per la demo­cra­zia sin­da­cale), in breve a qual­si­vo­glia orga­ni­smo col­let­tivo, con diversi gradi di potere disci­pli­nante e di durata. Ed effet­ti­va­mente a tutte que­ste realtà è stato in diversa misura applicato.
Que­sta pre­ro­ga­tiva del comando con­si­ste in primo luogo nell’escludere la pos­si­bi­lità stessa delle «crisi di governo» e cioè l’eventualità che di fronte all’esplodere di con­trad­di­zioni sociali e poli­ti­che il qua­dro gover­na­tivo si trovi costretto a scom­porsi e ridi­se­gnarsi.
La «gover­na­bi­lità» garan­ti­sce invece che, per il tempo privo di incer­tezze del suo man­dato, la mag­gio­ranza par­la­men­tare e il suo governo pos­sano eser­ci­tare il più pieno arbi­trio senza met­tere a repen­ta­glio la pro­pria sta­bi­lità. Una ten­denza alla faci­li­ta­zione del comando, o ridu­zione della com­ples­sità come la chia­ma­vano i teo­rici più raf­fi­nati, che nes­sun bilan­cia­mento isti­tu­zio­nale, e men che meno la cor­rut­ti­bile «libertà di coscienza» dei rap­pre­sen­tanti, potrà più rimet­tere in questione.
Governi, è ovvio, ce ne sono sem­pre stati, anche nelle fasi di mag­giore insta­bi­lità (che sovente cor­ri­spon­de­vano a quelle di mag­giore svi­luppo), sog­getti, tut­ta­via, a quella neces­sità di adat­ta­mento alla tur­bo­lenza dei gover­nati che il prin­ci­pio di «gover­na­bi­lità» intende radi­cal­mente rimuo­vere.
La cre­scita costante dell’astensionismo è il segno più evi­dente del dif­fon­dersi del senso di impo­tente distanza da parte dei gover­nati e, nei casi meno ras­se­gnati, di osti­lità, che la blin­da­tura del qua­dro poli­tico determina.
Ma «gover­na­bi­lità» è anche la ban­diera dei par­titi mag­giori, i quali rispon­dono alla stessa logica delle grandi con­cen­tra­zioni eco­no­mi­che impe­gnate nella com­pe­ti­zione entro un oriz­zonte comune. Que­sto oriz­zonte comune o «regola con­di­visa» non è che la dot­trina della com­pe­ti­ti­vità libe­ri­sta non­ché la pre­tesa a una libertà di azione che non ammette vin­coli né discus­sioni. Quando si dice che l’economia domina la poli­tica, si intende soprat­tutto che la seconda si ridi­se­gna secondo gli schemi e le forme della prima. Ed è esat­ta­mente quello che i grandi par­titi mono­po­li­stici stanno facendo nell’approntare le con­di­zioni nor­ma­tive che ren­dano pos­si­bile que­sto ade­gua­mento. Senza troppo disco­starci dalla realtà potremmo con­si­de­rare le pri­ma­rie come una assem­blea degli azio­ni­sti, la dire­zione poli­tica come un con­si­glio di ammi­ni­stra­zione, il segre­ta­rio come un ammi­ni­stra­tore dele­gato e le ele­zioni poli­ti­che come la com­pe­ti­zione su un mer­cato che non lascia più spa­zio agli outsi­ders o alle pic­cole imprese più o meno artigianali.
È que­sto carat­tere post­de­mo­cra­tico dell’ordine libe­ri­sta, e il rico­no­sci­mento comune delle regole che vi pre­sie­dono, ciò che nella sostanza sot­tende l’accordo tra il Pd di Mat­teo Renzi e la rinata Forza Ita­lia di Sil­vio Ber­lu­sconi. Così come i listini della Borsa anche il duo­po­lio poli­tico non pre­vede «alter­na­tiva», ma solo alter­nanza delle rispet­tive quo­ta­zioni sul mer­cato. La nuova legge elet­to­rale costi­tui­sce un effi­cace ade­gua­mento della poli­tica a que­sto schema. Le «lar­ghe intese», che si pre­gia di aver supe­rato per sem­pre, non erano in fondo che una appli­ca­zione diversa di quello stesso dogma della «gover­na­bi­lità» ad ogni costo che essa san­ci­sce nella dot­trina dell’alternanza. Nell’un caso e nell’altro si tratta di can­cel­lare la con­flit­tua­lità sociale dalla vita collettiva.
La dimen­sione post­de­mo­cra­tica è ciò che sem­pre più acco­muna il governo dell’Europa a quelli dei sin­goli stati che la com­pon­gono e che con­tri­bui­scono in maniera deci­siva a osta­co­larne l’evoluzione poli­tica e con­ser­varne la rigi­dità tec­no­cra­tica. Non c’è da aspet­tarsi alcuna demo­cra­tiz­za­zione dell’Unione da parte di sovra­nità nazio­nali alle prese con la ridu­zione dei pro­pri spazi demo­cra­tici interni.
Sem­mai il con­tra­rio, secondo la gene­rosa e azzar­data ipo­tesi di Etienne Bali­bar che auspica un’Europa più demo­cra­tica di tutti gli stati che la compongono.
È solo su que­sta scala che un movi­mento poli­tico e un con­corso di forze che par­lino una lin­gua diversa dal latino mac­che­ro­nico potreb­bero rove­sciare la «regola comune» cui i nostri mono­po­li­sti poli­tici, nazio­nali e sovra­na­zio­nali, vor­reb­bero pie­gare le società europee.

Caso Bankitalia

 
Il decreto relativo a Bankitalia θ passato nella disinformazione generale. Cerchiamo prima di tutto di capire cosa prevede, partendo da un brevissimo excursus storico (ci scusi il lettore giΰ informato, che puς saltare a piθ pari queste righe). La Banca d�Italia θ una banca di diritto pubblico che, per tutto il periodo repubblicano, ha avuto un consiglio di amministrazione espressione delle banche del paese, ma questo aveva molti contrappesi: il consiglio aveva (ed ha ancora) poteri molto limitati, Bankitalia aveva un rapporto di dipendenza dal Ministero del Tesoro, le quote non erano commerciabili e le tre principali banche (Credit, Bancoroma e Comit) erano di proprietΰ dell�Iri. Di fatto, il potere reale dell�Istituto si concentrava nelle mani del Governatore nominato a vita dal Capo dello Stato (sino alla riforma del 2005, che ha definito la durata temporale dell�incarico) ed assistito dall�apparato tecnocratico della banca, mentre al consiglio di amministrazione, sia prima che dopo la riforma del 2005, restavano poteri abbastanza marginali.
A partire dal 1981 le cose sono iniziate a cambiare, mentre si facevano velocemente strada gli indirizzi monetaristi della scuola di Chicago, l�allora Ministro del Tesoro Andreatta, con un colpo di mano, avviς il �divorzio� fra Ministero del Tesoro e Banca d�Italia che acquisiva una sua marcata autonomia definitivamente sancita nel 1992 quando il ministro Guido Carli stabilμ che la decisione sul tasso di sconto diventava competenza esclusiva del Governatore.
Negli anni novanta, le tre banche Iri vennero privatizzate.  E questo iniziς a produrre una serie di effetti a catena.
La Banca d�Italia ha funzione di vigilanza sulla correttezza delle banche, per cui dovrebbe indagare sui comportamenti di suoi azionisti, il che era una contraddizione della normativa precedente, ma essa era meno stridente sinchι le banche sono state pubbliche (e, come tali, assoggettate, almeno in teoria, ai controlli del Tesoro).
Il mutamento maggiore fu prodotto dal processo di concentrazione bancaria degli anni novanta e primi duemila, per cui, mentre prima l�azionariato era molto piω frammentato, la fusione di molti istituti portς Intesa San Paolo a possedere il 30,3% ed Unicredit il 22,1% cui si aggiungono le Assicurazioni Generali con il 6,3%. Quindi, tre soggetti totalizzano il 58,7%, il che, per quanto limitati siano restati i poteri del consiglio di amministrazione, θ cosa ben diversa dal passato.
Questo per quanto riguarda il passato. Veniamo al riassetto appena deciso:
a- viene autorizzato l�aumento di capitale della banca (rimasto a quota 300.000 milioni di lire, fissata con la legge del 1936 e poi trasformata in 156.000 euro) sino a a
7,5 miliardi di euro, utilizzando le riserve statutarie;
b- viene deliberata la riorganizzazione del pacchetto azionario, per cui nessuno potrΰ superare il tetto del 3%; le quote eccedenti saranno acquisite dalla stessa Banca d�Italia che le deterrebbe per un massimo di tre anni per poi ricollocarle sul mercato;
c- i sottoscrittori delle quote messe sul mercato potranno essere banche ed imprese assicurative con sede nella Ue, fondazioni bancarie, enti ed istituti di previdenza e assicurazione con sede in Italia e fondi pensione;
d- il Consiglio superiore della Banca d�Italia «valuterΰ la professionalitΰ e la onorabilitΰ dei soggetti entranti e delle relative compagini, con un diritto di veto».
L�italianitΰ θ salvaguardata dall�obbligo per i soci di mantenere per i soci la sede legale in Italia e nel caso questa condizione venga meno occorrerΰ vendere la propria quota di partecipazione.
Chi ci guadagna?
In primo luogo, le banche che ci ricavano una sostanziosa rivalutazione del proprio asset, il che, in vista degli adeguamenti richiesti da Basilea III non θ affatto una cosa di scarso peso, ma per la quale la Bundesbank ha ripetutamente arricciato il naso (�S24� 6 dicembre 2013 p. 10) ed anche la Bce non si mostrata del tutto persuasa. Staremo a vedere gli sviluppi.
In effetti, la valutazione di Bankitalia a 156.000 Euro potrebbe apparire assolutamente sottostimata (c�θ stato chi si spingeva a dire che il suo valore reale si aggirerebbe di 25 miliardi) ma questo, sin qui, non ha avuto alcuna importanza, perchι le azioni non sono state commerciabili  e la fissazione del valore era puramente discrezionale. Per di piω, la remunerazione delle azioni era limitata solo ai dividenti di alcune attivitΰ dell�istituto �che non comprendevano il signoraggio- per cui si trattava di pochi spiccioli.
Ora, con la rivalutazione, stanti le norme vigenti, la remunerazione annua per le banche sale alla rispettabile cifra di 400 milioni di euro, che non θ una cifra da capogiro, ma sono pur sempre soldi. Non tanti, perς, da rendere particolarmente appetibile questo investimento finanziario, stanti anche i limiti persistenti ai poteri degli azionisti. E, infatti, il punto piω delicato riguarda la ristrutturazione del pacchetto azionario. Stanti cosμ le cose, Unicredit, Intesa e Generali devono mettere sul tavolo circa il 49% delle azioni possedute, vale a dire quasi la maggioranza assoluta. Sin qui le azioni non erano commerciabili, ma con il decreto lo diventano, il che pone, prima di tutto il problema di quel che faranno i tre gruppi principali: a chi le cederanno?
La soluzione prevista dal decreto θ che le incameri, per ora, la stessa Bankitalia, che entro tre anni le ricollocherΰ. Perς non θ affatto chiaro se la cedibilitΰ delle azioni possedute debba necessariamente passare per la banca o l�offerta possa rivolgersi direttamente al mercato. E non θ un particolare da poco, perchι questo avrΰ un riflesso tanto sul prezzo di compravendita quanto sugli assetti futuri della Banca.
Sul piano del prezzo, nel caso di acquisto da parte della Banca, non c�θ dubbio che il pacchetto dovrebbe essere acquistato a prezzo pieno, per cui si tratterebbe di un piω che cospicuo regalo a Unicredit, Comit e Generali. Poi, bisogna vedere quando Bankitalia dovesse ricollocare sul mercato le azioni a che prezzo questo avverrΰ. E c�θ un precedente non incoraggiante, quello della Northern Rock, nazionalizzata dal governo inglese nell�autunno del 2008 e poi rivenduta, nel novembre di tre anni dopo (gli accordi internazionali non consentivano di protrarre ulteriormente il �parcheggio� presso il Ministero del Tesoro di Sua Maestΰ) ma con una perdita di circa 400 milioni di sterline-.
Agli eventuali investitori interessati, non resterΰ che aspettare la scadenza, quando Bankitalia dovrΰ cedere comunque le azioni, per comperare al prezzo piω vantaggioso. Ed in questo gioco c�θ solo da sbizzarirsi a pensare a chi vi si potrΰ inserire, al coperto di opportune architetture finanziarie: uno degli attuali possessori eccedentari, banche straniere collegate, fondi sovrani o forse il soggetto piω liquido di tutti in questa fase: la borghesia mafiosa. Certo, il Consiglio superiore di palazzo Koch puς sempre esercitare il suo diritto di veto, ma non θ detto che abbia sentore dell�eventuale operazione nel tempo necessario. Ed, ovviamente, se qualcuno ha interesse alla cosa, il progetto sarΰ stato studiato opportunamente da tempo e resterΰ solo da metterlo in atto.
Ma, e siamo all�ultimo e piω penoso capitolo della vicenda, non θ scritto da nessuna parte (anche perchι la Costituzione non parla affatto della Banca centrale e non pone limiti di sorta) che gli attuali limiti sull� �italianitΰ�, limiti ai poteri degli azionisti, l�uso della riserva aurea ecc. non possano essere superati da una nuova normativa. Anzi, θ abbastanza logico attendersi qualche altro appassionante sviluppo della storia. E questo ci porta alla questione molto delicata della riserva aurea: quella italiana θ la quarta del Mondo, dopo Usa, Germania e Fmi ed ammonta a 2.400 tonnellate. Questione della quale si parla poco e si sa pochissimo (la riserva c�θ ancora? Depositata dove? Data in garanzia ed in che percentuale?), ogni tanto qualcuno come Alberto Quadrio Curzio (�S24� 5 settembre 2013) fa proposte sul come investirla, ma il discorso cade nel vuoto. E dire che siamo in un momento in cui, a causa dell�iper offerta di liquiditΰ di questi anni, l�oro θ oggetto di forti ondate speculative che lo fanno ballare dal massimo di 1.920 dollari l�oncia a 1.325 in poco piω di due anni. Ed a soffrirne sono soprattutto le banche centrali (�Affari e Finanza� �Repubblica� 11 novembre 2013 p.53), ma bisogna considerare che, nello stesso tempo, per effetto del Tapering della Fed, θ previsto un sensibile recupero nel prossimo biennio.
Dunque, non sarebbe male se il Ministro Saccomanni (tanto apprezzato dal Presidente Napolitano) riferisse in Parlamento sulla situazione della riserva aurea e su come si intenda garantirne il possesso dello Stato Italiano.
Anche perchι, qui il problema piω importante θ un altro: per caso non θ che si stiano ponendo le premesse per impedire il ritorno alla sovranitΰ monetaria nazionale anche in caso di collasso dell�Eurozona? Qualcuno sta lavorando per il Re di Prussia?
Cari amici del Pd, mi sento di dirvelo di cuore: siete dei veri delinquenti. Peggiori di Berlusconi.
Aldo Giannuli

Vicolo cieco a Bruxelles

-- da sbilanciamoci --

31/01/2014
 
Vicolo cieco a Bruxelles/1. Il governo Monti, le elezioni, le larghe intese e le decisioni di Bruxelles che condizionano il paese. Le politiche obbligate e quelle mancate. Una conversazione con l'ex viceministro dell'economia Stefano Fassina
A quattro mesi dalle elezioni europee, l'Eurozona è sulla rotta del Titanic e i tempi per un cambio di direzione appaiono strettissimi. «L'ultima occasione utile è la presidenza italiana dell'Unione europea, nel secondo semestre del 2014. Ma prima ci sarà l'ondata populista anti-europea che travolgerà il Parlamento di Bruxelles eletto nella prossima primavera», sostiene Stefano Fassina, fino a poche settimane fa nella cabina di comando del Titanic di casa nostra, nel ruolo di viceministro dell'Economia.
Un anno e mezzo fa, per l'Europa sembrava si potesse aprire una fase diversa: la vittoria di Hollande in Francia, le critiche dei socialdemocratici tedeschi all'austerità della Merkel, le speranze italiane in una coalizione di centrosinistra, le proteste nei paesi del sud Europa. Ne avevamo parlato nel giugno 2012 al Parlamento europeo di Bruxelles, al Forum "Un'altra strada per l'Europa", promosso da Sbilanciamoci! e dalle reti di movimenti, a cui avevi partecipato anche tu. È stata un'occasione perduta per liberarci dal liberismo?
Non è stata un'occasione perduta, ma il quadro è ancora segnato dalle stesse forze dominanti, anche se non sono più egemoni. L'allargamento di posizioni critiche nel dibattito economico, che pure c'è stato, non ha cambiato l'agenda politica. Per come ho conosciuto i principali partiti della sinistra europea, avevo aspettative contenute. C'è sempre stata una scarsa consapevolezza dell'insufficienza delle politiche nazionali per una svolta, e questo riguarda anche i socialisti francesi. Anche in Italia l'orientamento prevalente del Pd, dal governo Monti fino alle elezioni del febbraio 2013, non è stato consapevole della necessità di una svolta. Solo per fare un esempio: è stato il successo elettorale di Beppe Grillo che ha spinto il governo ad affrontare la questione dei ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese. A maggio i risultati delle elezioni europee ci consegneranno un Parlamento che temo vedrà predominanti le forze nazionaliste e populiste. Diventerà chiara allora la necessità di correzioni profonde alla rotta presa dall'Europa. Speriamo di non essere troppo in ritardo.
Partiamo dal governo Monti: la sua agenda è stato subìta dal centrosinistra. Oggi cosa faresti diversamente?
È stata subìta da una parte del Pd, ma un'altra parte del partito ha continuato a ripetere che l'agenda Monti doveva essere quella del Pd. Questo ha paralizzato Luigi Bersani, gli ha impedito di avere una posizione chiara. Avremmo dovuto interrompere il governo Monti con la preparazione della finanziaria nell'autunno 2012, riconoscendo che dopo le amministrative, che erano state negative per il Pdl, ci sarebbe stata una guerriglia politica e segnare un'autonomia politica.
È stato Napolitano a impedirlo?
C'era anche un problema interno al Pd, la lettura prevalente era che eravamo sulla rotta giusta.
Eppure Bersani poteva contare su una buona maggioranza.
Sì, ma nel partito non c'era una lettura su cui convergesse una maggioranza. Di più: la lettura prevalente era che comunque bisognava dare seguito all'agenda imposta da Bruxelles, mentre avremmo dovuto dare all'opinione pubblica un segnale chiaro di discontinuità e proporre un'alternativa seria. Non siamo stati credibili alle elezioni, ma subalterni, e il nostro era un messaggio di continuità su una linea che il paese non riconosceva.
Il dopo elezioni poteva andare diversamente?
Qui apriamo un capitolo doloroso. Con il senno di poi avremmo dovuto riconoscere subito la sconfitta elettorale, farci carico di un governo di grande coalizione, bilanciandolo con una soluzione di garanzia per la presidenza della Repubblica e con un'agenda di riforme istituzionali da realizzare in un periodo definito. Era l'unico modo per dare al Pd una capacità negoziale maggiore di quella che ha avuto. Invece siamo arrivati al governo di larghe intese in modo disastroso.
Vuoi dire che come viceministro dell'Economia hai avuto le mani legate?
Se si fosse realizzato quel contesto, e se fossimo riusciti a impostare un altro rapporto con l'Europa, ci sarebbero stati margini di manovra maggiori. Dovevamo andare a Bruxelles e imporre una revisione dei nostri obiettivi di finanza pubblica, e l'avvio di operazioni anticicliche significative per attenuare la contrazione dell'economia. Sono arrivato al governo consapevole di avere spazi ristretti di manovra e ho cercato di introdurre elementi di discontinuità. La manovra 2013-2014 è la prima qualitativamente espansiva, e che ha dato risposte ad alcune emergenze del paese. Ne cito solo due: abbiamo salvaguardato 30 mila esodati e siamo riusciti a contenere la pressione a considerare la spesa pubblica come un aggregato negativo tutto da tagliare.
Però avete cancellato l'Imu, come voleva Berlusconi: un regalo ai più ricchi.
Quella dell'Imu è stata una partita eminentemente politica. La condanna di Berlusconi ha pesato come un macigno e noi eravamo arrivati deboli al tavolo di governo. C'era la possibilità che si arrivasse a un provvedimento di grazia a Berlusconi, e sarebbe stato un grave vulnus per la democrazia. Era evidente che non c'erano le condizioni di finanza pubblica per cancellare l'Imu, ma la priorità è stata affrontare la vicenda berlusconiana senza contraccolpi istituzionali. Anche se abbiamo pagato un costo elevato. Non era scontato che Berlusconi non facesse cadere il governo e costringesse il paese a elezioni, cavalcando la questione dell'Imu.
Cioè, evitare le elezioni ci è costato 4 miliardi?
Suona un po' brutale, ma è così che è andata.
Come si potrebbe far uscire l'Europa dal vicolo cieco delle politiche liberiste?
Dovremmo far maturare la consapevolezza che c'è un problema sistemico. L'Eurozona è su una rotta, che io definisco mercantilista, insostenibile per tutti: inseguimento disperato del pareggio di bilancio e delle mitiche riforme strutturali, formula retorica per indicare l'ulteriore precarizzazione del lavoro finalizzata alla definitiva marginalizzazione dei sindacati e alla riduzione delle retribuzioni. In Italia, larga parte della sinistra e del sindacato è accecata da questo paradigma. Non si rendono conto che puntare su un consistente taglio della spesa pubblica - come si è visto nella discussione in Italia con il "cuneo fiscale" - vuol dire ridimensionare, fino allo snaturamento, il welfare europeo. Noi dobbiamo porre questo problema.
Noi chi?
L'Italia, il Pd, ma sull'allentamento dei vincoli europei di bilancio c'è un consenso ben più ampio, è l'unico punto di convergenza vera con la destra, per ragioni magari strumentali. Mettere in discussione alcuni punti della politica europea potrebbe essere possibile, ma il problema è che per farlo servirebbe una maggioranza capace di una tenuta politica generale, con una forte credibilità. E non è questo il nostro caso.
Destra e Pd hanno idee contrapposte sulle riforme da fare sul piano interno. O no?
Il mercato del lavoro, il welfare, la spesa pubblica sono nodi che dividono lo stesso campo del centro-sinistra. Una larga parte del Pd non è ancora uscita dal paradigma degli ultimi trent'anni.
Se il problema è sistemico perché non c'è stata nessuna iniziativa per mettere insieme la periferia dell'Europa e avanzare una proposta condivisa nei confronti di Berlino e Bruxelles?
Perché nessuno, nemmeno la Francia che ha scelto di restare sotto l'ala protettiva della Germania, l'ha messo nell'agenda politica degli ultimi anni. La rotta mercantilista dell'eurozona inibisce a qualunque governo nazionale la realizzazione di politiche capaci di rilanciare l'economia. È un dato di realtà, non una valutazione politica. Aggiungo però che di fronte al fallimento di quell'impianto maturano posizioni alternative, anche se ancora non hanno la forza di presentarsi come un cambiamento del sistema europeo.
Che cosa si dovrebbe fare?
Nel medio periodo sono necessari aggiustamenti istituzionali di grande portata. L'Unione bancaria dovrebbe essere solo un primo passo verso l'unico assetto unitario che permetterebbe ai paesi europei di sopportare shock asimmetrici di portata rilevante, e quest'assetto non può che essere un'Unione federale. Con una Bce prestatore di ultima istanza che affianchi un'Unione dotata di un bilancio "vero" in cui è il Parlamento a dettare la linea e a rappresentare democraticamente gli interessi dei cittadini europei. Invocare una radicale correzione di rotta nell'eurozona non vuol dire evitare di affrontare i nostri deficit di riforme, necessarie ma costose in termini di consenso. Ma l'obiettivo delle riforme dovrebbe essere, in Italia e nell'Unione europea, la redistribuzione del reddito, sia nel rapporto tra salari, profitti e rendite, sia attraverso i meccanismi di tutela offerti dal welfare. Oltre che per ragioni di equità, questa politica è necessaria per rianimare i consumi interni.
Sembrano le proposte che ha avanzato Sbilanciamoci.
E infatti sono qui a discutere con voi.
Quali sono i veri poteri che condizionano la politica italiana? Bruxelles, la Commissione, la Banca centrale, i mercati finanziari? Qual è la telefonata che a Via XX Settembre si teme di più?
C'è un problema generale di debolezza della politica rispetto all'economia. Le istituzioni messe in campo in Europa, invece di aiutare la politica, ne aggravano la subalternità. Poi c'è, nei protagonisti delle amministrazioni economiche, un segno culturale, un orientamento che è quello di cui abbiamo parlato fino ad ora. Al ministero dell'Economia ci sono persone di straordinaria qualità che vivono con l'angoscia dello spread tra i tassi d'interesse sul debito, un'angoscia che viene incrementata o ridotta a seconda degli input che vengono da Francoforte o da Bruxelles.
Chi decide chi è il ministro dell'economia in Italia?
Mi avvalgo della facoltà di non rispondere.
Di fronte alla crisi industriale, in Francia il governo interviene su Peugeot, perché in Italia non si fa?
Si fa in parte, su Ansaldo abbiamo fatto una scelta diversa, su Alitalia stiamo facendo una scelta diversa. Vero è però che in larga parte del Pd permane la convinzione che è meglio non intervenire, c'è il timore che la Cassa depositi e prestiti diventi una nuova Iri. C'è un ritardo culturale, e ci sono anche interessi materiali che pesano. Però quella è la direzione in cui dovremmo andare: utilizzare la Cassa depositi e prestiti per fare una nuova politica industriale.
Anche sui caccia F35 il governo non ha cambiato idea. I militari sono poteri intoccabili?
Non intoccabili, sicuramente però con una capacità di condizionamento rilevante. Ma per tornare sul terreno politico: in Parlamento si possono determinare convergenze importanti, con Sel per esempio, su scelte fondamentali di politica economica europea. In vista del Def - il documento di programmazione finanziaria - vorrei lavorare con il Pd, o con una parte di esso, per far maturare dentro il Parlamento una posizione che contribuisca a riorientare la rotta. Questo è un terreno di lavoro comune, dal centrosinistra a Sbilanciamoci.
Matteo Renzi sembra di un altro avviso. Si rischia la scissione dentro il Pd?
No, sono giornate complicate, faticose, siamo alle prese con un cambio di paradigma anche nelle relazioni tra di noi, ma escludo categoricamente scissioni, c'è bisogno di una dialettica più costruttiva e spero che le mie dimissioni servano a darci la scossa per andare in questa direzione
Leggi qui le proposte di Euro-pen per cambiare la politica economica europea

Bankitalia, una toppa peggiore del buco

di Andrea Baranes               
C'erano davvero caratteri di "urgenza" e "necessità" nell'approvazione del decreto sulla rivalutazione delle quote di Banca d'Italia? Il Comunicato stampa del ministero dell'Economia chiarisce un solo aspetto: l'esautorazione del Parlamento e il predominio delle questioni finanziarie sui principi democratici
L'aumento delle quote di Banca d'Italia da 156.000 a 7,5 miliardi di euro ha sollevato nelle scorse settimane diverse critiche e dubbi, tanto da spingere il Ministero dell'Economia e delle Finanze a emanare un comunicato stampa, lo scorso 29 gennaio, per sottolineare sin dal titolo che non è stato fatto "nessun regalo alle banche".
Nel merito il comunicato chiarisce ben poco, visto che, rispetto alle numerose critiche circolate in questi giorni, si limita a segnalare che: “nessun "regalo" è stato fatto alle banche, perché la rivalutazione del capitale e una più equilibrata ripartizione delle quote di partecipazione alla Banca d'Italia non comportano alcun onere per lo Stato.”
Se questo è l'argomento migliore, appare decisamente debole, per non dire di peggio. Poniamo che camminando per strada io trovi un portafogli pieno di soldi. Lo raccolgo, e do il contenuto a un mio amico. Per me il gesto non comporta “nessun onere”, ma per il mio amico è un regalo non da poco. Detta in altre parole, secondo un ragionamento logico ancora prima che economico, il fatto che non ci sia un onere per lo Stato non significa in alcun modo che non sia stato fatto un regalo alle banche. La pochezza delle argomentazioni non fa che rafforzare molti dei dubbi sollevati.
Ma non è questo l'aspetto peggiore. Alcune domande critiche sulla revisione delle quote sono state pubblicate la scorsa settimana in un post sul blog di Non con i miei soldi (http://www.nonconimieisoldi.org/blog/banca-ditalia-alcune-domande/). Il post si chiudeva con una domanda, “sulla forma, non sulla sostanza, ma è probabilmente la più importante da rivolgere ai nostri politici. Per quale motivo esattamente si è ricorsi allo strumento del Decreto Legge del governo per la rivalutazione delle quote? Secondo la Costituzione italiana, il riscorso al Decreto Legge è possibile "in casi straordinari di necessità e di urgenza". Dov'è in questo caso la straordinaria necessità e urgenza che impedisce un normale iter parlamentare?”
Ed è qui che la risposta del governo appare la proverbiale toppa peggiore del buco. Sempre nel comunicato stampa del 29 gennaio si legge che: “la riforma di un assetto risalente al 1936 era peraltro divenuta ormai urgente in vista dell'entrata in vigore del nuovo sistema unico di supervisione bancaria in ambito europeo”. Peccato che, come si legge sul sito della Bce: “l'assunzione delle nuove competenze di vigilanza bancaria da parte della Bce è prevista per l’autunno 2014”. Prevista per il prossimo autunno. Siamo a gennaio. Sette – otto mesi di tempo, come minimo, non sono sufficienti per pensare a un dibattito parlamentare? Rappresentano una “straordinaria urgenza”?
Ma prima ancora, nel merito, cosa sarebbe successo di cosi terribile, se al momento dell'entrata in vigore del sistema unico di supervisione bancaria l'Italia non avesse ancora completato il processo di revisione delle quote? Se lo avessimo approvato dopo qualche settimana o anche qualche mese, quali terrificanti conseguenze ci sarebbero state? In altre parole, oltre a mancare qualsiasi presupposto di “straordinaria urgenza”, è davvero difficile ravvedere i criteri di “straordinaria necessità” che possano giustificare il ricorso al decreto legge e impedire un normale iter e dibattito parlamentare.
Rispetto a questa per lo meno traballante e stiracchiata interpretazione delle basilari regole democratiche, è in un passaggio finale del comunicato stampa che si tocca l'apice: il governo ricorda come “i contenuti e gli effetti del decreto legge sono stati ampiamente illustrati e discussi dal Ministro dell'Economia e delle Finanze in due audizioni presso le commissioni competenti di Camera e Senato. Nel corso dell'esame del provvedimento sono stati approvati emendamenti di iniziativa parlamentare con il parere favorevole del governo”.
Bontà sua, il governo accetta di partecipare a ben due audizioni parlamentari e arriva addirittura a dare parere favorevole ad alcuni emendamenti parlamentari. Quale benevolenza e magnanimità!
La faccenda della rivalutazione delle quote di Banca d'Italia è preoccupante e poco chiara in sé, e continua ad esserlo a maggior ragione dopo questo comunicato stampa. Preoccupante nella sostanza, ma ancora prima nella forma. Il comunicato chiarisce una cosa sola: la progressiva esautorazione del Parlamento, in particolare per tutto quanto afferisce al sistema bancario e finanziario. I tempi della finanza non possono aspettare quelli della democrazia. Non disturbare il manovratore, si va avanti per decreti legge e iniziative del governo. Non è possibile pensare a una discussione o porre domande. D'altra parte, se il livello delle risposte è quello che leggiamo nel comunicato stampa dello scorso 29 gennaio, forse è meglio non farle per niente, le domande.

Tsipras: "Per non sprecare un'occasione"

Autore: Mimmo Porcaro                                       
La candidatura di Alexis Tsipras alle prossime elezioni europee ha suscitato, come era auspicabile, un’affollata discussione all’interno di ciò che resta della sinistra radicale. Peccato che la discussione verta quasi solo su questioni secondarie e dia per scontata la questione più importante, ossia quella della presunta riformabilità dell’Unione europea. Secondaria, ed anche un po’ consunta, è infatti la querelle tra partiti e società civile, alla quale non mi sottraggo solo perché sono stanco di sentir ripetere che i partiti sono i malati e la società civile è il dottore: la prima affermazione è giusta, la seconda no. Da chi è composta, infatti la famosa società civile? Da lavoratori di media o alta qualificazione, da intellettuali che tutti insieme vanno a formare quella classe “riflessiva” che è senz’altro decisiva per qualunque seria politica, ma che al momento (con le dovute eccezioni) riflette su tutto tranne che sulle cose essenziali. Che sono: a) come pensare una concreta alternativa al modo di produzione capitalistico (qualcosa, insomma, che vada oltre la rivendicazione di questo o quel diritto e si concentri sui rapporti di proprietà e di potere), visto che il capitalismo attuale non mostra alcuna intenzione di scendere a compromessi? E poi: b) come sanare quella crescente frattura tra frazioni qualificate e frazioni dequalificate del lavoro, tra organizzati e frammentati, tra “democratici” e “populisti” che è il principale ostacolo alla formazione di una efficace alleanza popolare? E infine: c) come continuare a farsi paladini dei valori costituzionali e restare, imperterriti, dentro uno spazio europeo che li rende inattuabili? Non riflettendo su tali questioni, la classe “riflessiva” mostra di non saper fornire le indicazioni di cui abbiamo bisogno: tanto quanto i deprecati partiti. Ma la società civile è formata anche e soprattutto dalle numerosissime associazioni votate all’azione di cittadinanza, all’intervento sociale, alle più varie attività altruistiche. Vero, e vero anche che le associazioni autonome dei cittadini (a cominciare da quelle dei lavoratori), sono componente decisiva di quel socialismo pluralista che alcuni di noi iniziano ad immaginare. Ma mentre, nel mondo ideale, il concetto di libera associazione tenta di tornare in sintonia con quello di socialismo, nel mondo reale le associazioni concretamente esistenti (anche qui, con le dovute eccezioni) continuano a flirtare col capitalismo e col suo stato. Chi si fa parte attiva della sussidiarietà, e quindi delle privatizzazioni. Chi vive di fondi europei e quindi dipende dalle burocrazie di Bruxelles. Chi è costretto a continue mediazioni con questo o quel governo, mediazioni non necessariamente più onorevoli di quelle, ben più visibili ed esposte alla critica, dei partiti politici. Per non parlare delle zuffe interne, delle fazioni e delle cordate, della formazione di gruppi interessati più alla sopravvivenza dell’associazione che al raggiungimento del suo scopo: tutte dinamiche che non affliggono solo i partiti, ma qualunque forma complessa di organizzazione. Cosicché viene da dire, a chi ha proposto che nella lista Tsipras non vi sia spazio per chi ha avuto incarichi di partito o di governo negli ultimi dieci anni, che lo stesso draconiano divieto andrebbe esteso ai dirigenti ed ai lobbisti (eh sì, ce ne sono, eccome!) delle associazioni. “Ma come! – dirà a questo punto l’onesto attivista di questo o quel gruppo di volontariato – Nessuno ci può confondere con la casta! Noi ci spendiamo per scopi altruistici! Lottiamo per avvicinare i cittadini alla politica, per la democrazia partecipativa e non per la limitata ed elitaria
democrazia rappresentativa!”. Nessuno contesta l’altruismo degli scopi: resta comunque l’egoismo dei mezzi. La democrazia partecipativa (uno dei presunti antidoti al “deficit democratico” dell’Unione europea) è certo una gran cosa, ma funziona solo per chi ha il tempo e le risorse per partecipare. Essa cioè amplia meritoriamente il numero delle persone coinvolte nelle procedure decisionali, e quindi amplia le élite di governo, ma erge tra queste nuove élite e le masse escluse un muro ancor più alto e solido di quello che separava elettori e partiti: perché votare è semplice, partecipare è difficile; per influenzare un partito basta un voto, per influenzare i decisori della governance ci vuole ben altro. Integrare la democrazia rappresentativa con altre forme è certo necessario. Ma se togliete al popolo la democrazia rappresentativa (ovvero la possibilità di operare – pur delegandone ad altri l’attuazione – scelte efficaci in merito ad alternative effettive) e gli date in cambio una democrazia partecipativa a cui non può partecipare, ne ricaverete il populismo, ossia il rifiuto di qualsiasi mediazione: quella dei partiti politici in primis, ma anche quella degli esperti del “sociale”. E’ per questo che sostituire gli esponenti dei partiti con quelli di una società civile spesso impigrita nelle retoriche ormai gergali della “partecipazione” non porterà, se non per caso, a qualche apprezzabile risultato: gli uni e gli altri sono egualmente sconosciuti, o invisi, a quel popolo che hanno da tempo abbandonato nelle mani dei mestatori.
Detto ciò, non avanzo nessuna obiezione di principio ad una lista che non abbia simboli di partito. Oggi più di ieri quel che importa non sono i simboli, bensì le idee. Ma purtroppo, almeno per quanto riguarda le questioni essenziali, le idee che circolano non sono certo le migliori. La candidatura Tsipras ha infatti acceso, per ora, soprattutto l’interesse della parte più moderata della sinistra radicale quella che, per intenderci, è di gran lunga più disposta a dialogare col gruppo dei “socialisti” europei. Questo uso moderato della figura di Tsipras è dovuto al fatto che il partito della Sinistra Europea ne ha presentato la candidatura con un documento politico in cui prevale senza riserve l’idea della riformabilità dell’Unione e dell’irrinunciabilità dell’euro, un documento che non contiene nessun serio riferimento alla rapida diffusione di sentimenti e di elaborazioni anti-euro nei cittadini, ma anche nella sinistra del vecchio continente (valgano ad esempio i nomi di Oskar Lafontaine e di Wolfgang Streek, che di tutto possono essere accusati tranne che di avventurismo populista). E’ questa dichiarazione di fede assoluta nell’Unione europea ad aprire il campo alle incursioni moderate, perché chi ritiene insuperabile lo spazio dell’Unione (e dell’euro) ritiene di fatto insuperabile anche il liberismo, che nell’Unione (e nell’euro) trova la sua più efficace forma di funzionamento; e per quanto dichiari di avere obiettivi radicali deve rassegnarsi a fare quello che Vendola ed il PD già dicono di voler fare: correggere gli eccessi del liberismo, e poco più. La caratura del candidato Tsipras, l’acuto conflitto di cui è espressione, le possibili conseguenze di un’affermazione di Syriza in Grecia avrebbero certamente meritato tutt’altra cornice, più aperta ad esiti radicali, più adatta a gestire le diverse alternative che si potrebbero presentare. E invece… . E invece tutto tende a ridursi all’obiettivo (tatticamente valido ma strategicamente insufficiente) della lotta all’austerity: come se fare qualche investimento dopo aver costretto i lavoratori – tramite l’austerity – a vendersi a vile prezzo non fosse esattamente lo scopo dei tanti capitalisti europei; come se l’abbandono della deflazione potesse in qualche modo eliminare quei differenziali di inflazione che sono la matrice principale del crescere degli squilibri intra-europei.
Questo diabolico perseverare, questa vocazione a credere nell’incredibile (ossia nella possibilità di democratizzare una macchina europea che è stata costruita proprio per impedire la democrazia) non sono ormai più comprensibili né giustificabili, soprattutto di fronte a due inequivocabili e recenti fatti che dovrebbero essere ben più convincenti dei nostri argomenti. Primo: il brusco tramonto dell’ipotesi di un ripensamento dei socialisti francesi, e magari tedeschi; ipotesi con la quale molti hanno giustificato nei mesi scorsi la loro rinnovata scommessa sull’euro, e che è stata seccamente
smentita dalle scelte di Hollande e dalla completa assunzione della politica europea della Merkel da parte della SPD. Secondo: il brusco tramonto dell’idea per la quale la crisi avrebbe prima o poi indotto la Germania a più miti consigli, idea seccamente smentita dal fatto che le più influenti fondazioni e la più alta carica istituzionale di quel Paese insistono da mesi non già sulla necessità di una svolta inflattiva e cooperativa bensì sulla necessità di trasformare la supremazia economica della Germania in aperta supremazia politico-militare. Come mostrano i fatti di Kiev, significativamente rimossi dalla sinistra europeista, che vedono Berlino sostenere le forze neonaziste ucraine pur di ampliare, coi confini dell’Unione, la propria sfera di influenza. E l’espansione dell’Unione ad est – così rischiosa per quella pace che secondo l’opinione corrente solo l’Unione stessa saprebbe garantire – implica non già l’allentamento della subordinazione economica del sud, bensì la sua stabilizzazione come base di ogni ulteriore sviluppo. Di fronte a tutto ciò attardarsi sulla riforma dell’Europa è, quanto meno, colpevole pigrizia intellettuale. Ed è di fatto una posizione interna al discorso del Pd, che non mancherà certamente, nel corso della campagna elettorale, di dire che in Europa qualcosa deve cambiare, che ci vogliono più investimenti e magari un po’ più di democrazia. Cosicché la lista Tsipras, se non darà spazio e visibilità a posizioni più radicali, se non indicherà quantomeno la possibilità della rottura dell’Unione europea e dell’euro (cosa pur prevista dal congresso del Prc, cosa che sarebbe certo insufficiente, ma potrebbe esser colta dagli elettori come un inizio di allontanamento reale dal Pd) non farà molta strada. Farà la fine di Rivoluzione Civile: né carne né pesce, troppo radicale per gli uni e troppo blanda per gli altri, non supererà la fatidica soglia. Oppure, se qualche occasionale flusso o riflusso elettorale la porterà oltre lo sbarramento, finirà in mano a gente magari ragguardevole, ma del tutto indecisa sul da farsi e pronta a lasciarsi incantare dal minimo segnale pseudo riformista che dovesse giungere dai “socialisti” europei. Come ho appena detto, so bene che il Prc – che poi è il mio partito – ha recentemente ribadito la propria presa di distanza dal PD, la volontà di rompere la forma attuale dell’Unione e addirittura di mettere in discussione l’euro, pur se solo in casi estremi. Ma è impossibile rompere davvero col Pd se poi si accettano di fatto le opzioni internazionali di quel partito. E quanto alle bellicose (ma contraddittorie) intenzioni verso l’Europa, per adesso non se ne parla con la necessaria nettezza, e quando se ne parla non si è capiti (per forza: cosa mai vorrà dire “disobbedienza ai trattati”, e che senso ha rompere con l’Unione per tenersi il suo frutto più avvelenato, ossia l’euro?) e quand’anche si venisse capiti il tutto comunque si confonderebbe nella melassa dell’ “Europa migliore”. Perché il punto è sempre lo stesso: o si è per distruggere l’Unione europea e l’euro (scegliendo adeguatamente tempi e modi, e prospettando un altro tipo di europeismo) o si è per tenerseli. Chi è per la prima scelta voterà Grillo, chi è per la seconda voterà Pd: i nostri sottili distinguo – a meno di robusti correttivi – non verranno per nulla compresi dall’ ”elettore medio”. E nemmeno “dalla sua gentile signora”, come avrebbe aggiunto il Gadda in tempi in cui il politically correct, così caro alla burocrazia europea, non lo impediva ancora.
P.S. Questo articolo è stato scritto prima delle conclusioni del congresso di Sel. Mi pare che esse confermino ed aggravino quanto ho qui sostenuto: il moderatismo implicito nell’europeismo dogmatico fa balenare la possibilità di un utilizzo della lista Tsipras anche da parte di chi, critico del Pd solo quando è il Pd a non volerlo, ha comunque deciso che non entrerebbe nel gruppo parlamentare che l’ha promossa. Spero che al presuntuoso cinismo di questa proposta non corrisponda la colpevole acquiescenza dei destinatari.

venerdì 31 gennaio 2014

Noam Chomsky

Noam Chomsky, il maggior linguista vivente, l'autore del capolavoro Il
linguaggio e la mente (Bollati Boringhieri, 2010), a 86 anni ha mantenuto una
lucidità di pensiero che non lascia spazio a dubbi e illusioni. "Le nostre
società stanno andando verso la plutocrazia.
Questo è neo-liberismo" ha detto
Chomsky, in Italia per il Festival delle Scienze all'Auditorium Parco della
Musica di Roma dove è protagonista di due appuntamenti sold out in sale di 700
e 1.200 posti tanto che sabato 25 gennaio è previsto uno schermo supplementare
nel foyer dell'Auditorium.

LA DEMOCRAZIA E' SCOMPARSA Chomsky ha ricordato che
"secondo uno studio della Oxfam, l'Ong umanitaria britannica, 85 persone nel
mondo hanno la ricchezza posseduta da 3,5 miliardi di individui. Questo era
l'obiettivo del neoliberismo" di cui parla come di "un grande attacco alle
popolazioni mondiali, il più grande da 40 anni a questa parte".
In Italia "la
democrazia è scomparsa quando è andato al governo Mario Monti designato dai
burocrati seduti a Bruxelles, non dagli elettori" spiega il linguista di
Filadelfia, che vive vicino a Boston ed è a Roma con la raccolta di testi
inediti in Italia su oltre 40 anni di lotte e pensiero I padroni dell'umanità
(Ponte alle Grazie). Sono saggi politici dal 1970-2013 dove i principali
accusati dello sfruttamento politico e delle guerre, dal Vietnam alla Serbia e
all'Iraq, restano gli Stati Uniti e la società dominata dalle multinazionali.


L'EUROPA E' AL COLLASSO In generale "le democrazie europee sono al collasso
totale indipendentemente dal colore politico dei governi che si succedono al
potere perchè sono decise - sottolinea Chomsky - da banchieri e dirigenti non
eletti che stanno seduti a Bruxelles. Questa rotta porta alla distruzione delle
democrazie e le conseguenze sono le dittature". "Mario Draghi - continua - ha
detto che il contratto sociale è morto.
Ciò che conta oggi è la quantità di
ricchezza riversata nelle tasche dei banchieri per arricchirli. Quello che
capita alla gente normale ha valore zero. Questo è accaduto anche negli Stati
Uniti ma non in modo così spettacolare come in Europa. Il 70% della popolazione
non ha nessun modo di incidere sulle politiche adottate dalle amministrazioni".
E da chi è composto questo 70%? "Da quelli che occupano posizioni inferiori
sulla scala del reddito. Quell'1% che sta nella parte superiore ottiene a
livello politico ciò che desidera. Questa è la plutocrazia".

INFORMARSI SOLO
SUI BLOG E' SBAGLIATO Da sempre punto di riferimento per la sinistra
internazionale, Chomsky nei suoi saggi invita a riflettere sulla manipolazione
dell'opinione pubblica. Dei new media dice: "Hanno portato ad una maggior
vivacità di opinioni rispetto ai media ortodossi" ma un effetto negativo è "la
tendenza a sospingere gli utenti verso una visione del mondo più ristretta
perchè quasi automaticamente le persone sono attratte verso quei nuovi media
che fanno eco alle loro stesse vedute" ha sottolineato. "Se uno si informa solo
sui blog le prospettive saranno molto più ristrette". Inoltre, la
proliferazione di informazioni ha avuto, secondo il linguista, come
"contraltare la riduzione del livello dei reportage".

GLI INTELLETTUALI HANNO
LE LORO COLPE Tra i pensatori più autorevoli del nostro tempo, Chomsky non
risparmia critiche agli intellettuali che, spiega, "hanno tutte le
responsabilità degli altri esseri umani: cercare di incentivare il bene comune
e del resto del mondo". La sfida del futuro è "non limitarci a osservare il
corso degli eventi" e per farlo, conclude, "bisogna eliminare la struttura di
quelle istituzioni che perseguono il 'tutto per noi stessi, niente per gli
altri', non colpire il singolo perchè verrà semplicemente buttato fuori dal
sistema".

*La legge di conversione è incostituzionale*

30 gennaio 2014
di Ferdinando Imposimato

La legge di conversione del decreto legge IMU Bankitalia appare
incostituzionale . Anzitutto vi è stata violazione del diritto della
opposizione del M5S di svolgere le proprie ragioni opponendosi al
provvedimento, secondo le regole della Costituzione e il regolamento
della Camera. La cd tagliola è incostituzionale, perchè elimina il
diritto della opposizione di motivare il suo voto contrario. La
opposizione è parte essenziale della democrazia , i cui diritti vanno
rispettati. Diversamente siamo in una situazione di regime cioè di
dittatura della maggioranza. E stupisce che alcuni dei guardiani della
Costituzione tacciano su questo aspetto gravissimo del vero e proprio
colpo di mano del Presidente della Camera Laura Boldrini che ha
impedito al M5S di motivare la sua opposizione sacrosanta di fronte a
dl illegittimo, per difetto, almeno in parte, del requisito di
necessità e urgenza . Ma illegittimo anche in relazione al diritto
dovere di spiegare le ragioni del no rispetto ad un decreto che
prevede una spesa enorme e affronta temi gravi e complessi, di cui il
popolo ignora il contenuto reale. La Presidente della Camera sa che la
democrazia non dà tutto il potere a nessuno, ma lo distribuisce
variamente a maggioranza e minoranza , che trapassano l'una nell'altra
proprio perchè, come insegna Aristotele, l'alternanza è l'essenza
della democrazia e prova della libertà. “Nel contesto
costituzionale , tirannide della maggioranza è violare, legiferando e
governando, i diritti della minoranza”, insegna Giovanni Sartori.
Per cui la legge di conversione approvata il 29 gennaio è
incostituzionale . Inoltre la parte del decreto legge IMUBankitalia
che riguarda la cd ricapitalizzazione di Bankitalia per 7.5 miliardi
di euro si tradurrà nel finanziamento illecito , attraverso
Bankitalia , di istituti di credito in crisi, cioè in una donazione
di enormi somme di denaro alle banche azioniste che controllano
Bankitalia. Che sono Intesa San Paolo (42%), Unicredit (22,11%), MPS
(4,60%), INPS (5.00 %), Carige ( 4,03%) e altre banche . Questa parte
del dl , che riguarda Bankitalia, sembra del tutto estranea al DL
sull' IMU, che è imposta sulla prima casa, per la quale poteva essere
giustificata la situazione straordinaria di necessità e urgenza ex
art 77 sec comma della Costituz. Situazione che non si giustifica con
la “ricapitalizzazione”, di Bankitalia. La verità è che
l’Italia con 1,7 trilioni di euro di debito versa in uno stato di
disperazione. E se fino ad oggi la BCE ha comprato titoli italiani
alleggerendo la pressione sul debito, per l'avvenire la BCE non potrà
più continuare a comperare i titoli . Nel 2014 le banche italiane
dovranno ridurre l’acquisto del debito italiano, ma i nodi sono
venuti al pettine. I soldi le banche li hanno ottenuti attraverso il
decreto IMUBANKITALIA a spese dei cittadini su cui graverà il costo
finale di questa operazione. Si tratta di un decreto truffa che vuole
cose diverse da quelle che dice: apparentemente ricapitalizzare
Bankitalia, che dovrebbe essere patrimonio degli italiani, invece
vuole finanziare le banche in crisi , ex banche pubbliche divenute
private, che controllano Bankitalia , di cui sono proprietarie. Questo
è il problema. Che fare? La prima cosa è che il Presidente della
Repubblica ai sensi dell'art 74 della Costituzione , prima di
promulgare la legge di conversione , chieda con messaggio motivato
alle Camere, una nuova deliberazione ( art 74 Costituzione), e come ha
già rilevato in relazione al decreto milleproroghe, chieda lo
stralcio dei due provvedimenti . Ma questo è il primo passo da
compiere, a mio modesto avviso. Poi in sede di applicazione del
decreto IMU, si potrà eccepire davanti al giudice la
incostituzionalità della legge di conversione. Purtroppo i cittadini
non possono adire direttamente la Corte Costituzionale

Nella bagarre scompare il vero scandalo: i 7,5 miliardi regalati alle banche

      
Decreto Imu, Ferrero: Nella bagarre scompare il vero scandalo: i 7,5 miliardi regalati alle banche

Decreto Imu, Ferrero: Nella bagarre scompare il vero scandalo: i 7,5 miliardi regalati alle banche

di Paolo Ferrero – Trasformare il confronto politico in rissa con relativi insulti e spintoni produce un effetto solo: alla fine tutti hanno ragione e tutti hanno torto, scompare il merito delle questioni e la gente non capisce più nulla, salvo che è tutto uno schifo. Il vero scandalo avvenuto ieri – e che sta passando sotto silenzio – è che il Decreto IMU prevede un regalo di 7,5 miliardi alle banche. Mentre il Paese sprofonda, con i tassi di disoccupazione più alti degli ultimi vent’anni e le aziende che ricattano i lavoratori, il governo e il Parlamento continuano a fare gli interessi delle banche e a privatizzare – cioè a svendere – i gioielli di famiglia. Questo è il punto su cui far riflettere gli italiani e su cui chiamare a rispondere questo governo che regala soldi ai ricchi e li toglie al popolo.

giovedì 30 gennaio 2014

Lista Tsipras, nuove pratiche all’orizzonte

Fonte: micromega | Autore: Alessandro Gilioli        

Per carità, ragazzi: nessun'autoesaltazione e nessun trionfalismo. La strada verso una possibile lista per un'altra Europa - in appoggio alla candidatura di Alexis Tsipras alla presidenza Ue - è ancora un sentiero di alta montagna: di quelli così scoscesi che possono strozzarti il fiato da un momento all'altro.

Però la quantità e la qualità delle adesioni al progetto - questo possiamo dirlo - sta andando oltre ogni ottimistica previsione: si va verso le 13 mila firme, tra cui quelle di alcune delle migliori persone di questo Paese. E già molto oltre i confini di quella che per semplicità viene chiamata “sinistra radicale”.

Anche tra i partiti che di quest'area fanno tradizionalmente parte si sta affermando la consapevolezza della generosità come “fattore igienico”, prodromico e indispensabile per ogni possibile risultato: perché gli errori del passato sono certo dolorosi, ma alla fine anche preziosi.

Quello che più sta cambiando rispetto agli anni scorsi, in questo difficile lavoro, sono dunque le pratiche.

Stiamo iniziando a capire che sono i mezzi a qualificare il fine, non è il fine a giustificare i mezzi.

Stiamo iniziando a capire che la nostra antica litigiosità diverte solo i nostri avversari.

Stiamo iniziando a capire ciò che prima di tutto non vogliamo: un futuro in cui i nostri figli ci chiederanno perché sono precari senza futuro e noi saremo costretti a rispondergli che è anche colpa nostra, perché eravamo troppo occupati a guardarci l'ombelico per far cambiare strada alla realtà.

Generosità, quindi.

Capacità di mettere gli obiettivi del progetto (storico, se funzionasse: possiamo dirlo senza paura della retorica) davanti a ogni vanità e ogni interesse personale o di gruppo. Senza risse, frazioni, gelosie. E anche senza permalosità o ditine alzate di chiunque è convinto di avere la ricetta giusta in tasca.

Invece: ascolto, umiltà, capacità di autocorrezione. Proposte che ognuno regala agli altri e che con gli altri possono essere discusse perché siano elaborate, cambiate, migliorate. O cestinate, se non funzionano: e in questo caso avanti altre idee.

Con questo spirito mi pare stia nascendo questa cosa e con questo spirito suggerisco a chi vuole farne parte di implementare queste pratiche nella quotidianità e nei processi decisionali che verranno: i più scivolosi, i più delicati.

Ad esempio, con la trasparenza completa del dibattito: il minor numero possibile di riunioni a porte chiuse, il massimo possibile di confronti aperti sulla Rete. Meglio ancora se il maggior numero possibile delle riunioni avviene in live streaming e con conservazione online del contenuto, commentabile.

Ad esempio con la maggior dose possibile di metodo “bottom-up”: le migliaia di persone che hanno firmato l'appello – lasciando il loro indirizzo mail - potrebbero essere coinvolte nella scelta del nome e del simbolo, così come più avanti nelle definizione delle eventuali candidature. Non è solo un “database”: è proprio una base. Una base di cittadine e cittadini che hanno aderito dal primo momento a questo progetto. Evitiamo, se possibile, di dirgli “grazie, ma adesso lasciateci lavorare”. No?

Ad esempio, ancora, con la creazione di una piattaforma web che consenta a chiunque voglia candidarsi pari opportunità di presentarsi: un curriculum con tutti i link che crede, un numero stabilito di video, un tot di caratteri di idee/programma, un’area nella quale può pubblicare quello che crede o embeddare quello che scrive sul suo blog, interagire con gli elettori e, ovviamente, fornire i collegamenti ai suoi canali sociali; meglio ancora se il candidato organizza sulla piattaforma confronti live con gli elettori e – se vogliono - con altri candidati.

Ad esempio, chiedendo a ogni candidato di rendere disponibili online tutti i contenuti che lo riguardano purché di interesse pubblico.

Ad esempio, stabilendo le regole erga omnes per eventuali incandidabilità senza aver paura di mutuarle da altre forze politiche che hanno case history virtuose in questo senso.

Ad esempio, chiedendo ai candidati di impegnarsi ad utilizzare, se eletti, una funzionalità della piattaforma con la quale consultarsi e confrontarsi con i propri elettori durante il loro mandato, magari anche con sessioni di question time online ogni settimana (meglio ancora se il question time è trasmesso in live streaming e archiviato con adeguati strumenti di indicizzazione).

Tutte piccole cose, forse, e quasi prepolitiche.

Tutte da discutere, appunto: sicuramente da approfondire, da migliorare e chissà se da questo verrà davvero qualcosa di buono.

Ma sono le azioni che contano: i nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni.

Mica lo dico io, lo diceva il Mahatma Gandhi.

Disoccupazione e orario di lavoro: Italia record

Fonte: Il Manifesto | Autore: Stefano Perri                                  

Se un italiano lavorasse le stesse ore annue di un europeo, l’occupazione dovrebbe crescere del 12,54%. Se lavorasse come un francese avremmo un più 18,34%, come un tedesco il 29,95% in più. Si tratta solo di un esercizio meccanico ma dice che è possibile lavorare meno e lavorare tutti
Che l’occupazione e il lavoro siano la que­stione cen­trale che dob­biamo affron­tare non è più messo in discus­sione da nes­suno. Nei primi anni dallo scop­pio della crisi il tasso di disoc­cu­pa­zione dell’Italia è stato più basso di quello della media euro­pea, ma negli ultimi anni il feno­meno si è dram­ma­ti­ca­mente aggra­vato fino a rag­giun­gere, secondo le ultime rile­va­zioni Istat, un tasso di del 12,7%, supe­rando di gran lunga il dato medio europeo.
Dal punto di vista dell’ideologia eco­no­mica è domi­nante l’idea che in fondo il pro­blema dell’occupazione sia un pro­blema del mer­cato. Se le con­di­zioni del mer­cato sono tali da creare un’alta disoc­cu­pa­zione, c’è poco che la poli­tica possa fare diret­ta­mente per risol­vere il problema.
Un’azione diretta del governo, secondo que­sta opi­nione, cree­rebbe ulte­riori pro­blemi, aggra­vando le con­di­zioni del debito pub­blico, distor­cendo ulte­rior­mente il mer­cato e via dicendo. Al mas­simo si può cer­care di oliare ulte­rior­mente i mec­ca­ni­smi di mer­cato magari ren­dendo più fles­si­bile il lavoro (nono­stante l’indice dell’Ocse segnali già da molto tempo che il mer­cato del lavoro ita­liano è note­vol­mente fles­si­bile in rap­porto agli altri paesi euro­pei) o cer­cando di creare dei deboli incen­tivi verso l’assunzione di nuovi lavoratori.
Che que­ste poli­ti­che si siano rive­late spesso con­tro­pro­du­centi e comun­que del tutto insuf­fi­cienti non sem­bra aver scal­fito que­sta cer­tezza. Cosic­ché si attende una sal­vi­fica ripresa della cre­scita che, nel migliore dei casi dopo qual­che anno, incen­tivi la domanda di lavoro alle­viando, ma non risol­vendo il problema.
Al con­tra­rio, ogni ragio­ne­vole idea di poli­tica eco­no­mica dovrebbe rove­sciare l’approccio: la prio­rità è l’obiettivo di piena occu­pa­zione, cui subor­di­nare gli altri obiet­tivi, com­preso il con­te­ni­mento del defi­cit pubblico.
Tra le pos­si­bili misure di poli­tica eco­no­mica volte all’aumento dell’occupazione ce ne sono due che nel nostro paese sareb­bero par­ti­co­lar­mente effi­caci, ma che sono con­si­de­rate quasi delle bestem­mie. Non a caso negli Usa, in cui nes­suno ha paura di appa­rire troppo sta­ta­li­sta o post-comunista, se ne parla invece appro­fon­di­ta­mente. La prima è quella di una assun­zione diretta di lavo­ra­tori da parte dello stato, per pro­getti pub­blici indif­fe­ri­bili, come il risa­na­mento idro­geo­lo­gico, la sal­va­guar­dia, la con­ser­va­zione e la frui­zione dei beni cul­tu­rali e altre ini­zia­tive urgenti di grande valore sociale.
Que­sto argo­mento è stato sol­le­vato in un recente e bell’articolo apparso sul mani­fe­sto  e non mi ci sof­fermo, se non per notare di pas­sag­gio che non è vero, al con­tra­rio di quanto comu­ne­mente si afferma, che in Ita­lia gli impie­gati pub­blici sono troppi in rap­porto agli altri paesi. Infatti, secondo le stime dell’Ocse, nel 2011 il nostro impiego pub­blico rap­pre­sen­tava il 13,7% dell’occupazione com­ples­siva, minore degli Stati uniti (14,4%), della media dei paesi Ocse (15,5%), del Regno Unito (18,3%) e della Fran­cia (21,9%).
Ma ciò su cui vor­rei atti­rare l’attenzione è l’orario di lavoro. La ten­denza di lungo periodo dei paesi avan­zati è la dimi­nu­zione dell’orario. Unica ecce­zione degli ultimi decenni è la Sve­zia, e comun­que il monte ore annuo è più basso dei paesi euro­pei. La realtà è che se con­fron­tiamo il numero di ore lavo­rate in un anno in media da un lavo­ra­tore ita­liano con quello degli altri paesi euro­pei, sco­priamo subito che il dato dell’Italia è molto più alto. Dai dati del sito sta­ti­stico della Com­mis­sione euro­pea si ricava che un lavo­ra­tore euro­peo ha lavo­rato nel 2013 in media l’89% di ore rispetto ad un lavo­ra­tore ita­liano. Se poi con­si­de­riamo la Fran­cia e la Ger­ma­nia i dati sono ancora più netti. Nello stesso anno in Fran­cia le ore annue per lavo­ra­tore sono state in media l’84,5% e in Ger­ma­nia il 79% di quelle ita­liane. Que­ste dif­fe­renze por­tano a risul­tati sor­pren­denti. Fac­ciamo il seguente espe­ri­mento men­tale: imma­gi­niamo che in Ita­lia sia man­te­nuto lo stesso numero di ore annue com­ples­si­va­mente lavo­rate in totale, ma che cia­scun lavo­ra­tore sia impie­gato per un numero di ore annue uguale alla media euro­pea, a quella fran­cese o a quella tede­sca. La domanda è: di quanto dovrebbe aumen­tare l’occupazione per otte­nere que­sto risultato?
In que­sta sem­plice simu­la­zione l’occupazione dovrebbe cre­scere del 12,54% se un lavo­ra­tore ita­liano dovesse lavo­rare in media le stesse ore annue di un lavo­ra­tore euro­peo, del 18,34% se dovesse lavo­rare come un lavo­ra­tore fran­cese e addi­rit­tura del 25,95% se dovesse lavo­rare come un tede­sco. Nel primo caso si azze­re­rebbe pra­ti­ca­mente il tasso di disoc­cu­pa­zione uffi­ciale, nel secondo sareb­bero occu­pati anche una parte con­si­stente dei 3.300.000 poten­ziali lavo­ra­tori sco­rag­giati, cioè coloro che sono dispo­sti a lavo­rare ma non cer­cano atti­va­mente un lavoro, nel terzo tutti que­sti ultimi sog­getti tro­ve­reb­bero occupazione.
Ovvia­mente si tratta di un eser­ci­zio che non può essere appli­cato mec­ca­ni­ca­mente alla realtà. In primo luogo non si può essere affatto sicuri che se per qual­siasi motivo dimi­nuis­sero di colpo le ore lavo­rate in un anno da cia­scun lavo­ra­tore le imprese sareb­bero dispo­ste ad assu­mere un numero pro­por­zio­nale di nuovi lavo­ra­tori. In secondo luogo l’esercizio non tiene conto del fatto che in Ita­lia la per­cen­tuale di lavo­ra­tori auto­nomi sull’occupazione è mag­giore che negli altri paesi, e i lavo­ra­tori auto­nomi ten­dono a lavo­rare un numero mag­giore di ore dei dipen­denti, per cui il dato del numero di ore lavo­rate in Ita­lia è sovra­sti­mato se appli­cato ai lavo­ra­tori dipen­denti. Anche tenendo conto di que­sta dif­fe­renza, però, le varia­zioni dell’occupazione reste­reb­bero altissime.
Quello che que­sto espe­ri­mento segnala è che esi­ste in Ita­lia un mar­gine di mano­vra amplis­simo per sti­mo­lare l’occupazione agendo sulle ore lavo­rate. Si afferma in con­ti­nua­zione che dob­biamo essere più simili agli altri paesi euro­pei e non si vede per­ché non dob­biamo seguirne l’esempio anche in que­sto caso.
Si deve poi notare che pro­prio in Ger­ma­nia il rela­ti­va­mente basso tasso di disoc­cu­pa­zione (di poco supe­riore al 5%) è stato otte­nuto anche attra­verso le poli­ti­che di job sha­ring . In Ita­lia si trat­te­rebbe, nell’immediato, di cer­care di gene­ra­liz­zare i con­tratti di soli­da­rietà, non solo al fine di evi­tare licen­zia­menti nei sin­goli casi di crisi azien­dale, ma anche al fine di soste­nere l’occupazione. Cer­ta­mente ci sono pro­blemi: pro­prio in Ger­ma­nia sono aumen­tati i  wor­king poors  anche per­ché si è esteso il numero di lavo­ra­tori part time involontari.
In un mondo per­fetto i part time invo­lon­tari non sono desi­de­ra­bili, ma non viviamo certo in un mondo per­fetto. Inol­tre il red­dito minore, che nel breve periodo i lavo­ra­tori otter­reb­bero dalle imprese, potrebbe essere soste­nuto dalle risorse che si libe­rano in seguito ad una dimi­nu­zione dei sus­sidi alla disoc­cu­pa­zione con­se­guente alla cre­scita dell’occupazione. In un periodo più lungo, i salari potreb­bero addi­rit­tura cre­scere, per effetto della dimi­nu­zione del tasso di disoc­cu­pa­zione e della cre­scita della domanda aggre­gata. In ogni caso occorre agire con deci­sione per aggre­dire la disoc­cu­pa­zione, pen­sando fuori dal coro e senza ripe­tere stan­che for­mule inef­fi­caci e que­sta è una strada che occorre intra­pren­dere se si vogliono otte­nere risultati.

martedì 28 gennaio 2014

LA RIVINCITA DI MARX

Milioni di lavoratori sono stati licenziati o si sono impoveriti a causa della crisi.
Per il settimanale statunitense Time è la conferma che le critiche
di Karl Marx al capitalismo erano giuste
 
di Michael Schuman, Time, Stati Uniti 25 marzo 2013
 
Tutti pensavano che Karl Marx fosse morto e sepolto. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il grande balzo in avanti della Cina verso il capitalismo, il comunismo era diventato una specie di sfondo pittoresco, buono per i film di James Bond o per gli slogan deliranti di Kim Jongun. Il conflitto di classe, che secondo la dottrina di Marx determina il corso della storia, sembrava essersi dissolto di fronte al benessere prodotto dal libero scambio e dalla libera impresa. La forza onnipresente della globalizzazione, capace di collegare gli angoli più remoti del pianeta attraverso lucrosi rapporti finanziari, esternalizzazioni e imprese senza confini, offriva a chiunque l’opportunità di diventare ricco: dai guru della Silicon valley alle contadine cinesi. Negli ultimi vent’anni del novecento l’Asia ha assistito a quello che forse è il più grande fenomeno di superamento della povertà nella storia umana. Tutto questo è stato possibile grazie agli strumenti capitalistici del commercio, dell’imprenditorialità e degli investimenti esteri. Il capitalismo sembrava aver mantenuto la promessa di portare tutti a un livello più alto di ricchezza e benessere.
O almeno così pensavamo. Con l’economia globale in crisi prolungata e i lavoratori di tutto il mondo alle prese con la disoccupazione, i debiti e la stagnazione dei redditi, la feroce critica di Marx sulla natura intrinsecamente ingiusta e autodistruttiva del capitalismo non può più essere liquidata facilmente. Marx teorizzò che il sistema capitalistico avrebbe inevitabilmente impoverito le masse e concentrato tutta la ricchezza nelle avide mani di pochi, provocando crisi a catena e un’esasperazione del conflitto tra i ricchi e la classe operaia. “L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione mentale al polo opposto”, scriveva Marx.
Un dossier sempre più nutrito di prove empiriche alimenta il sospetto che avesse ragione. È tristemente facile imbattersi in statistiche secondo cui i ricchi stanno diventando sempre più ricchi mentre la classe media e i poveri stanno a guardare. Secondo uno studio pubblicato nel 2012 dall’Economic policy institute, nel 2011 il reddito mediano annuo di un lavoratore maschio a tempo pieno negli Stati Uniti era di 48.202 dollari, meno che nel 1973. Tra il 1983 e il 2010 il 74 per cento dell’aumento di ricchezza negli Stati Uniti è finito nelle mani del 5 per cento più ricco della popolazione, mentre i redditi della fascia più bassa, che comprende il 60 per cento della popolazione, sono diminuiti. Non c’è da stupirsi, quindi, che qualcuno abbia rispolverato il filosofo tedesco. In Cina, il paese marxista che ha voltato le spalle a Marx, Yu Rongjun ha scritto un musical basato su Il capitale, ispirandosi ai recenti avvenimenti mondiali. “È evidente che la realtà coincide con le descrizioni fatte nel libro”, osserva il commediografo.
Sempre più arrabbiati
Non che Marx le avesse azzeccate tutte. La sua “dittatura del proletariato” non ha funzionato secondo i piani. Ma le conseguenze di questa crescente disuguaglianza sono esattamente quelle previste da Marx: la lotta di classe è tornata. I lavoratori di tutto il mondo sono sempre più arrabbiati e pretendono la loro fetta dell’economia globale. Dal congresso statunitense alle piazze di Atene ino alle catene di montaggio in Cina, i fatti della politica e dell’economia sono sempre più influenzati dalle tensioni tra capitale e lavoro. L’esito di questo scontro influenzerà la politica economica globale, il futuro del welfare, la stabilità politica in Cina e i governi, da Washington a Roma. Cosa direbbe oggi Marx? “Più o meno ‘ve l’avevo detto’”, afferma Richard Wolf, economista marxista della New school a New York. “La disparità di reddito sta producendo un livello di tensione che non avevo mai visto in tutta la mia vita”.
Negli Stati Uniti le tensioni sociali sono in aumento. C’è la percezione diffusa di una società divisa tra il 99 per cento (la gente comune che fatica ad arrivare alla fine del mese) e l’1 per cento (i super-ricchi che diventano sempre più ricchi). In un sondaggio realizzato nel 2012 dal Pew research center, due terzi degli interpellati (il 19 per cento in più rispetto al 2009) hanno risposto che negli Stati Uniti c’è un conflitto “forte” o “molto forte” tra ricchi e poveri.
L’inasprimento del conflitto ha dominato la politica statunitense. Lo scontro tra i partiti sul problema del deficit di bilancio è stato, in larga misura, uno scontro di classe. Ogni volta che il presidente Barack Obama parla di aumentare le tasse ai più ricchi per risanare il bilancio, i conservatori gridano alla “guerra di classe” contro i ricchi. Ma anche loro stanno facendo una lotta di classe. Il piano di risanamento fiscale dell’amministrazione colpisce la classe media e i poveri con i tagli ai servizi sociali.
Ci sono segnali che questo nuovo classismo stia spostando il dibattito sulla politica economica statunitense. Nel centro del mirino c’è la teoria del trickle down, secondo cui il successo dell’1 per cento porta dei benefici anche al 99 per cento. Secondo David Madland, direttore della commissione di esperti Center for american progress, la campagna per le presidenziali del 2012 ha riportato all’attenzione la necessità di ricostruire la classe media secondo una nuova scala di priorità politiche. “Il modo di pensare l’economia è stato stravolto”, dice Madland. “Ma sembra che stia avvenendo un cambiamento radicale”.
La campagna di Hollande
La ferocia di questa nuova lotta di classe è ancora più evidente in Francia. Nel maggio del 2012 il divario tra ricchi e poveri, accentuato dalla crisi, è apparso sempre più intollerabile ai cittadini, che hanno eletto presidente il socialista François Hollande, famoso per la frase “i ricchi non mi piacciono”. La chiave della sua vittoria in campagna elettorale è stata la promessa di aumentare le tasse ai più ricchi per mantenere il welfare. Per evitare i drastici tagli alla spesa pubblica introdotti in altri paesi europei, Hollande ha proposto di aumentare l’aliquota massima dell’imposta sui redditi addirittura al 75 per cento. La proposta è stata bocciata dalla corte costituzionale, ma il presidente sta cercando il sistema per introdurre una misura equivalente. Ribaltando una decisione particolarmente impopolare del suo predecessore, Hollande ha riportato l’età pensionabile a sessant’anni per alcune categorie di lavoratori. Molti in Francia vorrebbero che si spingesse addirittura oltre. “La proposta sulle tasse dev’essere il primo passo di una presa d’atto da parte del governo che il capitalismo, nella sua forma attuale, è diventato così iniquo e malato che senza riforme profonde rischia di implodere”, dice Charlotte Boulanger, esperta che si occupa di ong.
Le mosse di Hollande hanno scatenato la controffensiva dei capitalisti. “Il potere politico nasce dalla canna del fucile”, diceva Mao Zedong, ma in un mondo dove das Kapital è sempre più mobile le armi della lotta di classe sono cambiate. Piuttosto che darla vinta a Hollande, molti ricchi francesi si stanno spostando all’estero, portando con sé preziosi posti di lavoro e investimenti. Jean-Émile Rosenblum, fondatore del sito di ecommerce Pixmania, si è trasferito negli Stati Uniti, dove spera di trovare un clima più accogliente per gli imprenditori. “Il conflitto di classe è una normale conseguenza della crisi, ma la strumentalizzazione politica che se n’è fatta è demagogica e discriminatoria”, dice Rosenblum. “Invece di affidarsi agli imprenditori per creare le imprese e i posti di lavoro di cui abbiamo bisogno, la Francia li caccia via”.
Il divario tra ricchi e poveri rischia di diventare esplosivo anche in Cina. Nei mercati emergenti lo scontro tra ricchi e poveri sta diventando un motivo di preoccupazione per la politica. Contrariamente a quanto pensano molti statunitensi ed europei, la Cina non è il paradiso dei lavoratori. La “ciotola di ferro per il riso” – un’espressione dell’epoca di Mao che indicava un posto di lavoro per tutta la vita – è scomparsa insieme al maoismo, e le riforme hanno lasciato ai lavoratori pochi diritti. Anche se i salari nelle città cinesi stanno crescendo in modo significativo, il divario tra ricchi e poveri è ancora molto ampio. Un altro sondaggio del Pew center ha rivelato che quasi la metà dei cinesi considera la distanza tra ricchi e poveri un problema molto grave, mentre l’80 per cento concorda con l’affermazione che in Cina “i ricchi si arricchiscono e i poveri stanno sempre peggio”.
Nelle città industriali cinesi il risentimento sta arrivando al punto di ebollizione. “La gente pensa che facciamo la bella vita, ma la realtà della fabbrica è molto diversa”, dice Peng Ming, operaio nell’enclave industriale di Shenzhen, nel sud della Cina. Alle prese con orari interminabili, costi sempre più alti, manager indifferenti e frequenti ritardi nei pagamenti, i lavoratori cominciano davvero a somigliare al proletariato. “Il modo in cui i ricchi fanno i soldi è sfruttare i lavoratori”, dice Guan Guohau, un altro operaio di Shenzhen. “Il comunismo è la nostra speranza”. Se il governo non interverrà per migliorare le loro condizioni, dicono gli operai, i lavoratori saranno sempre più motivati a prendere in mano la situazione. “I lavoratori si organizzeranno”, prevede Peng. “I lavoratori devono essere uniti”.
Probabilmente sta già succedendo. Misurare il malcontento dei lavoratori in Cina è difficile, ma secondo gli esperti è in aumento. Una nuova generazione di operai delle fabbriche – più informati dei genitori grazie a internet – è diventata più esplicita nel richiedere migliori condizioni salariali e lavorative. Per il momento la risposta è stata contraddittoria. Il governo ha alzato i salari minimi per sostenere i redditi, ha inasprito le leggi sul lavoro per dare maggiori tutele ai lavoratori. In alcuni casi ha concesso il diritto di sciopero. Ma le iniziative di mobilitazione da parte dei lavoratori sono ancora fortemente scoraggiate, spesso con la forza. Ecco perché il proletariato cinese crede poco alla sua “dittatura”. “Il governo pensa più alle aziende che a noi”, afferma Guan. Se Xi Jinping non riformerà l’economia ridistribuendo una parte dei frutti della crescita alla gente comune, si rischia di alimentare il malcontento sociale.
È proprio quello che avrebbe previsto Marx. Una volta che il proletariato avesse preso coscienza dei suoi interessi di classe, avrebbe rovesciato l’iniquo sistema capitalistico rimpiazzandolo con un nuovo paradiso socialista. I comunisti “dichiarano apertamente che i loro ini possono essere raggiunti solo con il rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale inora esistente. I proletari non hanno da perdervi che le loro catene”, scriveva Marx.
Sistemi da rivedere
In tutto il mondo l’insofferenza dei lavoratori sta crescendo. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza in città come Madrid e Atene, protestando contro la paurosa disoccupazione e contro le misure di austerità che stanno ulteriormente peggiorando la situazione. Per ora, però, la rivoluzione marxista non si è ancora materializzata. I lavoratori avranno anche problemi comuni, ma non si coalizzano tra di loro per risolverli. Negli Stati Uniti, per esempio, durante la crisi le iscrizioni al sindacato hanno continuato a diminuire, mentre il movimento Occupy Wall street ha esaurito la sua spinta. Chi protesta, spiega Jacques Rancière, esperto di marxismo dell’università di Parigi, non punta a scalzare il capitalismo, come aveva previsto Marx, ma semplicemente a riformarlo. “Tra i manifestanti non si sente invocare il rovesciamento o la distruzione dei sistemi socioeconomici esistenti”, dice Rancière. “Oggi il conflitto di classe chiede una revisione di questi sistemi per far sì che diventino più praticabili e sostenibili nel lungo termine attraverso una ridistribuzione della ricchezza”.
Nonostante le rivendicazioni, le politiche economiche attuali continuano ad alimentare le tensioni di classe. In Cina i vertici del partito hanno promesso di ridurre le disparità di reddito, ma in pratica hanno evitato di fare tutte quelle riforme (lotta alla corruzione, liberalizzazione del settore finanziario) che servirebbero a raggiungere l’obiettivo. I governi europei, oppressi dai debiti, hanno tagliato i programmi di welfare nonostante la disoccupazione in aumento e la crescita stagnante. Nella maggior parte dei casi la soluzione scelta per rimediare al capitalismo è stata introdurre ancora più capitalismo. I creditori di Roma, Madrid e Atene spingono per smantellare le tutele dei lavoratori e per deregolamentare i mercati interni. Lo scrittore britannico Owen Jones, autore di Chavs: the demonization of the working class (Coatti: la demonizzazione della classe operaia) l’ha definita “una guerra di classe dall’alto”.
Sono rimasti in pochi a contrastarla. Il formarsi di un mercato del lavoro globale ha spuntato le armi dei sindacati in tutto il mondo industrializzato. La sinistra, trascinata a destra dall’offensiva liberista di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, non è riuscita a trovare un’alternativa credibile. “Praticamente tutti i partiti progressisti o di sinistra, chi prima e chi dopo, hanno contribuito all’ascesa e all’allargamento dei mercati finanziari e allo smantellamento dei sistemi di welfare per dimostrare di essere capaci di fare le riforme”, osserva Rancière. “Direi che la possibilità che un partito o un governo laburista o socialista, in qualsiasi paese del mondo, possa ripensare in modo significativo – figuriamoci rivoluzionare – il sistema economico esistente è molto esile”. Questo lascia aperta una possibilità inquietante: che Marx abbia diagnosticato non solo le imperfezioni del capitalismo, ma anche gli esiti di queste imperfezioni. Se la politica non troverà il modo di concedere più opportunità a tutti, i lavoratori di tutto il mondo potrebbero unirsi davvero. E Marx si prenderebbe la sua rivincita.
Michael Schuman
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